MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME I CAPITOLO 31



XXXI. Visita di Zaccaria. La santità di Giuseppe e l'ubbidienza ai sacerdoti

   8 giugno 1944.

   31.1Vedo il lungo stanzone dove ho visto l’incontro dei Magi con Gesù e la loro adorazione. Comprendo di essere nella casa ospitale dove è stata accolta la sacra Famiglia. E assisto all’arrivo di Zaccaria. Elisabetta non c’è.
   La padrona di casa corre fuori, sul ballatoio, incontro all’ospite che arriva, e lo conduce presso una porta e bussa. Poi si ritira discreta.
   Giuseppe apre ed ha una esclamazione di giubilo vedendo Zaccaria. Lo fa entrare in una stanzetta piccola come un corridoio. «Maria sta dando il latte al Bambino. Attendi un poco. Siedi, ché sarai stanco». E fa posto all’ospite sul suo giaciglio sedendosi al suo fianco.
   Odo che Giuseppe chiede del piccolo Giovanni, e Zaccaria risponde: «Cresce florido come un puledrino. Ma ora soffre un poco per i denti. Non abbiamo voluto portarlo per questo. Fa molto freddo. Perciò non è venuta neanche Elisabetta. Non lo poteva lasciare senza latte. Se ne è accorata. Ma è così rigida la stagione!».
   «È molto rigida infatti», risponde Giuseppe.
   «Mi ha detto l’uomo che mi avete mandato che eravate senza una casa quando Egli nacque. Chissà quanto avrete dovuto soffrire».
   «Sì, molto davvero. Ma la paura nostra era più grande del disagio. Avevamo paura che nuocesse al Bambino. E per i primi giorni dovemmo stare lì. Non mancavamo di nulla, per noi, perché i pastori portarono la buona novella ai betlemiti e molti vennero con doni. Ma mancava una casa, mancava una camera riparata, un letto… e Gesù piangeva tanto, specie di notte, per il vento che entrava da ogni dove. Facevo un poco di fuoco. Ma poco, perché il fumo faceva tossire il Bambino… e il freddo restava. Due animali scaldano poco, specie là dove l’aria entra da tutte le parti! Mancava acqua calda per lavarlo, mancava biancheria asciutta per cambiarlo. Oh! ha sofferto molto! E Maria soffriva nel vederlo soffrire. Soffrivo io… puoi pensare Lei che gli è Madre. Gli dava latte e lacrime, latte e amore… Ora qui si sta meglio. Avevo preparato una così comoda cuna e Maria l’aveva empita di un morbido materassino. Ma è a Nazareth! Ah! se fosse nato là, sarebbe stato diverso!».
   «Ma il Cristo doveva nascere a Betlem. Era profetizzato».

   31.2Entra Maria, che ha udito le voci. È tutta vestita di lana bianca. Si è levato l’abito scuro che aveva nel viaggio e nella grotta, ed è tutta bianca nella sua veste, come già l’ho vista altre volte. Non ha nulla sul capo, e nelle braccia ha Gesù che dorme, sazio di latte, nelle sue candide fasce.
   Zaccaria si alza riverente e si inchina con venerazione. Poi si accosta e guarda Gesù con i segni del più grande rispetto. Sta curvo non tanto per vederlo meglio, quanto per dargli omaggio. Maria glielo offre e Zaccaria lo prende con una tale adorazione, che pare sollevi un ostensorio. È infatti l’Ostia quella che egli prende sulle braccia, l’Ostia già offerta e che sarà consumata dopo che si sarà data agli uomini in cibo d’amore e di redenzione. Zaccaria rende Gesù a Maria.

