MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME II CAPITOLO 102



CII. Incontro con l'ex-pastore Gionata e guarigione di Giovanna di Cusa.

   8 febbraio[37] 1945.

   102.1 I discepoli stanno cenando nell’ampio laboratorio di Giuseppe. Il bancone fa da tavola, sulla quale vi è quanto serve. Ma vedo che il laboratorio è anche dormitorio. Sugli altri due tavoloni del falegname sono stuoie che li mutano in giacigli, e dei bassi lettucci (stuoie su graticci) sono stati messi lungo le pareti. Gli apostoli parlano fra loro e col Maestro.
   «Allora vai proprio sul Libano?», chiede l’Iscariota.
   «Non prometto mai per non mantenere. E qui l’ho promesso due volte: ai pastori ed alla nutrice di Giovanna di Cusa. Ho atteso i cinque giorni che le avevo detto, e ancor vi ho aggiunto oggi per prudenza. Ma ora vado. Appena la luna sorge partiremo. Sarà lungo cammino anche se useremo la barca sino a Betsaida. Ma voglio dare gioia al mio cuore salutando anche Beniamino e Daniele. Tu lo vedi che anime hanno i pastori. Oh! merita andarli ad onorare, perché neppur Dio si diminuisce onorando un suo servo, ma anzi accresce la sua giustizia».
   «Con questo caldo! Guarda quello che fai. Per Te lo dico».
   «Le notti sono già meno afose. Il sole ancor per poco è in Leone, e i temporali fanno meno ardente il calore. E poi, ve lo ripeto. Non obbligo alcuno a venire. Tutto spontaneo in Me e intorno a Me. Se avete commerci o se vi sentite stanchi, sostate. Ci ritroveremo dopo».
   «Ecco, Tu lo dici. Io avrei da pensare ad interessi di casa.
   Viene il tempo delle vendemmie e mia madre mi aveva pregato di vedere degli amici… Sai, io sono il capo-famiglia, in fondo.
   Voglio dire: sono l’uomo della mia famiglia».
   Pietro borbotta: «Meno male che si ricorda che la madre è sempre la prima dopo il padre».
   Giuda, sia che non senta o non voglia sentire, non mostra di intendere il borbottio, che del resto Gesù frena con uno sguardo mentre Giacomo di Zebedeo, seduto presso Pietro, gli dà una tirata alla veste per farlo tacere.
   «Vai pure, Giuda. Devi andare, anzi. Non bisogna mancare di ubbidienza alla madre».
   «Allora vado subito, se permetti. Sarò a Naim in tempo per trovare ancora alloggio. Addio Maestro, addio amici».
   «Sii amico della pace e merita di aver sempre Dio con te.
   Addio», dice Gesù mentre gli altri salutano con un cumulativo saluto.
   Non c’è molta pena a vederlo partire, anzi… Pietro, forse per la paura che Giuda si penta, lo aiuta a stringere le cinghie del suo sacco ed a infilarlo a tracolla, lo accompagna sulla porta del laboratorio, già aperta come lo è l’altra che da questo va nell’orto, certo per ventilare la stanza afosa dopo un giorno torrido, sta sull’uscio a guardarlo andare e, quando lo vede proprio allontanarsi, fa una mossa di gioia e di ironico addio, e torna fregandosi le mani. Non dice niente… ma ha già detto tutto. Qualcuno, che ha visto, ride sotto i baffi.

   102.2 Ma Gesù non lo nota, perché scruta il cugino Giacomo che si è fatto rosso e si è incupito, smettendo di mangiare le sue ulive. Lo interroga: «Che hai?».
   «Hai detto: “Non bisogna mancare di ubbidienza alla madre…”. E noi, allora?».
   «Non avere scrupolo. In linea di massima così si deve.
   Quando non si è che uomini e figli di una carne. Ma quando si è preso un’altra natura e un’altra paternità, no. Questa, più alta, si segue nei suoi ordini e desideri. Giuda è arrivato prima di te e di Matteo… ma è tanto indietro ancora. Bisogna che si formi, e lo farà molto lentamente. Abbiate carità con lui, abbi carità, Pietro! Io capisco… ma ti dico: abbi carità. Sopportare le persone moleste è una virtù non indifferente. Usala».
   «Sì, Maestro… Ma quando lo vedo così… così… Bene, taci, Pietro, che tanto Lui capisce…, mi pare di esser una vela troppo tesa dal vento… Scricchiolo, scricchiolo nello sforzo, e mi si rompe sempre qualche cosa… Ma Tu sai, cioè non sai perché come barcaiolo non vali nulla, te lo dico perciò, che se a una vela si rompono per troppa tensione tutti i legami, ti giuro che questa dà un tale schiaffo allo stolto barcaiolo che lo sbalordisce… Ecco, io sento che… rischio di avere i lacci tutti rotti… e allora… È meglio, sì, che ogni tanto lui se ne vada. Così la vela si calma per mancanza di vento, e faccio a tempo a rinforzare i legami».
   Gesù sorride e crolla il capo, compatendo il giusto e bollente Pietro.

