MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME II CAPITOLO 109



CIX. Nei campi di Giocana e in quelli di Doras. Morte di Giona nella casa di Nazareth.

   15 febbraio 1945.

   109.1 Rivedo il piano di Esdrelon, di giorno, un giorno seminuvoloso di fine autunno. Vi deve essere stata della pioggia nella notte, una delle prime piogge dei tristi mesi invernali, perché la terra è umida per quanto non fangosa. E vi è ancora vento. Un vento umido che strappa le foglie ingiallite e penetra nelle ossa col suo alito pregno d’umidità.
   Nei campi sono rare coppie di buoi all’aratro. Rivoltano a fatica la terra grassa e pesante di questa fertile pianura per prepararla al seme. E quello che mi fa pena è vedere che in certi luoghi sono gli stessi uomini che fanno l’ufficio dei buoi, spingendo il vomere con tutta la forza delle loro braccia, e persino del petto, puntando i piedi nel suolo già smosso, faticando come schiavi in quest’opera in cui faticano anche i robusti giovenchi.
   Anche Gesù guarda e vede. E il suo volto si fa triste fino al pianto.
   I discepoli – undici, perché Giuda è ancora assente e i pastori non ci sono più – parlano fra loro, e Pietro dice: «Piccola, povera, faticosa anche la barca… Ma cento volte meglio di questo servizio da bestie da soma!». E poi interroga: «Maestro, saranno già servi di Doras?».
   Risponde Simone Zelote: «Non credo. I suoi campi sono oltre quel frutteto, mi pare. E noi non li vediamo ancora».

   109.2 Ma Pietro, curioso sempre, lascia la strada e va lungo una proda fra due campi. Sui margini di essa si sono seduti per un momento quattro magri e sudati agricoltori. Anelano per la fatica. Pietro li interroga: «Siete di Doras?».
   «No. Siamo del suo parente però, di Giocana siamo. E tu chi sei?».
   «Sono Simone di Giona, pescatore di Galilea fino alla luna di ziv. Ora Pietro di Gesù di Nazaret, il Messia della Buona Novella». Pietro dice questo col rispetto e la gloria con cui uno direbbe: «Appartengo all’alto e divino Cesare di Roma» e molto più ancora. Il suo onesto viso splende proprio nella gioia del professarsi di Gesù.
   «Oh! il Messia! Dove, dove è?», dicono i quattro infelici.
   «Quello è. Quello alto e biondo, vestito di rosso scuro. Quello che guarda ora qui, e sorride attendendomi».
   «Oh!… Se noi si andasse… ci caccerebbe?».
   «Cacciarvi? Perché? È l’amico degli infelici, dei poveri, degli oppressi, e mi pare che voi… sì, siate proprio di questi…».
   «Oh! se lo siamo! Mai come quelli di Doras. Almeno abbiamo pane a volontà e non siamo frustati altro che se si smette il lavoro, ma…».
   «Sicché, se ora il bel signorino Giocana vi trovasse qui a parlare, vi…».
   «Ci frusterebbe come non frusta i suoi cani…».
   Pietro fa una fischiatina significativa. Poi dice: «Allora è meglio fare così…», e messe le mani ad imbuto alla bocca chiama forte: «Maestro. Vieni qui. Ci sono dei cuori che soffrono e ti vogliono».
   «Ma che dici?! Lui?! Da noi?! Ma noi siamo servi ignobili!».
   I quattro sono esterrefatti di tanto ardire.
   «Ma le frustate non sono piacevoli. E se capita quel bel fariseo non vorrei averne una porzione anche io…», ride Pietro scuotendo con la sua manona il più esterrefatto dei quattro.

