MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME I CAPITOLO 3



III. Alla festa dei Tabernacoli. Gioacchino e Anna possedevano la Sapienza

   23 agosto 1944.

   3.1Prima che venga il seguito, faccio una nota.
   La casa non mi è parsa quella ben nota di Nazaret. Almeno l’ambiente è molto diverso. Anche l’orto-giardino è più vasto, e oltre si vedono i campi. Non molti, ma insomma ci sono. Dopo, quando Maria è sposa, vi è solo l’orto, vasto ma limitato a orto, e questa stanza, che ho visto, non l’ho vista mai nelle altre visioni. Non so se pensare che per motivi pecuniari i genitori di Maria si disfecero[5] di parte del loro avere o se Maria, uscendo dal Tempio, passò in un’altra casa, forse datale da Giuseppe. Non ricordo se nelle passate visioni e lezioni ebbi mai accenno sicuro che la casa di Nazareth era la casa natìa.
   La mia testa è molto stanca. E poi, soprattutto per i dettati, io ne dimentico subito le parole, pur rimanendomene incisi i comandi e nell’anima la luce. Ma i particolari dileguano immediatamente. Se dopo un’ora dovessi ripetere quel che udii, tolto una o due frasi principali, non saprei più niente. Mentre le visioni restano vive alla mente, perché le ho dovute osservare da me. I dettati li ricevo. Quelle invece le devo percepire. Restano perciò vive nel pensiero, che ha faticato a notarle nelle loro fasi.
   Speravo ci fosse un dettato sulla visione di ieri. Invece niente.

   3.2Comincio a vedere e scrivo.
   Fuori delle mura di Gerusalemme, sui colli e fra gli ulivi, vi è gran folla. Pare un enorme mercato. Ma non ci sono banchi e baracconi. Non vocio di ciarlatani e venditori. Non giuochi. Vi sono tante tende di lana ruvida, certo impermeabili all’acqua, stese su pioli confitti al suolo, e legate ai pioli sono frasche verdi che fanno ornamento e frescura. Altre, invece, sono tutte di frasche confitte al suolo e legate, che fanno come delle piccole gallerie verdi. Sotto ognuna, gente di ogni età e condizione, e un parlare pacato e raccolto, rotto solo da qualche strillo di bambino.
Scende la sera e già le luci di lucernette a olio splendono qua e là per l’accampamento strano. Intorno alle luci qualche famiglia consuma la cena stando seduta per terra, le madri coi più piccoli in grembo, e molti di questi, stanchi, si addormentano con ancora il pezzo di pane nelle ditine rosee e cadono col capino sul petto materno come pulcini sotto la chioccia, e le madri finiscono di mangiare come possono, con una sola mano libera, mentre l’altra tiene contro il cuore il figliolino. Altre famiglie, invece, non sono ancora a cena e parlano nel semibuio del crepuscolo, attendendo che il cibo sia pronto. Dei focherelli sono accesi qua e là, e intorno ad essi si affannano le donne. Qualche ninna nanna lenta lenta, direi quasi lamentosa, culla un infante che stenta ad addormentarsi.
   In alto un bel cielo sereno, che diviene sempre più azzurro cupo sino a parere un enorme velario di velluto pastoso d’un nero azzurro, su cui, piano piano, invisibili artefici e decoratori appuntino gemme e lumini, quali isolati, quali in bizzarre linee geometriche, fra le quali primeggia l’Orsa maggiore e minore con la sua forma di carro dalla stanga appoggiata al suolo, poi che i buoi furono staccati dal giogo. La stella polare ride con tutti i suoi bagliori.
   Comprendo che è ottobre perché una grossa voce d’uomo lo dice: «Bello questo ottobre[6] come pochi ci furono!».