   102.3 Un grande suonare di zoccoli ferrati e un vocio di monelli si fa per la via. «Qui è! Qui è! Ferma, uomo». E, prima che Gesù e discepoli se ne rendano ragione, davanti al vano dell’uscio si presenta il corpo scuro di un cavallo fumante di sudore, e scende un cavaliere che si precipita dentro come un bolide e si prostra ai piedi di Gesù e glieli bacia con venerazione.
   Tutti guardano stupiti. «Chi sei? Che vuoi?».
   «Gionata sono».
   Un grido di Giuseppe, che per essere seduto dietro l’alto bancone e per la fulmineità dell’arrivo non ha potuto riconoscere l’amico, risponde. Il pastore corre presso al prostrato: «Tu, proprio tu!…».
   «Sì. Adoro il mio adorato Signore! Trent’anni di speranza, oh! lunga attesa! ecco: ora fioriti come fior di agave solitario, e fioriti in un colpo, in un’estasi beata, più beata ancora di quella lontana! Oh! il mio Salvatore!».
   Donne, bambini e qualche uomo, fra cui il buon Alfeo di Sara con ancora un pezzo di pane e cacio in mano, si affollano sull’uscio e fin dentro lo stanzone.
   «Alzati, Gionata. Stavo per venire a cercarti, e con te Beniamino e Daniele…».
   «Lo so…».
   «Alzati, che ti dia il bacio che ho dato ai tuoi compagni».
   Lo forza ad alzarsi e lo bacia.
   «Lo so», ripete il robusto vecchio, ben portante e ben vestito. «Lo so.

   102.4 Ella aveva ragione. Non era delirio di morente! Oh! Signore Iddio! Come l’anima vede e come ti sente, quando Tu la chiami!». Gionata è commosso.
   Ma si riprende. Non perde il suo tempo. Adorante e pur attivo, va al suo scopo: «Gesù, Salvatore e Messia nostro, sono venuto a pregarti di venire con me. Ho parlato con Ester e mi ha detto… Ma prima, prima Giovanna ti aveva parlato e mi ha detto… oh! non deridete un uomo felice, voi che udite, felice e angosciato finché non avrò il tuo “Vengo”. Sai che ero in viaggio con la padrona morente. Che viaggio! Da Tiberiade a Betsaida fu buono. Ma poi, lasciata la barca e preso un carro, per quanto l’avessi attrezzato del mio meglio, fu una tortura. Si andava piano, di notte, ma ella soffriva. A Cesarea di Filippo fu per morire dai trabocchi sanguigni. Sostammo… La terza mattina, sette giorni or sono, mi manda a chiamare. Pareva già morta, tanto era bianca e sfinita. Ma, quando l’ho chiamata, ha aperto i suoi dolci occhi di gazzella morente e mi ha sorriso. Mi ha fatto cenno con la manina gelata di curvarmi, perché ha solo un filo di voce, e mi ha detto: “Gionata, riportami a casa. Ma subito”. Era così grande lo sforzo del suo comando, lei che è sempre più dolce di una pargola buona, che le si sono colorate le guance e tornati per un attimo fulgidi gli occhi. Ha continuato: “Ho sognato la mia casa di Tiberiade. Dentro c’era Uno dalla faccia di stella, alto, biondo, cogli occhi di cielo e una voce più dolce di suono d’arpa. Mi diceva: ‘Io sono la Vita. Vieni. Torna. Ti attendo per dartela’. Voglio andare”. Io dicevo: “Ma padrona! Non puoi! Stai male! Ora, quando starai meglio, vedremo”. Lo credevo delirio di morente. Ma lei ha pianto e poi… – oh! è la prima volta che l’ha detto in questi sei anni che m’è padrona, e si è fin seduta, lei che non può nulla, per l’ira – e poi mi ha detto: “Servo, lo voglio. Io sono la padrona tua. Ubbidisci!”, e poi si è rovesciata fra il sangue. Ho creduto morisse… e ho detto: “Facciamola contenta. Morire per morire!… Non avrò rimorso di averla scontentata alla fine, dopo avere sempre voluto farla contenta”. Che viaggio! Non voleva riposo fuorché nelle ore fra terza e sesta. Ho sfinito i cavalli per fare presto. Siamo arrivati a Tiberiade all’ora di nona, stamane… Ed Ester mi ha detto… Allora ho capito che eri Tu che l’avevi chiamata. Perché l’ora era quella e quello il giorno in cui Tu promettevi miracolo ad Ester e apparivi allo spirito della mia padrona. Ha voluto ripartire appena data l’ora di nona, e me mi ha mandato avanti… Oh! vieni, Salvatore mio!».
   «Subito vengo. La fede merita premio. Chi mi vuole mi ha. Andiamo».
   «Attendi. Ho gettato una borsa ad un giovane dicendo: “Tre, cinque, quanti asini volete, se non avete cavalli, e presto, alla casa di Gesù”. Staranno per venire. Faremo più presto. Spero incontrarla presso Cana. Se almeno…».
   «Cosa, Gionata?».
   «Se almeno è viva…».
   «Viva è. Ma, anche fosse morta, Io sono Vita.