   109.3 Gesù, col suo lungo passo, sta già raggiungendoli[50]. I quattro non sanno che fare. Vorrebbero corrergli incontro, ma il rispetto li paralizza. Poveri esseri che la cattiveria umana ha reso di tutto impauriti. Cadono bocconi al suolo, adorando di lì il Messia che viene a loro.
   «La pace a tutti coloro che mi desiderano. Chi mi desidera ha desiderio di bene, ed Io lo amo come un amico. Alzatevi. Chi siete?».
   Ma i quattro alzano appena il volto dal suolo e stanno in ginocchio e muti.
   Parla Pietro: «Sono quattro servi del fariseo Giocana, parente di Doras. Vorrebbero parlarti, ma… se arriva lui sono legnate, e allora ti ho detto: “Vieni”. Su, ragazzi. Non vi mangia!
   Abbiate fiducia. Pensate che sia un vostro amico».
   «Noi… noi sappiamo di Te… Lo diceva Giona…».
   «Vengo per lui. Lo so che mi ha annunciato. Che sapete di Me?».
   «Che sei il Messia. Che ti ha visto piccino, che gli angeli hanno cantato la pace ai buoni con la tua venuta, che sei stato perseguitato… ma che ti sei salvato, e che ora hai cercato i tuoi pastori e… e li ami. Questo lo diceva ora, queste ultime cose. E noi pensavamo: se è così buono da amare e cercare dei pastori, certo vorrebbe un poco di bene anche a noi… Abbiamo tanto bisogno di chi ci ami…».
   «Io vi amo.

   109.4 Soffrite molto?».
   «Oh!… Ma quelli di Doras più ancora. Se Giocana ci trovasse qui a parlare!… Ma oggi è a Gerghesa. Ancora non è tornato dai Tabernacoli. Però il suo intendente questa sera ci darà il cibo dopo avere misurato il lavoro. Ma non importa. Riprenderemo il tempo non riposando per il pasto dell’ora di sesta».
   «Di’, ragazzo. Non sarei buono io di mandare avanti quell’arnese lì? È un lavoro difficile?», chiede Pietro.
   «Difficile no. Ma faticoso. Ci vuole forza».
   «Ce l’ho. Fammi vedere. Se riesco, tu parli ed io faccio il bove. Tu, Giovanni, Andrea e Giacomo, avanti alla lezione. Passiamo dai pesci ai vermi del suolo. Su!».
   Pietro mette mano all’asse traversa del timone. Ad ogni aratro sono due uomini, l’uno di qua, l’altro di là della lunga stanga timoniera. E guarda e imita tutte le mosse del contadino. Forte come è, e riposato, lavora bene e l’uomo lo loda.
   «Sono un maestro d’aratura», esclama contento il buon Pietro. «Su, Giovanni! Vieni qui. Un toro e un giovenco per aratro.
   All’altro, Giacomo e quel muto vitello del fratello mio. Forza! Ah!… issa!», e le due coppie di aratori vanno affiancate rivoltando la terra e tracciando i solchi per il lungo campo, e al limite di esso rivoltano l’aratro e fanno il nuovo solco. Sembra che abbiano fatto[51] sempre i contadini.

