MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME II CAPITOLO 100



C. A Nazareth dal vecchio e malato Alfeo. Non è facile la vita dell'apostolo.

   7 febbraio 1945. S. Romualdo[33].

   100.1 Gesù è coi suoi per le belle colline di Galilea. Per sfuggire al sole ancora alto, per quanto volgente al tramonto, camminano sotto gli alberi, quasi sempre ulivi.
   «Oltre quel ciglio è Nazaret», dice Gesù. «Fra poco ci siamo. Ora Io vi dico che al limite della città ci separeremo. Giuda e Giacomo andranno subito dal padre loro, come il loro cuore desidera. Pietro e Giovanni distribuiranno ai poveri, che certo saranno presso la fontana, l’obolo. Io e gli altri andremo a casa per la cena e poi penseremo al riposo».
   «Noi torneremo dal buon Alfeo. Glielo abbiamo promesso l’altra volta. Ma però io verrò solo per salutarlo. Cedo il letto a Matteo, che ancor non è uso ai disagi», dice Filippo.
   «No. Tu no, che sei anziano. Non lo permetto. Ho avuto comodo giaciglio fino ad ora, ma che sonni d’inferno vi facevo! Credi, ora sono così in pace che mi pare dormire fra le piume anche se mi sdraio sui sassi. Oh! è la coscienza quella che fa o non fa dormire!», risponde Matteo.
   Si accende una gara di carità con Matteo fra i discepoli Tommaso, Filippo e Bartolommeo[34], che, si capisce, sono quelli che l’altra volta erano in casa di questo Alfeo (che non è certo il padre di Giacomo, perché costui parla con Andrea e dice: «Un posto per te ci sarà sempre come l’altra volta, anche se il padre è più malato»).
   Vince Tommaso: «Io sono il più giovane del gruppo. Il letto lo cedo io. Lasciami fare, Matteo. Un poco per volta ti abituerai. Credi mi pesi? No. Sono come un innamorato che pensa: “… sarò sul duro, ma sono vicino al mio amore”». Tommaso, uomo sui trentotto anni, ride gioviale, e Matteo cede.
   Nazaret è ormai a pochi metri con le sue prime case.
   «Gesù… noi andiamo», dice Giuda.
   «Andate, andate».
   I due fratelli vanno quasi di corsa.
   «Eh! il padre è padre», mormora Pietro. «Anche se ci fa il broncio, è sempre nostro sangue, e il sangue tira più di una fune. E poi… Mi piacciono i tuoi cugini. Sono molto buoni».
   «Sono molto buoni, sì. E sono umili, tanto da non studiarsi neppure per misurare quanto lo sono. Credono sempre di esser manchevoli, perché il loro spirito vede il buono in tutti, men che in loro. Faranno molta strada…».

   100.2 Ormai sono in Nazaret. Delle donne vedono Gesù e lo salutano, anche uomini e bimbi lo fanno. Ma qui non vi sono le acclamazioni degli altri luoghi al Messia: qui sono amici che salutano l’Amico che torna. Chi più, chi meno espansivamente. In molti vedo anche una ironica curiosità nell’osservare il gruppo eterogeneo che è con Gesù, e che non è certo un gruppo di dignitari regali, né di pomposi sacerdoti. Accaldati, impolverati, vestiti molto modestamente, meno Giuda Iscariota, Matteo, Simone e Bartolommeo – e li ho messi in ordine decrescente di eleganza – paiono più un’accolta di popolani in viaggio per qualche mercato, che non dei seguaci di un re. Il quale Re, di suo, non ha che l’imponenza della statura e soprattutto l’imponenza dell’aspetto.
   Fanno qualche metro e poi Pietro e Giovanni si staccano andando a destra, mentre Gesù con gli altri procede fino ad una piazzetta piena di bambini vocianti intorno ad una vasca piena di acqua, alla quale le madri attingono.