   102.5 Ecco mia Madre».
   La Vergine, certo avvertita da qualcuno, infatti sta accorrendo seguita da Maria d’Alfeo. «Figlio, Tu parti?».
   «Sì, Madre. Vado con Gionata. È venuto. Lo sapevo di potertelo mostrare. Ho atteso per questo un giorno di più».
   Gionata ha prima salutato profondamente con le braccia incrociate sul petto, ora si inginocchia e solleva appena la veste di Maria e ne bacia l’orlo dicendo: «Saluto la Madre del mio Signore!».
   Alfeo di Sara dice ai curiosi: «Eh! che ne dite? Non c’è da vergognarsi ad esser solo noi senza fede?».
   Uno szoccolio numeroso si ode nella via. Sono i ciuchini. Credo che siano tutti quelli di Nazaret, e sono tanti che basterebbero ad uno squadrone. Mentre Gionata sceglie i migliori e contratta, pagando senza lesinare, e prende due nazareni con altri ciuchini per tema che qualche animale per via si sferri, e perché possano riportare indietro tutta questa ragliante cavalleria asinina, Maria e l’altra Maria aiutano a chiudere sacchi e bisacce.
   Maria d’Alfeo dice ai figli: «Lascerò qui i vostri letti. E li carezzerò… Mi parrà di farvi carezze. Siate buoni, degni di Gesù, figli… ed io… io sarò felice…», e intanto piange a grossi goccioloni.
   Maria aiuta invece il suo Gesù e se lo carezza con amore, facendo mille raccomandazioni e incarichi per gli altri due pastori libanesi, perché Gesù dichiara che non tornerà prima di averli ritrovati.

   102.6 Partono. La sera è scesa e il primo quarto di luna si alza ora. In testa è Gesù con Gionata, dietro tutti gli altri. Finché sono in città vanno al passo, perché la gente si affolla. Ma, appena fuori, vanno al trotto in una carovana sonante di zoccoli e bubboli.
   «È nel carro con Ester», spiega Gionata. «Oh! mia padrona! Che gioia farti felice! Portarti Gesù! Oh! mio Signore! Averti qui, al mio fianco! Averti! Hai proprio il viso di stella che lei ti ha veduto, e sei biondo e dagli occhi di cielo e la tua voce è proprio un suono d’arpa… Oh! ma tua Madre! La porterai alla padrona, un giorno?».
   «Verrà la padrona a Lei. Saranno amiche».
   «Sì? Oh!… Sì, lo può essere. È sposa e fu madre, Giovanna.
   Ma ha un’anima pura come una vergine. Può stare vicino a Maria benedetta».
   Gesù si volge per una fresca risata di Giovanni, imitato da tutti gli altri.
   «Sono io, Maestro, che faccio ridere. Sulla barca sono più sicuro di un gatto… ma qui sopra! Sembro una botte lasciata libera sul ponte di un naviglio preso dal libeccio!», dice Pietro.
   Gesù sorride e lo rincuora, promettendo di finire presto la trottata.
   «Oh! non è niente. Se i ragazzi ridono, niente di male. Andiamo, andiamo a far felice questa buona».
   Gesù si volge ancora per un altro scoppio di risa.
   Pietro esclama: «No. Questo non te lo dico, Maestro. Ma perché no? Sì, che lo dico. Dicevo: “Il nostro supremo ministro si roderà le mani sapendo che è mancato proprio quando c’era da fare il pavone presso una dama”. E loro ridono. Ma è così. Sono sicuro che, se se lo fosse immaginato, non aveva più le vigne paterne da tutelare».
   Gesù non ribatte.