   109.5 «Come sono buoni i tuoi amici!», dice il più audace dei servi di Giocana. «Tu li hai fatti tali?».
   «Io ho dato una regola alla loro bontà. Come tu fai con le cesoie del potatore. Ma la bontà era in loro. Ora fiorisce bene perché vi è chi la cura».
   «Sono umili anche. Amici tuoi e servire così dei poveri servi!».
   «Con Me non possono essere che coloro che amano l’umiltà, la mitezza, la continenza, l’onestà e l’amore, soprattutto l’amore. Perché chi ama Dio e prossimo ha di conseguenza tutte le virtù e acquista il Cielo».
   «Anche noi potremo averlo, noi che non abbiamo tempo di pregare, di andare al Tempio, di neppure alzare il capo dal solco?».
   «Rispondete: è in voi odio verso chi vi tratta così duramente? È in voi ribellione e rimprovero a Dio per avervi messi fra gli infimi della Terra?».
   «Oh! no, Maestro! È la nostra sorte. Ma quando, stanchi, ci buttiamo sul giaciglio, diciamo: “Ebbene, il Dio di Abramo lo sa che siamo tanto sfiniti che non possiamo dirgli di più di: ‘ Sia benedetto il Signore!’”, e anche diciamo: “Anche oggi abbiamo vissuto senza peccare”… Sai… potremmo anche frodare un pochino, e col pane mangiare un frutto, o versare dell’olio sull’erbe lessate. Ma il padrone ha detto: “Ai servi basta il pane e l’erbe cotte, e nel tempo della messe un poco d’aceto nell’acqua per temperare la sete e dare il vigore”. E noi lo facciamo. Infine… si potrebbe stare peggio».
   «Ed Io vi dico che in verità il Dio d’Abramo sorride ai vostri cuori, mentre volge viso acerbo a coloro che lo insultano nel Tempio con bugiarde preghiere mentre non amano i loro simili».
   «Oh! ma fra simili si amano! Almeno… sembra così, perché si venerano a vicenda con doni e inchini. È con noi che non hanno amore. Ma noi siamo diversi da loro, ed è giusto».
   «No. Nel Regno del Padre mio non è giusto. E diverso sarà il modo di giudicare. Non i ricchi e potenti, perché tali, avranno onori. Ma solo coloro che avranno sempre amato Dio amandolo sopra se stessi ed ogni altra cosa quale il denaro, il potere, la donna, la mensa; e amando i propri simili che sono tutti gli uomini, sia che siano ricchi o poveri, noti o ignoti, dotti o senza coltura, buoni o malvagi. Sì, anche i malvagi bisogna amarli. Non per la loro malvagità, ma per la pietà verso la loro anima da loro ferita a morte. Occorre amarli di un amore che supplica il Padre celeste di guarirli e redimerli. Nel Regno dei Cieli saranno beati coloro che avranno onorato il Signore con verità e giustizia, e amato i genitori ed i parenti per rispetto; coloro che non avranno rubato in nessun modo e nessuna cosa, ossia avranno dato e preteso il giusto, anche nel lavoro dei servi; coloro che non avranno ucciso né riputazioni né creature e non avranno avuto desiderio di uccidere, anche se i modi degli altri sono tanto crudeli da sollevare il cuore a sdegno e a rivolta; coloro che non avranno giurato il falso danneggiando il prossimo e la verità; coloro che non avranno commesso adulterio o vizio carnale quale che sia; coloro che miti e rassegnati avranno sempre accettato la loro sorte senza invidie verso gli altri. Di questi è il Regno dei Cieli, ed anche il mendico può essere lassù un re beato, mentre il Tetrarca nel suo potere sarà men che nulla, più che nulla anzi: sarà pasto di Mammona se avrà agito contro la legge eterna del Decalogo».

   109.6 Gli uomini sono a bocca aperta ad udirlo.
   Presso a Gesù sono Bartolomeo, Matteo, Simone, Filippo, Tommaso[52], Giacomo e Giuda d’Alfeo. Gli altri quattro continuano il loro lavoro, rossi, accaldati, ma allegri. Basta Pietro a tenere allegri tutti.
   «Oh! come aveva ragione Giona di dirti “Santo”! Tutto in Te è santo. Le parole, lo sguardo, il sorriso. Noi non abbiamo mai sentito l’anima così!…».
   «È molto che non vedete Giona?».
   «Da quando è malato».
   «Malato?».
   «Sì, Maestro. Non ne può più. Si trascinava già prima. Ma dopo i lavori d’estate e la vendemmia non sta più in piedi. Eppure… lo fa lavorare quel… Oh! Tu dici che bisogna amare tutti. Ma è molto difficile amare le iene! E Doras è più di una iena».
   «Giona lo ama…».
   «Sì, Maestro. E io dico che è santo come quelli che per fedeltà al Signore Iddio nostro sono stati uccisi con martirio».
   «Hai detto bene. Come ti chiami?».
   «Michea, e questo Saulo, e questo Gioele, e questo Isaia».
   «Ricorderò i vostri nomi al Padre. E dite che Giona è molto malato?».
   «Sì. Appena finito il lavoro si butta sullo strame e noi non lo vediamo. Ce lo dicono altri servi di Doras».
   «È sul lavoro a quest’ora?».
   «Se sta ritto, sì. Dovrebbe essere oltre quel pometo».
   «Fu buono il raccolto di Doras?».
   «Oh! celebre in tutta la regione. Le piante ebbero puntello per le frutta di grossezza di miracolo, e Doras dovette fare fabbricare nuovi tini perché l’uva non avrebbe potuto esser posta in quelli soliti, tant’era».
   «Allora Doras avrà premiato il suo servo!».
   «Premiato! Oh! Signore, come lo conosci male!».
   «Ma Giona mi disse che anni or sono lo colpì a morte per la perdita di qualche grappolo e che divenne schiavo per debiti, avendogli il padrone fatto accusa di perdita per poca messe. Quest’anno che ebbe miracolosa abbondanza, avrebbe dovuto dunque dargli premio».
   «No. Lo frustò ferocemente, accusandolo di non avere gli scorsi anni ottenuto la stessa abbondanza per non avere curato la terra a dovere».
   «Ma quest’uomo è una belva!», esclama Matteo.
   «No. È un senza anima», dice Gesù.