   31.3Si siedono tutti e Zaccaria ripete a Maria il motivo per cui Elisabetta non è venuta e il suo dolore. «Aveva preparato in questi mesi delle tele per il tuo benedetto Figlio. Te le ho portate. Sono sul carro, da basso».
   Si alza e va fuori, e torna con un involto grosso e uno più piccino. Sia da quello grosso, di cui viene liberato subito da Giuseppe, come dall’altro, trae subito i suoi doni: una morbida coltre di lana tessuta a mano e dei lini e delle piccole vesti. Dall’altro, del miele, della candidissima farina e burro e mele per Maria, e focacce impastate e cotte da Elisabetta e tante altre cosette, che dicono l’affetto materno della riconoscente cugina per la giovane Madre.
   «Dirai a Elisabetta che le sono grata, e a te pure sono grata. L’avrei vista tanto volentieri, ma comprendo le ragioni. E anche avrei voluto rivedere il piccolo Giovanni…».
   «Ma lo vedrete in primavera. Verremo a trovarvi».
   «Nazareth è troppo lontana», dice Giuseppe.

   31.4«Nazareth? Ma dovete rimanere qui. Il Messia deve crescere a Betlemme. È la città di Davide. L’Altissimo l’ha condotto, attraverso la volontà di Cesare, a nascere nella terra di Davide, la terra santa della Giudea. Perché portarlo a Nazareth? Voi sapete come presso i giudei sono giudicati i nazareni. Domani questo Bambino dovrà essere il Salvatore del suo popolo. Non bisogna che la città capitale sprezzi il suo Re perché viene da una terra che essa disprezza. Voi sapete quanto me come è cavilloso il Sinedrio e come sprezzanti le tre caste principali… E poi, qui, vicino ancora a me, potrò aiutarvi alquanto e mettere tutto quanto ho, non tanto di cose materiali ma di doni morali, a servizio di questo Neonato. E quando sarà in età di capire, sarò beato di essergli maestro come al mio bambino, per ottenere poi che, fatto grande, mi benedica. Dobbiamo pensare che Egli è destinato a tanta sorte e che perciò deve potersi presentare al mondo con tutte le carte per vincere facilmente la sua partita. Egli, certo, possederà la Sapienza. Ma anche solo il fatto che un sacerdote gli sia stato maestro lo renderà più accetto ai difficili farisei e agli scribi e gli spianerà la missione».

   31.5Maria guarda Giuseppe e Giuseppe guarda Maria. Sopra il capo innocente del Bambino, che dorme roseo e ignaro, si intreccia un muto scambio di domande. E sono domande velate di tristezza. Maria pensa alla sua casetta. Giuseppe pensa al suo lavoro. Qui tutto è da rifare, in un luogo dove solo pochi giorni prima erano degli sconosciuti. Qui non c’è niente di quelle cose care lasciate là e preparate con tanto amore per il Bambino.
   E Maria lo dice: «Ma come facciamo? Là abbiamo lasciato tutto. Giuseppe aveva tanto lavorato per il mio Gesù, senza risparmio di fatica e di denaro. Aveva lavorato di notte, per poter lavorare per gli altri di giorno e guadagnare così tanto da poter comperare i legni più belli, la lana più soffice, il lino più candido per preparare tutto per Gesù. Aveva costruito alveari e aveva perfino lavorato da muratore per dare un’altra sistemazione alla casa, perché la cuna potesse essere nella mia stanza e starvi sinché Gesù fosse più grande, e poi potesse dar posto al letto, perché Gesù starà con me sinché non sarà giovinetto».
   «Giuseppe può andare a prendere ciò che avete lasciato».
   «E dove metterlo? Tu lo sai, Zaccaria, che noi siamo poveri. Non abbiamo che il lavoro e la casa. Questa e quello ci dànno di che andare avanti senza fame. Ma qui… lavoro ne troveremo, forse. Ma avremo sempre da pensare ad una casa. Questa buona donna non può ospitarci continuamente. Ed io non posso sacrificare Giuseppe più di quanto già non lo sia per me!».
   «Oh! io! Per me non è nulla! Penso al dolore di Maria, io. Al dolore di non vivere nella sua casa…».
   Maria ha due lacrimoni.
   «Penso che quella casa le deve esser cara come il Paradiso, per il prodigio che ivi le si è compito… Parlo poco, ma capisco tanto. Non fosse per questo, non mi cruccerei. Lavorerò il doppio, ecco tutto. Sono forte e giovane per lavorare il doppio di quanto usavo e provvedere a tutto. E se Maria non soffre troppo… e se tu dici che è bene fare così… per me… eccomi. Faccio quello che vi pare più giusto. Basta che a Gesù ciò sia utile».
   «E utile sarà certo. Pensateci e ne vedrete le ragioni».
   «Si dice anche che il Messia sarà chiamato Nazareno[70]…», obbietta Maria.
   «Vero. Ma almeno, sinché non è adulto, fate che cresca in Giudea. Dice il Profeta: “E tu, Betlem Efrata, sarai la più grande perché da te uscirà il Salvatore”. Non parla di Nazareth. Forse quell’appellativo gli sarà dato per non sappiamo che motivo. Ma la sua terra è questa».
   «Lo dici tu, sacerdote, e noi… e noi… con dolore ti ascoltiamo… e ti diamo retta. Ma che dolore!… Quando vedrò quella casa dove divenni Madre?». Maria piange piano. E io capisco questo suo pianto. Oh! se lo capisco!
   La visione mi cessa su questo pianto di Maria.
   