   100.3 Un uomo vede Gesù e fa un cenno di stupore gioioso. Si affretta verso Lui e lo saluta: «Ben tornato! Non ti attendevo così presto! Tieni: bacia il mio ultimo nipote. È il piccolo Giuseppe. È nato in questa tua assenza», e gli porge un piccolino che ha fra le braccia.
   «Giuseppe l’hai chiamato?».
   «Sì. Non dimentico il mio quasi parente e, più ancora che parente, il mio grande amico. Ora ho tutti i nomi più cari messi anche ai nipoti: Anna, la mia amica di quando ero piccino, e Gioacchino. Poi Maria… oh! quando nacque che festa! Me lo ricordo quando me la dettero a baciare e mi dissero: “Vedi? Quel bell’arcobaleno è stato il ponte per il quale Essa è scesa dal Cielo. Gli angeli usano quella via lì”, e davvero pareva un angiolino, tanto era bella… Ora ecco Giuseppe. Se sapevo che tornavi tanto presto, aspettavo Te per la circoncisione».
   «Ti ringrazio per il tuo amore ai nonni e al padre e Madre mia. È un bel bambino. Sia giusto in eterno come il giusto Giuseppe». Gesù palleggia il piccolino, che fa abbozzi di risatine piene di latte.
   «Se mi attendi, vengo con Te. Aspetto che siano piene le anfore. Non voglio che mia figlia Maria si affatichi. Anzi, guarda, faccio così. Do le brocche ai tuoi, se le prendono, e parlo un poco con Te, da solo».
   «Ma certo che le prendiamo! Non siamo dei re assiri», esclama Tommaso e per primo afferra una brocca.
   «Allora, guardate, Maria di Giuseppe in casa non c’è. È dal cognato, sai? Ma la chiave è in casa mia. Fatevela dare per entrare in casa, nel laboratorio, voglio dire».
   «Sì, sì, andate. Anche in casa. Poi vengo Io».
   Gli apostoli se ne vanno e Gesù resta con Alfeo.
   «Volevo dirti… Sono tuo vero amico… E quando uno è vero amico, ed è più vecchio, ed è del luogo, può parlare. Credo che debba parlare… Io… io non ti voglio consigliare. Tu sai meglio di me. Solo ti voglio avvertire che… oh! non voglio fare la spia, né metterti in cattiva luce i parenti. Ma io credo in Te, Messia, e… e mi fa male, ecco, vedere che essi dicono che Tu non sei Tu, ossia il Messia, che Tu sei un malato, che Tu rovini la famiglia e i parenti. La città… Sai, Alfeo è molto stimato e perciò la città ascolta anche loro, e ora è malato e fa pena… Anche la pena delle volte serve a far fare cose ingiuste. Vedi, io c’ero quella sera che Giuda e Giacomo difesero Te e la loro libertà di seguirti… Oh! che scena! Io non so come tua Madre ci resista! E quella povera Maria d’Alfeo? Le donne sono sempre vittime in certe situazioni di famiglia».
   «Ora i cugini sono dal padre…».
   «Dal padre? Oh! li compiango! Il vecchio è proprio fuori di sé e, sarà l’età e la malattia certo, ma fa cose da pazzo. Se pazzo non fosse, mi farebbe ancora più pena perché… rovinerebbe l’anima sua».
   «Pensi che tratterà male i figli?».
   «Ne sono certo. Mi spiace per loro e per le donne… Dove vai?».
   «A casa d’Alfeo».
   «No, Gesù! Non ti fare mancare di rispetto!».
   «I cugini mi amano al disopra di loro stessi ed è giusto Io li paghi di uguale amore… Là vi sono due donne a Me care… Vado. Non trattenermi». E Gesù si affretta verso la casa di Alfeo, mentre l’altro resta pensieroso in mezzo alla via.