   109.7 «Vi lascio, figli, con una benedizione. Avete pane e cibo per oggi?».
   «Abbiamo questo pane», e mostrano una pagnotta scura tratta da un sacchetto gettato al suolo.
   «Prendete il mio cibo. Non ho che questo. Ma Io sono da Doras oggi e…».
   «Tu da Doras?».
   «Sì. Per riscattare Giona. Non lo sapevate?».
   «Nessuno sa nulla qui. Ma… diffida, Maestro. Sei come una pecora nell’antro del lupo».
   «Non potrà farmi nulla. Prendete il mio cibo. Giacomo, dài quanto abbiamo. Anche il vostro vino. Giubilate un poco anche voi, poveri amici. E per l’anima e per il corpo. Pietro! Andiamo».
   «Vengo, Maestro. Non c’è che questo solco da finire». E corre a Gesù congestionato di fatica. Si asciuga col mantello che aveva spogliato, se lo rimette e ride felice.
   I quattro non finiscono di ringraziare.
   «Passerai di qui, Maestro?».
   «Sì, attendetemi. Saluterete Giona. Lo potete fare?».
   «Oh! sì. Il campo doveva essere arato a sera. Più di due terzi è fatto. Come bene e svelto! Sono forti i tuoi amici! Dio vi benedica. Oggi per noi è più di festa d’Azzimi. Oh! che Dio vi benedica tutti! Tutti! Tutti!».

   109.8 Gesù se ne va dritto al pometo. Lo traversano, giungono ai campi di Doras. Altri contadini all’aratro o curvi a mondare i solchi dalle erbe strappate. Ma Giona non c’è. Gesù è riconosciuto e, senza lasciare il lavoro, gli uomini lo salutano.
   «Dove è Giona?».
   «Dopo due ore è caduto sul solco ed è stato portato a casa.
   Povero Giona. Ancora per poco ha da soffrire. È proprio alla fine. Mai più avremo un amico più buono».
   «Me avete sulla Terra ed egli in seno ad Abramo. I morti amano i vivi di duplice amore: il loro e quello che assumono essendo con Dio, amore perfetto perciò».
   «Oh! vai subito da lui. Che ti veda sul suo soffrire!».
   Gesù benedice e va.
   «Ed ora che farai? Che dirai a Doras?», chiedono i discepoli.
   «Andrò come nulla sapessi. Se egli si vede preso di fronte è capace di infierire su Giona e sui servi».
   «Ha ragione il tuo amico: è uno sciacallo», dice Pietro a Simone.
   «Lazzaro non dice mai altro che il vero e non è maldicente. Lo conoscerai e lo amerai», risponde questi.