   102.7 La via si fa presto su questi somarelli ben pasciuti. Nel chiaro di luna Cana è superata.
   «Se permetti, ti precedo. Fermo il carro. Le scosse la fanno tanto soffrire».
   «Vai pure».
   Gionata mette il cavallo al galoppo.
   Ancora via e via nel bianco della luna. E poi ecco la forma scura di un grande carro coperto, fermo al bordo della via. Ge sù eccita il suo asino, che prende un piccolo galoppo sghimbescio. Eccolo al carro. Smonta.
   «Il Messia!», annuncia Gionata.
   La vecchia nutrice si getta dal carro sulla via, dalla via nella polvere. «Oh! salvala! Sta morendo».
   «Eccomi». E Gesù sale sul carro, dove è steso un mucchio di cuscini e su questi un esile corpo. Vi è un fanaletto in un angolo e coppe e anfore. Vi è una giovane serva che piange, asciugando il sudore gelato della morente. Gionata accorre con uno dei fanali del carro.
   Gesù si china sulla donna abbandonata, veramente morente. Non vi è differenza fra il candore della veste di lino e il pallore fin lievemente azzurrino delle mani e del volto emaciati. Solo le folte sopracciglia e le lunghe ciglia nerissime mettono un colore su quel volto di neve. Non ha neppure più quel rosso infausto dei tisici sui pomelli smunti. Le labbra sono appena un’ombra di un rosa violaceo, semiaperte nel respiro difficile.
   Gesù le si inginocchia al fianco e l’osserva. La nutrice le prende una mano e la chiama. Ma l’anima, già alle soglie della vita, non sente più nulla.
   Sono giunti i discepoli e i due giovani di Nazaret, e si affollano al carro.
   Gesù pone una mano sulla fronte della moribonda, che apre per un momento gli occhi annebbiati e vaghi e poi li richiude.
   «Non sente più», geme la nutrice. E piange più forte.
   Gesù fa un gesto: «Madre, udrà. Abbi fede». E poi chiama: «Giovanna! Giovanna! Sono Io! Io che ti chiamo. Sono la Vita.
   Guardami, Giovanna».
   La morente apre con uno sguardo più vivo i suoi grandi occhi neri e guarda il volto su lei chinato. Ha un moto di gioia e un sorriso. Muove piano le labbra in una parola che però non prende suono.
   «Sì, Io sono. Sei venuta e Io son venuto. A salvarti. Puoi credere in Me?».
   La morente annuisce col capo. Tutta la vitalità è accumulata nello sguardo e tutta la parola che non può altrimenti esprimere.
   «Ebbene (Gesù, pur rimanendo in ginocchio e con la sinistra sulla fronte di lei, si raddrizza e prende l’aspetto di miracolo) ebbene, Io lo voglio. Sii sanata. Sorgi». Leva la mano e si alza in piedi.
   Una frazione di minuto e poi Giovanna di Cusa, senza aiuto di sorta, si siede, ha un grido e si butta ai piedi di Gesù, gridando con voce forte e felice: «Oh! amarti, o mia Vita! Per sempre!
   Tua! Per sempre tua! Nutrice! Gionata! Io sono guarita! Oh!
   presto! Correte a dirlo a Cusa. Che venga ad adorare il Signore! Oh! benedicimi, ancora, ancora, ancora! Oh! mio Salvatore». Piange e ride baciando le vesti e le mani di Gesù.
   «Ti benedico, sì. Che altro vuoi che ti faccia?».
   «Nulla, Signore. Fuorché amarmi e lasciare che io ti ami».
   «E un bambino non lo vorresti?».
   «Oh! un bambino!… Ma fa’ Tu, Signore. Io ti abbandono tutto: il mio passato, il mio presente, il mio futuro. Tutto ti devo e tutto ti do. Da’ Tu, alla tua serva, ciò che sai meglio».
   «La vita eterna, allora. Sii felice. Dio ti ama.   

   102.8 Io vado. Ti benedico e vi benedico».
   «No, Signore. Sosta nella mia casa, che ora, oh!, ora è realmente roseto fiorito. Permettimi di rientrarvi con Te… Oh! me felice!».
   «Vengo. Ma ho i miei discepoli».
   «I miei fratelli, Signore. Giovanna avrà per loro, come per Te, cibo e bevanda ed ogni ristoro. Fammi felice!».
   «Andiamo. Rimandate i ciuchi e seguiteci a piedi. La strada è poca, ormai. Andremo lentamente perché ci possiate seguire. Addio, Ismaele e Aser. Salutate ancora mia Madre per Me e i miei amici».
   I due nazareni, sbalorditi, vanno coi loro raglianti somari, mentre il carro intraprende il ritorno con il suo carico di gioia, ora. Dietro vengono in gruppo i discepoli commentanti il fatto.
   E tutto ha fine.

[37] febbraio, invece di gennaio (evidente lapsus di MV), è la corretta trascrizione dattiloscritta; stanno cenando, invece di sono dietro a cenare (modo di dire proprio dell’ambiente della scrittrice), è correzione di MV sulla stessa copia dattiloscritta.