   100.4 Gesù va veloce. Eccolo sul limite dell’orto di Alfeo. Lo raggiunge un pianto di donna e urla scomposte di uomo. Gesù va ancor più veloce per quei pochi metri che separano la via dalla casa, attraverso l’orto tutto verde.
   È quasi sulla soglia della casa quando alla porta si affaccia la Mamma e vede il Figlio. «Mamma!». «Gesù!». Due gridi di amore.
   Gesù fa per entrare, ma Maria dice: «No, Figlio». E si mette sulla soglia a braccia aperte, le mani strette agli stipiti, una barriera di carne e d’amore, e ripete: «No, Figlio. Non lo fare».
   «Lascia, Mamma. Non accadrà nulla». Gesù è calmissimo, nonostante l’accentuato pallore di Maria certo lo turbi. Prende il polso sottile di Lei, stacca la mano dallo stipite e passa.
   Nella cucina sono sparse al suolo, e ridotte a viscida melma, le uova, i grappoli d’uva, il vaso del miele portati da Cana.
   Da un’altra stanza viene una voce querula di vecchio che impreca, che accusa, che si lamenta, in una di quelle collere senili così ingiuste, impotenti, penose a vedersi e dolorose a subirsi: «… ecco la mia casa distrutta, divenuta zimbello di tutta Nazaret, ed io qui, solo, senza aiuto, colpito nel cuore, nel rispetto, nei bisogni!… Ecco che ti resta, Alfeo, per aver agito da vero fedele! E perché? Perché? Per un folle. Un folle che fa folli i miei stolti figli. Ahi! Ahi! Che dolori!».
   E la voce di Maria d’Alfeo, lacrimosa, che supplica: «Buono, Alfeo, buono! Lo vedi che ti fai del male? Vieni, che ti aiuto a coricarti… Sempre buono tu, sempre giusto… Perché ora così con te? Con me? Con quei poveri figli?…».
   «Niente! Niente! Non mi toccare! Non voglio! Buoni i figli?
   Ah! sì! Davvero! Due ingrati! Mi portano miele dopo avermi fatto pieno d’assenzio. Mi portano uova e frutta, dopo essersi cibati del mio cuore! Va’ via, ti dico. Via! Non voglio te. Voglio Maria. Lei sa fare. Dove è ora quella debole femmina che non sa farsi ubbidire dal Figlio?».
   Maria d’Alfeo, cacciata, entra in cucina mentre Gesù sta per entrare nella stanza di Alfeo. Lo vede e gli crolla addosso singhiozzando disperata, mentre Maria, la Vergine, va umile e paziente dal vecchio iroso.
   «Non piangere, zia. Ora vado Io».
   «Nooh! Non ti fare insultare! Pare pazzo. Ha il bastone. No, Gesù, no. Ha colpito anche i figli».
   «Non mi farà nulla», e Gesù fermamente, sebbene dolcemente, mette da parte la zia ed entra.