   109.9 Si vede la casa del fariseo. Larga, bassa, ma ben costrutta, in mezzo ad un frutteto ormai spoglio. Casa di campagna ma ricca e comoda. Pietro e Simone vanno avanti ad avvertire.
   Esce Doras. Un vecchio dal profilo duro di vecchio rapace. Occhi ironici, bocca di serpe che guizza in un sorriso falso fra la barba più bianca che nera. «Salute, Gesù», saluta famigliarmente e con palese degnazione.
   Gesù non dice: «Pace»; risponde: «Essa ti ritorni».
   «Entra. La casa ti accoglie. Sei stato puntuale come un re».
   «Come un onesto», ribatte Gesù.
   Doras ride come di una celia.
   Gesù si volge e dice ai discepoli, non invitati: «Entrate. Sono i miei amici».
   «Vengano… ma… quello non è il gabelliere figlio d’Alfeo?».
   «Questo è Matteo il discepolo del Cristo», dice Gesù con un tono che… l’altro capisce e torna a ridere più verde di prima.
   Doras vorrebbe schiacciare il «povero» maestro galileo sotto l’opulenza della sua casa, che dentro è fastosa. Fastosa e gelida. I servi paiono schiavi. Vanno curvi, sgattaiolando rapidi, timorosi sempre di punizione. Si sente la casa in cui regna freddezza e odio.
   Ma Gesù non si schiaccia con l’esposizione delle ricchezze né con il ricordargli il censo e le parentele… e Doras, che capisce l’indifferenza del Maestro, lo porta seco per il fruttetogiardino, mostrando piante rare e offrendo frutti delle stesse che i servi portano su vassoi e in coppe d’oro. Gesù gusta e loda la squisitezza delle frutta, parte conservate come in un giulebbe, e sono pesche bellissime, parte allo stato naturale e sono pere di una grossezza rara.
   «Le ho io solo in tutta la Palestina e credo che neppure nella intera penisola ve ne siano. Le ho mandate a prendere in Persia e più lontano ancora. La carovana mi costò quanto un talento. Ma neanche i Tetrarca hanno questi frutti. Forse neanche Cesare li ha. Ne conto i frutti e voglio tutti i noccioli. E le pere solo alla mia tavola si consumano, perché non voglio che ne sia carpito un seme. Ad Anna ne mando, ma solo di già cotte perché siano sterili».
   «Sono piante di Dio, però. E gli uomini sono tutti uguali».
   «Uguali? Noooh! Io uguale a… ai tuoi galilei?».
   «L’anima viene da Dio, ed Egli le crea uguali».
   «Ma io sono Doras, il fedele fariseo!…». Pare un tacchino che faccia la ruota nel dirlo.
   Gesù lo dardeggia con i suoi occhi di zaffiro che si fanno sempre più accesi, segno che denuncia in Lui o rigurgito di pietà o di severità. Gesù è tanto più alto di Doras e lo domina, imponente nel suo abito porpureo presso il piccolo, un poco curvo fariseo incartapecorito nel suo abito di un’ampiezza e una abbondanza di frange impressionante.
   Doras, dopo qualche tempo di auto-ammirazione di sé, esclama: «Però, Gesù, perché mandare nella casa di Doras, il puro fariseo, Lazzaro, fratello di una meretrice? Tuo amico Lazzaro? Ma non devi! Non sai che è nell’anatema perché la sorella Maria è meretrice?».
   «Non conosco altro che Lazzaro e le sue azioni che sono oneste».
   «Ma il mondo ricorda il peccato di quella casa e vede che la sua macchia si estende sugli amici… Non vi andare. Perché non sei fariseo? Se vuoi… io sono potente… ti faccio accogliere per tale nonostante Tu sia galileo. Tutto io posso nel Sinedrio. Anna è in mia mano come questo lembo del mio mantello. Saresti più temuto».
   «Voglio solo essere amato».
   «Io ti amerò.