   31.6Dice, poi, Maria:
   «Lo capisci. Lo so. Ma mi vedrai piangere più forte ancora.
   Per ora ti sollevo lo spirito mostrandoti la santità di Giuseppe, che era uomo, ossia che non aveva altro aiuto al suo spirito che la sua santità. Io avevo tutti i doni di Dio nella mia condizione di Immacolata. Non sapevo d’esserlo. Ma nell’anima mia essi erano attivi e mi davano spirituali forze. Ma egli non era immacolato. L’umanità era in lui con tutto il suo peso greve, ed egli doveva innalzarsi verso la perfezione con tutto quel peso, a costo della continua fatica di tutte le sue facoltà per volere raggiungere la perfezione ed esser gradito a Dio.
   Oh! santo mio sposo! Santo in tutte le cose, anche nelle più umili cose della vita. Santo per la sua castità d’angelo. Santo per la sua onestà d’uomo. Santo per la sua pazienza, per la sua operosità, per la sua serenità sempre uguale, per la sua modestia, per tutto.
   Essa santità brilla anche in questo avvenimento. Un sacerdote gli dice: “È bene che tu ti stabilisca qui”, ed egli, pur sapendo a quanta maggior fatica va incontro, dice: “Per me non è nulla. Penso al dolore di Maria. Non fosse per questo, non mi cruccerei per me. Basta che ciò sia utile a Gesù”. Gesù, Maria: i suoi angelici amori. Non ha amato altro sulla Terra, questo mio santo sposo. E a questo amore ha fatto servo se stesso.
   Lo hanno fatto protettore delle famiglie cristiane e dei lavoratori e di tante categorie. Ma non solo degli agonizzanti, degli sposi, degli operai, sibbene anche dei consacrati si dovrebbe farlo. Quale fra i consacrati della Terra, al servizio di Dio, quale che sia, che si sia consacrato come lui al servizio del suo Dio, accettando tutto, rinunciando a tutto, sopportando tutto, compiendo tutto con prontezza, con spirito ilare, con umore costante, come egli fece? No, non ve n’è.

   31.7E un’altra cosa ti faccio osservare, anzi due.
   Zaccaria è un sacerdote. Giuseppe non lo è. Ma pure osserva come colui che non lo è ha lo spirito in Cielo più del sacerdote. Zaccaria pensa umanamente e umanamente interpreta le Scritture perché, non è la prima volta che lo fa, si fa troppo guidare dal buon senso umano. Ne è stato punito. Ma ci ricasca ancora, benché meno gravemente. Aveva detto per la nascita di Giovanni: “Come può avvenire se io sono vecchio e mia moglie è sterile?”. Dice ora: “Per spianarsi la via, il Cristo deve crescere qui” e, con quella radichetta di orgoglio che persiste anche nei migliori, pensa di poter essere lui utile a Gesù. Non utile come vuol esserlo Giuseppe servendolo, ma utile facendogli da maestro… Dio lo ha perdonato per la buona intenzione. Ma aveva mai bisogno il “Maestro” di avere maestri?
   Io cercai di fargli vedere la luce nelle profezie. Ma egli si sentiva più dotto di me e usava questo suo sentire a suo modo. Avrei potuto insistere e vincere. Ma — ecco la seconda osservazione che ti faccio fare — ma ho rispettato il sacerdote per la sua dignità, non per il suo sapere.