   100.5 «Pace a te, Alfeo».
   Il vecchio, che sta per coricarsi fra mille querele e rimproveri a Maria, perché non sa fare (prima diceva che Lei sola sapeva fare), si volta di scatto. «Qui? Qui a beffarti di me? Anche questo?».
   «No. A portarti pace. Perché così inquieto? Ti peggiori.
   Mamma, lascia. Lo sollevo Io. Non ti farò male e non farai fatica. Mamma, solleva le coperture». E Gesù prende con cura quel mucchietto d’ossa rantolante, bolso, cattivo, piangente, misero, e lo appoggia con cura, come fosse un neonato, sul letto. «Ecco, così. Come facevo al padre mio. Più alto questo cuscino. Starai sollevato e respirerai meglio. Mamma, metti qui, sotto le reni, quello lì, piccolino. Starà più morbido. Ora così la luce, che non gli colpisca gli occhi pur lasciando entrare aria pura. Ecco fatto. Ora… ho visto un decotto sul fuoco. Portalo, Mamma. E ben dolce. Sei tutto sudato e stai raffreddando. Ti farà bene».
   Maria esce ubbidiente.
   «Ma io… ma io… Perché sei buono con me?».
   «Perché ti voglio bene, lo sai».
   «Io te ne volevo… ma ora…».
   «Ora non me ne vuoi più. Lo so. Ma Io te ne voglio, e ciò mi basta. Poi mi amerai…».
   «E allora… ahi, ahi… che dolori! e allora, se è vero che mi vuoi bene, perché fai offesa ai miei capelli bianchi?».
   «Non ti offendo, Alfeo, in nessun modo. Ti onoro».
   «Onoro? Sono lo zimbello di Nazaret, ecco».
   «Perché, Alfeo, dici così? Zimbello in che ti faccio?».
   «Nei figli. Perché ribelli? Per Te. Perché deriso? Per Te».
   «Dimmi: se Nazaret ti lodasse per la sorte dei tuoi figli, sentiresti lo stesso dolore?».
   «Allora no! Ma Nazaret non mi loda. Mi loderebbe se davvero Tu fossi un che va a conquista. Ma di lasciarmi per un poco men che demente, che va per il mondo attirandosi odî e beffe, povero, in mezzo a poveri! Ah! chi non riderebbe! Povera mia casa! Povera casa di Davide, come finisci! Ed io dovevo vivere tanto per vedere questa sventura? Vedere Te, tralcio ultimo della gloriosa stirpe, corromperti in demenza per troppa servilità! Ah! sventura su noi dal giorno che il mio imbelle fratello si lasciò unire a quella insipida e pur prepotente donna, che su lui ebbe ogni imperio. L’ho detto, allora: “Giuseppe non è per le nozze. Sarà infelice!”. E lo fu. Lui lo sapeva come era, e di nozze non ne aveva mai voluto sapere. Maledizione alla legge delle orfane eredi![35] Maledizione al destino. Maledizione a quegli sponsali».
   La “Vergine erede” è tornata col decotto, in tempo per sentire le geremiadi del cognato. È ancor più pallida. Ma la sua grazia paziente non è turbata. Va da Alfeo e con un dolce sorriso lo aiuta a bere.
   «Sei ingiusto, Alfeo. Ma hai tanto male che tutto ti è perdonato», dice Gesù che gli sorregge il capo.
   «Oh! sì! Tanto male! Dici che sei il Messia! Fai prodigi. Così dicono. Almeno, per pagarmi dei figli che hai preso, mi guarissi. Guariscimi… e ti perdonerò».
   «Tu perdona ai figli. Comprendi la loro anima, ed Io ti darò sollievo. Se hai rancore, non posso fare nulla».
   «Perdonare?». Il vecchio fa uno scatto che naturalmente acutizza tutti gli spasimi, e ciò lo inferocisce di nuovo. «Perdonare? Mai! Va’ via! Via, se devi dirmi questo! Via! Voglio morire senza essere oltre turbato».
   Gesù ha un gesto rassegnato. «Addio, Alfeo. Me ne vado…
   Devo proprio andare? Zio… devo proprio andare?».
   «Se non mi accontenti, sì, vattene. E di’ a quei due serpenti che il vecchio padre muore in rancore con loro».
   «No. Questo no. Non perdere l’anima tua. Non amarmi, se vuoi. Non credermi il Messia. Ma non odiare. Non odiare, Alfeo. Deridimi. Dimmi folle. Ma non odiare».
   «Ma perché mi vuoi bene, se io ti insulto?».
   «Perché son Quello che tu non vuoi riconoscere. Sono l’Amore. Mamma, Io vado alla casa».
   «Sì, Figlio mio. Fra poco verrò».
   «Ti lascio la mia pace, Alfeo. Se mi vuoi, mandami a chiamare, a qualunque ora, e verrò».
   Gesù esce, calmo come niente fosse accaduto. Solo è più pallido.
   «Oh! Gesù, Gesù, perdonalo», geme Maria d’Alfeo.
   «Ma sì, Maria. Non ce n’è neppure bisogno di farlo. Ad uno che soffre tutto si perdona. Ora è più calmo già. La Grazia lavora anche all’insaputa dei cuori. E poi c’è il tuo pianto, e certo il dolore di Giuda e Giacomo e la loro fedeltà alla vocazione.
   La pace nel tuo ambasciato cuore, zia». La bacia ed esce nell’orto per andare a casa.

   100.6 Quando sta per porre piede nella via, ecco entrare Pietro e, dietro a questo, Giovanni, anelanti come chi ha corso. «Oh! Maestro! Ma che è stato? Giacomo mi ha detto: “Corri a casa mia. Chissà come è trattato Gesù”. Ma no, sbaglio. È entrato Alfeo, quello della fontana, e ha detto a Giuda: “Gesù è a casa tua”, e allora Giacomo ha detto così… I tuoi cugini sono atterrati. Io non ci capisco nulla. Ma ti vedo… e mi rassicuro».
   «Niente, Pietro. Un povero malato che i dolori rendono insofferente. Ora è tutto finito».
   «Oh! ne sono lieto! E tu perché qui?». Pietro interpella l’Iscariota che accorre lui pure, e il tono non è molto soave.
   «Ci sei anche tu, mi pare».
   «Mi hanno pregato di venirci e ci sono venuto».
   «Anche io ci sono venuto. Se il Maestro era in pericolo, e nella sua patria, io, che l’ho già difeso nella Giudea, lo posso difendere anche in Galilea».
   «A questo bastiamo noi. Ma non ce ne è bisogno in Galilea».
   «Ah! Ah! Ah! Infatti! La sua patria lo espelle come un cibo indigesto. Bene. Ne sono contento per te, che ti sei fatto scandalo per un piccolo incidente avvenuto in Giudea, dove Lui è sconosciuto. Qui, invece!…», e Giuda termina con una fischiatina che è un poema di satira.
   «Senti, ragazzo. Sono poco in vena di sopportarti. Smettila, perciò, se ti preme… qualcosa. Maestro, ti hanno fatto male?».
   «Ma no, Pietro mio. Te lo assicuro.