   109.10 Vedi che già ti amo cedendo al tuo desiderio e dandoti Giona».
   «L’ho pagato».
   «È vero, e mi sono stupito che Tu potessi versare tale somma».
   «Non Io. Un amico per Me».
   «Bene, bene. Non indago. Dico: vedi che ti amo e voglio farti contento. Avrai Giona dopo il pasto. Solo per Te faccio questo sacrificio…», e ride del suo crudele riso.
   Gesù lo dardeggia sempre più severo con le braccia conserte al petto. Sono ancora nel giardino-frutteto in attesa del pasto.
   «Però Tu mi devi fare contento. Gioia per gioia. Io ti do il servo migliore. Mi privo perciò di un utile futuro. Quest’anno la tua benedizione – so che sei venuto all’inizio del gran calore – mi ha dato raccolti che hanno reso celebri i miei poderi. Ora benedici le mie mandre ed i miei campi. Per l’anno prossimo non rimpiangerò Giona… e intanto troverò uno suo pari. Vieni, benedici. Dammi la gioia d’esser celebrato per tutta la Palestina e di avere ovili e granai rigurgitanti di ogni bene. Vieni», e lo afferra e cerca trascinarlo, preso dalla febbre dell’oro.
   Ma Gesù resiste: «Dove è Giona?», chiede severo.
   «All’aratura. Ha voluto fare ancora questo per il suo buon padrone. Ma prima che il pasto sia finito verrà. Intanto vieni a benedire le mandre, i campi, i frutteti, le vigne, i frantoi. Tutto, tutto… Oh! come saranno fertili l’anno veniente! Vieni dunque».
   «Dove è Giona?», tuona Gesù più forte.
   «Ma te l’ho detto! Presiede l’aratura. È il primo servo e non lavora: presiede».
   «Mentitore!».
   «Io? Lo giuro su Jeové!».
   «Spergiuro!».
   «Io? Io spergiuro? Io che sono il fedele più fedele? Guarda come parli!».
   «Assassino!».
   Gesù ha sempre più elevato la voce, e l’ultima parola è un tuono. I discepoli gli si fanno intorno, i servi si affacciano dalle porte timorosi. Il volto di Gesù è insostenibile nella sua severità. Gli occhi sembrano emanare raggi fosforescenti.
   Doras ne ha un attimo di paura. Si fa più piccolo, matassa di stoffa finissima presso l’alta persona di Gesù vestita di pesante lana rosso cupo. Ma poi la superbia lo riprende e urla con la sua voce squittente, proprio come quella delle volpi: «In casa mia ordino io solo. Esci, vile galileo».
   «Uscirò dopo avere maledetto te, i tuoi campi, armenti e vigne, per questo e per gli anni avvenire».
   «No, questo no! Sì. È vero. Giona è malato. Ma è curato. Bene è curato. Ritira la tua maledizione».

   109.11 «Dove è Giona? Un servo mi conduca a lui, subito. Io l’ho pagato e, poi che per te è una merce, una macchina, tale lo considero; e poi che l’ho acquistato, lo voglio».
   Doras trae un fischietto d’oro dal seno e fischia tre volte. Un nuvolo di servi della casa e della terra sbucano da ogni parte, corrono, talmente curvi da strisciare quasi, fino presso il temuto padrone.
   «Portate Giona a costui e consegnatelo. Dove vai?».
   Gesù neppure risponde. Cammina dietro i servi che si sono precipitati oltre il giardino verso le case dei contadini, le luride tane dei miseri contadini.
   Entrano nella stamberga di Giona. Questo ha finito di scheletrirsi e anela seminudo per la febbre sul graticcio di canne, su cui fa da materasso una veste rattoppata e da copertura un ancor più rotto mantello. La giovane dell’altra volta lo cura come può.
   «Giona! Amico mio! Sono venuto a prenderti!».
   «Tu? Signor mio! Muoio… ma sono felice di averti qui!».
   «Amico fedele, sei libero ora, e qui non morrai. Ti porto a casa mia».
   «Libero? Perché? A casa tua? Ah, sì! lo avevi promesso che l’avrei vista tua Madre».
   Gesù è tutto amore, curvo sul miserabile letto dell’infelice. E Giona pare rianimarsi dalla gioia.
   «Pietro, tu sei forte. Solleva Giona, e voi date il mantello. È troppo duro questo letto per uno nel suo stato».
   I discepoli si spogliano dei loro mantelli con prontezza, li piegano a più doppi e li stendono, di alcuni fanno guanciale. Pietro depone il suo carico d’ossa e Gesù lo copre col suo stesso mantello.
   «Pietro, hai denaro?».
   «Sì, Maestro, ho quaranta denari».
   «Va bene. Andiamo. Coraggio, Giona. Un poco di fatica ancora, poi tanta pace nella mia casa, presso Maria…».
   «Maria… sì… oh! la tua casa!». Nel suo sfinimento piange il povero Giona. Non sa che piangere.
   «Addio, donna. Ti benedirà il Signore per la tua misericordia».
   «Addio Signore, addio Giona. Prega, pregate per me». La giovane piange…