   3.3Ecco Anna che viene da un fuoco con delle cose fra le mani, stese sul pane che è largo e piatto come una focaccia delle nostre e fa anche da vassoio. Alle gonnelle ha Alfeo, che ciaramella con la sua vocetta. Gioacchino, che sulla soglia della sua piccola capanna tutta di frasche parla con un uomo sui tren­t’anni — che Alfeo da lontano saluta con uno stridetto dicendo: «Papà» — quando vede avanzarsi Anna si affretta ad accendere la lucernetta.
   Anna passa con il suo incedere regale fra le file delle capanne. Regale e pure umile. Non è altera con nessuno. Rialza il piccino di una povera, molto povera donna, che le è caduto, inciampando nella sua corsa sbarazzina, proprio ai piedi e, posto che si è impiastricciato il visetto di terra e piange, ella lo pulisce e consola e lo rende alla madre accorsa, che si scusa, dicendo: «Oh! non è nulla![7] Sono contenta che non si sia fatto male. È un bel bambino. Quanto ha?».
«Tre anni. È il penultimo e fra poco ne avrò un altro. Ho sei maschi. Ora vorrei una bambina… Per la mamma è molto una bambina…».
   «L’Altissimo ti ha molto consolata, donna!». Anna sospira.
   E l’altra: «Sì. Sono povera, ma i figli sono la nostra gioia e già i più grandicelli aiutano al lavoro. E tu, signora (che Anna sia di più elevata condizione tutto lo mostra, e la donna l’ha visto), quanti bambini hai?».
   «Nessuno».
   «Nessuno?! Non è tuo questo?».
   «No, di una vicina molto buona. È il mio conforto…».
   «Ti sono morti o…».
   «Non ne ho mai avuti».
   «Oh!». La povera donna la guarda con pietà.
   Anna la saluta con un sospirone e va alla sua capanna.
   «Ti ho fatto attendere, Gioacchino. Mi ha trattenuta una povera donna madre di sei maschi, pensa!, e fra poco avrà un altro figlio».
Gioacchino sospira.
   Il padre d’Alfeo chiama il suo bimbo, ma questo risponde: «Con Anna resto io. L’aiuto». Ridono tutti.
   «Lascialo. Non dà noia. Ancora non è tenuto alla Legge. Qui o lì non è che un uccellino che mangia», dice Anna e siede col bimbo in grembo a cui dà focaccia e, mi pare, pesce arrostito. Vedo che lavora prima di darlo, forse gli leva la spina. Prima ha servito il marito. Ultima mangia lei.

   3.4La notte è sempre più gremita di stelle e i lumi sempre più numerosi nel campo. Poi piano piano molti lumi si spengono. Sono di quelli che hanno cenato per primi e che ora si mettono a dormire. Anche il brusio diminuisce lentamente. Voci di bimbo non se ne odono più. Solo qualche lattante fa sentire la sua vocina di agnellino che cerca il latte della mamma. La notte soffia il suo alito sulle cose e le persone, e annulla pene e ricordi, speranze e rancori. Anzi, forse questi due sopravvivono, per quanto attutiti, anche nel sonno, nel sogno.
   Anna lo dice al marito, mentre culla Alfeo che comincia a dormirle fra le braccia: «Questa notte ho sognato che il prossimo anno io verrò alla Città Santa per due feste invece che per una sola. E una sarà l’offerta al Tempio della mia creatura… Oh! Gioacchino!…».
   «Spera, spera, Anna. Altro non hai sentito? Il Signore nulla ti ha mormorato al cuore?».
   «Nulla. Un sogno soltanto…».
   «Domani è l’ultimo giorno di preghiera. Già tutte le offerte sono state fatte. Ma le rinnoveremo domani ancora, solennemente. Vinceremo Dio col nostro fedele amore. Io penso sempre che ti abbia ad accadere come ad Anna d’Elcana».
   «Lo voglia Dio… e avessi subito chi mi dice: “Va’ in pace. Il Dio d’Israele ti ha concesso la grazia che chiedi!”».
   «Se la grazia verrà, il tuo bambino te lo dirà rivoltandosi per la prima volta nel tuo seno, e sarà voce di innocente, perciò voce di Dio».
   Ora il campo tace nel buio. Anche Anna riporta Alfeo alla capanna contigua e lo pone da sé sul giaciglio di fieno presso ai fratellini, che dormono già. E poi si corica a fianco di Gioacchino, e anche la loro lampadetta si spegne. Una delle ultime stelline della terra. Restano più belle le stelle del firmamento a vegliare su tutti i dormenti.

   
   3.5
Dice Gesù:
   «I giusti sono sempre dei sapienti perché, essendo amici di Dio, vivono in sua compagnia e sono da Lui istruiti; da Lui, Infinita Sapienza.
   I miei nonni erano giusti e possedevano perciò la sapienza. Potevano dire con verità quanto dice il Libro, cantando le lodi della Sapienza nel libro[8] di essa: “Io l’ho amata e ricercata fin dalla giovinezza e procurai di prenderla in sposa”.
   Anna d’Aronne era la donna forte di cui parla l’Avo nostro. E Gioacchino, stirpe di re Davide, non aveva cercato tanto avvenenza e ricchezza quanto virtù. Anna possedeva una grande virtù. Tutte le virtù unite come mazzo fragrante di fiori per divenire un’unica bellissima cosa, che era la Virtù. Una virtù reale, degna di stare davanti al trono di Dio.
   Gioacchino aveva dunque sposato due volte la sapienza “amandola più d’ogni altra donna”: la sapienza di Dio chiusa nel cuore della donna giusta. Anna d’Aronne altro non aveva cercato che di unire la sua vita a quella di un uomo retto, certa che nella rettezza è la gioia delle famiglie.

   3.6E ad esser l’emblema della “donna forte” non le mancava che la corona dei figli, gloria della donna sposata, giustificazione del coniugio, di cui parla Salomone, come alla sua felicità non mancavano che questi figli, fiori dell’albero che ha fatto un sol uno con l’albero vicino e ne ottiene dovizia di nuovi frutti, in cui le due bontà si fondono in una, perché, per conto dello sposo, mai nessuna delusione le era venuta.