   100.7 Andiamo più svelti a consolare i cugini».
   Vanno, entrano nel grande laboratorio. Giuda e Giacomo sono presso il grande bancone da falegname, Giacomo in piedi, Giuda seduto su uno sgabello e col gomito sul banco, il capo sulla mano.
   Gesù va a loro sorridente, per rassicurarli subito che il suo cuore li ama: «Alfeo è più quieto, ora. I dolori si calmano e tutto torna pace. State quieti voi pure».
   «Lo hai visto? E la mamma?».
   «Ho visto tutti».
   Giuda chiede: «Anche i fratelli?».
   «No. Non c’erano».
   «C’erano. Non si sono voluti mostrare a Te. Ma a noi! Oh! se avessimo fatto un delitto, così non saremmo stati trattati. E noi che venivamo volando da Cana per la gioia di rivederlo e portargli ciò che a lui piace! Lo amiamo e… e non ci capisce più… non ci crede più».
   Giuda piega il braccio e piange col capo sul banco. Giacomo è più forte. Ma il suo viso esprime un interno martirio.
   «Non piangere, Giuda. E tu, non soffrire».
   «Oh! Gesù! Siamo figli… e ci ha maledetti. Ma, anche se questo ci strazia, no, non torniamo indietro! Siamo tuoi, e tuoi saremo anche se per staccarci da Te ci minacciano di morte!», esclama Giacomo.
   «E tu dicevi che non eri capace d’eroismo? Io lo sapevo. Ma tu da te lo dici. In verità tu sarai fedele anche contro la morte. E tu pure».
   Gesù li carezza. Ma essi soffrono. Il pianto di Giuda empie la volta di pietra.

   100.8 E qui ho modo di vedere meglio l’anima dei discepoli.
   Pietro, che ha il suo onesto viso addolorato, esclama: «Eh! sì! È un dolore… Cose tristi. Ma, ragazzi miei (e li scuote con affetto) non è da tutti meritare quelle parole… Io… io mi accorgo che sono stato un fortunato nella mia chiamata. Quella brava donna di mia moglie mi dice sempre: “È come fossi ripudiata, perché tu non sei più mio. Ma dico: ‘Oh! felice ripudio’”. Ditelo anche voi. Perdete un padre, ma acquistate Dio».
   Il pastore Giuseppe, stupito, nella sua ignara sorte di orfano, che un padre possa esser cagione di pianto, dice: «Credevo di essere il più infelice perché senza padre. Mi accorgo che è meglio piangerlo morto che nemico».
   Giovanni si limita a baciare e carezzare i compagni.
   Andrea sospira e tace. Si strugge di parlare, ma la sua timidezza lo imbavaglia.
   Tommaso, Filippo, Matteo e Natanaele parlano piano in un angolo col rispetto di chi è presso un dolore vero.
   Giacomo di Zebedeo prega, appena intelligibilmente, perché Dio dia pace.
   Simone Zelote, oh! quanto mi piace il suo atto! Lascia il suo angolo e viene presso i due afflitti, pone una mano sul capo di Giuda, l’altro braccio intorno alla vita di Giacomo, e dice: «Non piangere, figlio. Egli ce lo aveva detto, a me e a te: “Vi unisco: tu che per Me perdi un padre e tu che hai cuore di padre senza aver figli”. E non abbiamo capito quanto vi era di profezia nelle parole. Ma Egli sapeva. Ecco, io ve ne prego. Sono vecchio e sempre ho sognato d’esser detto “padre”. Accettatemi per tale ed io, come padre, vi benedirò mattina e sera. Ve ne prego, accettatemi per tale».
   I due annuiscono fra singhiozzi più forti.