 31.8Il sacerdote è, generalmente, sempre illuminato da Dio. Ho detto “generalmente”. Lo è quando è un vero sacerdote. Non è la veste quella che consacra, è l’anima. Per giudicare se uno è un vero sacerdote bisogna giudicare ciò che esce dalla sua anima. Come ha detto il mio Gesù, è dall’anima che escono le cose che santificano o che contaminano, quelle che informano tutto il modo di agire di un individuo. Orbene, quando uno è un vero sacerdote, è generalmente sempre ispirato da Dio. Degli altri, che tali non sono, occorre avere soprannaturale carità e pregare per loro.
   Ma mio Figlio ti ha già messa al servizio di questa redenzione e non dico di più. Sii lieta di soffrire perché aumentino i veri sacerdoti. E tu riposa sulla parola di chi ti guida. E credi e ubbidisci al suo consiglio. 

   31.9Ubbidire salva sempre. Anche se non è in tutto perfetto il consiglio che si riceve.
   Tu vedi. Noi ubbidimmo. E fu bene. Vero che Erode si limitò a fare sterminare i bambini di Betlemme e dintorni. Ma Satana non avrebbe potuto spingere e propagare queste onde di livore ben oltre, e persuadere a uguale delitto tutti i potenti di Palestina per far sopprimere il futuro Re dei giudei? Avrebbe potuto. E sarebbe avvenuto nei primi tempi del Cristo, quando il ripetersi dei prodigi aveva destato l’attenzione delle folle e l’occhio dei potenti. Come avremmo potuto, se ciò fosse avvenuto, attraversare tutta la Palestina per venire dalla lontana Nazareth in Egitto, terra ospitale agli ebrei perseguitati, e farlo con un piccolo bambino e mentre infuriava una persecuzione? Più facile la fuga da Betlem, anche se ugualmente dolorosa.
   L’ubbidienza salva sempre. Ricordalo.

   31.10E il rispetto al sacerdote è sempre segno di formazione cristiana. Guai — e Gesù l’ha detto — guai ai sacerdoti che perdono la loro fiamma apostolica! Ma guai anche a chi si crede lecito sprezzarli! Perché essi consacrano e distribuiscono il Pane vero che dal Cielo discende. E quel contatto li rende santi come un calice sacro, anche se santi non sono. A Dio ne risponderanno. Voi considerateli tali e non vi curate d’altro. Non siate più intransigenti del vostro Signore Gesù, il quale al loro comando lascia il Cielo e scende per essere elevato dalle loro mani. Imparate da Lui. E se sono ciechi, se sono sordi, dall’anima paralitica e il pensiero malato, se sono lebbrosi di colpe troppo in contrasto con la loro missione, se sono dei Lazzari in un sepolcro, chiamate Gesù che li risani, che li risusciti.
   Chiamatelo col vostro orare e col vostro soffrire, o anime vittime. Salvare un’anima è predestinare al Cielo la propria. Ma salvare un’anima sacerdotale è salvare un numero grande di anime, perché ogni sacerdote santo è una rete che trascina anime a Dio. E salvare un sacerdote, ossia santificare, risantificare, è creare questa mistica rete. Ogni sua preda è una luce che si aggiunge alla vostra eterna corona.
   Va’ in pace».

[70] sarà chiamato Nazareno, come riferisce anche Matteo 2, 23 pur non trovando un vero riscontro nei profeti. Per questo sembra significativa l’espressione Si dice al posto del consueto È detto o Sta scritto. Proprio perché Nazareno (così chiamato specialmente in 604.35 e 608.2), cioè di Nazareth in Galilea, Gesù è detto anche Galileo, come in 404.4 (dove però viene motivata la sua nascita in Giudea) e in altri punti. Lo stesso Gesù si definisce “il Galileo” in 590.21.