   3.7Ella, ormai volgente a vecchiezza, moglie da più e più lustri a Gioacchino, era sempre per lui “la sposa della sua giovinezza, la sua gioia, la cerva carissima, la graziosa gazzella”, le cui carezze avevano sempre il fresco incanto della prima sera nuziale e affascinavano dolcemente il suo amore, tenendolo fresco come fiore che una rugiada irrora e ardente come fuoco che sempre una mano alimenta. Perciò, nella loro afflizione di senza figli, l’un l’altro si dicevano “parole di consolazione nei pensieri e negli affanni”.

   3.8E su loro la Sapienza eterna, quando fu l’ora, dopo averli istruiti nella vita, li illuminò con i sogni della notte, diana del poema di gloria che doveva da essi venire e che era Maria Ss., la Madre mia. Se la loro umiltà non pensò a questo, il loro cuore però trepidò nella speranza al primo squillo della promessa di Dio. Già è certezza nelle parole di Gioacchino: “Spera, spera… Vinceremo Dio col nostro fedele amore”. Sognavano un figlio: ebbero la Madre di Dio.

   3.9Le parole del libro della Sapienza paiono scritte per loro:
“Per lei acquisterò gloria davanti al popolo… per essa otterrò l’immortalità e lascerò eterna memoria di me a quelli che dopo me verranno”. Ma, per ottenere tutto questo, dovettero farsi re di una virtù verace e duratura che nessun evento lese. Virtù di fede. Virtù di carità. Virtù di speranza. Virtù di castità. La castità degli sposi! Essi l’ebbero, ché non occorre esser vergini per esser casti. E i talami casti hanno a loro custodi gli angeli e ad essi scendono figli buoni, che della virtù dei genitori fanno la norma della loro vita.

   3.10Ma ora dove sono? Ora non si vogliono figli, ma non si vuole però neppure castità. Onde Io dico che l’amore e il talamo sono profanati».

 
[5] si disfecero, invece di si disfarono, è correzione nostra. Le correzioni, come questa, di sporadici errori formali e di sviste ortografiche non saranno più annotate. Non vengono annotate, inoltre, le sistematiche correzioni di errori abituali o almeno ricorrenti, dei quali diamo alcuni esempi: coeficente, dasse e stasse, il Zelote, inocuo e inocquo, sopranaturale e sopratutto, vigiglia; la forma verbale se tu dovesti al posto di se tu dovessi, che può verificarsi con qualsiasi verbo; e altri simili errori o inesattezze formali. Sempre per quanto riguarda la forma, abbiamo regolato l’uso delle iniziali maiuscole, risistemato i capoversi, ridotto all’essenziale il sottolineato (che sulla stampa viene reso con il corsivo), ritoccato le virgole e operato qualche altro intervento della stessa portata.
[6] ottobre: delle volte – così annota MV su una copia dattiloscritta – i nomi sono detti in italiano per far capire meglio al lettore. La corrispondenza tra i mesi del calendario ebraico, regolato sull’anno lunare che iniziava in primavera (come è detto in 68.4), e i mesi del nostro calendario, regolato sull’anno solare, è approssimativa: 1. nisam, o abid come in 413.6 (marzo-aprile); 2. ziv, o zio come nella volgata e in 461.7 (aprile-maggio); 3. sivan (maggio-giugno); 4. tamnuz, o tanuz come in 442.3, o tamuz come in 461.16 (giugno-luglio); 5. ab (luglio-agosto); 6. elul (agosto-settembre); 7. tisri o etanim (settembre-ottobre); 8. marchesvan o bul (ottobre-novembre); 9. casleu (novembre-dicembre); 10. tebet (dicembre-gennaio); 11. scebat (gennaio-febbraio); 12. adar (febbraio-marzo). Il mese di marchesvan o bul non è mai menzionato nell’opera, che forse riserva all’ottavo mese il nome di etanim scindendolo da tisri. I mesi avevano inizio con il novilunio, chiamato neomenia. Per far recuperare il ritardo del ciclo lunare sull’anno solare, ogni tanto si raddoppiava il mese di adar e si aveva un anno di tredici mesi (chiamato anno embolismico in 114.8).
[7] Oh! non è nulla! Le battute del dialogo che inizia qui sono scritte in continuazione sulla pagina autografa, in calce alla quale MV annota: (Per risparmio di carta scrivo i dialoghi senza andare a capo riga. Prego farlo nel copiarli).
[8] nel libro, cioè in: Sapienza 8, 2; l’Avo nostro, cioè Salomone, in: Proverbi 31, 10-31. Seguono citazioni da: Proverbi 5, 18-19; Sapienza 8, 10.13.