   100.9 Entra Maria e corre presso i due afflitti. Carezza sulla testa morata Giuda e sulla guancia Giacomo. È pallida come un giglio.
   Giuda le prende la mano e la bacia, e chiede: «Che fa?».
   «Dorme, figlio. La mamma vi manda il suo bacio», e li bacia ambedue.
   La voce aspra di Pietro esplode: «Senti, vieni qui un momento, che ti voglio dire una cosa», e vedo Pietro che afferra con la sua robusta mano un braccio dell’Iscariota e lo porta fuori, sulla via. E poi torna solo.
   «Dove l’hai mandato?», chiede Gesù.
   «Dove? A prendere aria, se no finivo che l’aria gliela davo io in un altro modo… e non l’ho fatto solo per Te. Oh! ora si sta meglio. Chi ride davanti ad un dolore è un aspide, ed io le serpi le schiaccio… Qui ci sei Tu… e l’ho solo mandato al chiaro di luna. Sarà… ma io diventerò anche uno scriba, cosa che solo Dio può farla in me che appena so che sono al mondo; ma lui, neanche con l’aiuto di Dio diventa buono. Te lo assicura Simone di Giona, e non sbaglio. No! Non te la prendere! Non gli è parso vero di uscire da una tristezza. È più arido di una selce al sole d’agosto. Su, ragazzi! Qui c’è una Madre che più dolce non l’ha neppure il Cielo. Qui c’è un Maestro che è più buono di tutto il Paradiso, qui ci sono tanti cuori onesti che vi amano sinceramente. Le burrasche fanno bene: fan cadere la polvere. Domani sarete più freschi di fiori, più svelti di uccelli, per seguire il nostro Gesù».
   E su queste semplici e buone parole di Pietro tutto ha fine.

   100.10 Dice poi Gesù: «Dopo questa visione metterai quella che ti ho dato nella primavera 1944, quella in cui Io chiedevo alla Madre mia le sue impressioni sugli apostoli. Ormai le loro figure morali hanno già dato sufficienti bagliori perché possa esser messa qui quella visione, senza creare scandalo in nessuno. Non avevo bisogno del consiglio di alcuno. Ma quando eravamo soli, mentre i discepoli erano sparsi in famiglie amiche o per le borgatelle vicine, durante le soste mie a Nazaret, come m’era dolce parlare e chiedere consiglio alla mia dolce Amica, la Mamma, e avere conferma, dalla sua bocca di grazia e sapienza, di quanto già Io avevo visto. Non sono mai stato altro che “il Figlio” con Lei. E fra i nati di donna non ci fu una madre più “madre” di Lei, in tutte le perfezioni delle materne virtù umane e morali, né ci fu figlio più “figlio” di Me nel rispetto, nella confidenza, nell’amore.

   100.11 Ed ora che anche voi avete avuto un minimo di conoscenza coi Dodici, delle loro virtù, dei loro difetti, del loro carattere, delle loro lotte, c’è ancora qualcuno che dice che mi fu facile unirli, elevarli, formarli? E c’è ancora qualcuno che giudica essere facile la vita dell’apostolo, e per essere un apostolo, ossia, sovente, per credersi tale, giudica avere diritto ad una vita piana, senza dolori, contrasti, sconfitte? C’è ancora qualcuno che, perché mi serve, pretende che Io sia il suo servo e faccia miracoli a getto continuo in suo favore, facendo della sua vita un tappeto fiorito, facile, umanamente glorioso? La mia via, il mio lavoro, il mio servizio è la croce, il dolore, le rinunce, il sacrificio. L’ho fatto Io. Lo facciano coloro che si vogliono dire “miei”. Questo non è per i Giovanni, ma per i dottori malcontenti e difficili.

   100.12 E ancora per i dottori del cavillo dico che ho usato il termine “zio” e “zia”, inusato nelle lingue palestinesi, per chiarire e definire una irrispettosa questione sulla mia condizione di Unigenito di Maria e sulla Verginità pre e post parto di mia Madre, la quale mi ebbe per spirituale e divino connubio e, lo si ripeta ancora una volta, non conobbe altre unioni, né ebbe altri parti. Carne inviolata, che neppure Io lacerai, chiusa sul mistero di un seno-tabernacolo, trono della Trinità e del Verbo incarnato».

[33] S. Romualdo è un’aggiunta a matita di MV sulla pagina autografa per ricordare, evidentemente, l’onomastico del padre Migliorini.
[34] con Matteo fra i discepoli Tommaso, Filippo e Bartolommeo è forma da noi corretta dell’originale: fra i discepoli Tommaso, Filippo, Bartolommeo e Matteo.
[35] legge delle orfane eredi (o della figlia erede, come è detto in 13.2) che è sancita in Numeri 27, 8 e che comporta (lo abbiamo visto in 11.3) l’obbligo per la fanciulla erede di maritarsi ad uno della stessa stirpe, come è stabilito in Numeri 36, 8-9.