   109.12 Quando sono sulla soglia, ecco Doras. Giona ha un atto di paura e si ripara il viso. Ma Gesù gli pone una mano sul capo ed esce al suo fianco, più severo di un giudice. Il misero corteo esce nella corte rustica, prende il sentiero del brolo.
   «Quel letto è mio! Ti ho venduto il servo. Non il letto».
   Gesù gli butta ai piedi la borsa senza parlare.
   Doras la prende, la svuota. «Quaranta denari e cinque didramme. È poco!».
   Gesù squadra, ed è impossibile dire cosa è il suo atto, l’avido e ripugnante aguzzino e non risponde.
   «Almeno dimmi che ritiri l’anatema!».
   Gesù lo fulmina con un nuovo sguardo e una breve frase: «Ti affido al Dio del Sinai», e passa eretto oltre, a fianco della rustica lettiga portata con precauzione da Pietro e Andrea.
   Doras, vedendo che tutto è inutile, che la condanna è certa, urla: «Ci rivedremo, Gesù! Oh! ti avrò fra le unghie ancora! Guerra a morte ti farò. Prenditi pure questo straccio d’uomo.
   Non mi serve più. Risparmierò il seppellimento. Va’, va’, satana maledetto! Ma tutto il Sinedrio ti metterò contro. Satana!
   Satana!».
   Gesù non mostra di udire. I discepoli sono costernati.

   109.13 Gesù si occupa solo di Giona. Cerca i sentieri più piani, più riparati, fino a che giunge ad un crocicchio presso i campi di Giocana. I quattro contadini corrono a salutare l’amico che parte e il Salvatore che benedice.
   Ma lunga è la strada da Esdrelon a Nazaret, né si può procedere spediti con quel pietoso carico. Lungo la via maestra non vi è nessun carro o carretto. Nulla. Procedono in silenzio. Giona pare che dorma. Ma non abbandona la mano di Gesù.
   Verso sera, ecco un carro militare romano che li raggiunge.
   «In nome di Dio, fermate», dice Gesù alzando il braccio.
   I due soldati fermano; dalla tenda tirata sul carro, poiché comincia a piovere, fa capolino un graduato tutto pomposo.
   «Che vuoi?», chiede a Gesù.
   «Ho un amico morente. Vi chiedo posto per lui sul carro».
   «Non si potrebbe… ma… sali. Non siamo cani neppure noi».
   Viene issata la barella.
   «Tuo amico? Chi sei?».
   «Rabbi Gesù di Nazareth».
   «Tu? Oh!…». Il graduato lo guarda curioso. «Se sei Tu allora… salite in quanti più potete. Basta non vi facciate vedere…
   È ordine così… ma sopra l’ordine c’è anche l’umanità, no? E Tu sei buono. Lo so. Eh! noi soldati sappiamo tutto… Come lo so? Anche le pietre parlano in bene e in male, e noi abbiamo orecchie ad udirle per servire Cesare. Tu non sei un falso Cristo come gli altri di prima, sediziosi e ribelli. Tu sei buono. Roma lo sa. Quest’uomo… è molto malato».
   «Lo porto da mia Madre per questo».
   «Umh! lo curerà per poco! Dàgli un poco di vino. È in quella borraccia. Tu, Aquila, sferza i cavalli e tu, Quinto, dammi la razione di miele e burro. È mia, ma gli farà bene. Ha molta tosse e il miele medica».
   «Sei buono».
   «No. Sono meno cattivo di molti. E sono contento di averti con me.

   109.14 Ricordati di Publio Quintilliano dell’Italica. Sto a Cesarea. Ma ora vado a Tolemaide. Ispezione d’ordine».
   «Non mi sei nemico tu».
   «Io? Nemico dei cattivi. Mai dei buoni. E vorrei essere buono anche io. Dimmi: per noi, uomini d’arme, quale dottrina Tu predichi?».
   «Una è la dottrina, per tutti. Giustizia, onestà, continenza, pietà. Esercitare il proprio ufficio senza abusi. Anche nella dura necessità delle armi, seguire l’umanità. E cercare di conoscere la Verità, ossia Dio uno ed eterno, senza la quale conoscenza ogni azione rimane priva di grazia e perciò di premio eterno».
   «Ma quando sono morto, che me ne faccio del bene fatto?».
   «Chi viene al Dio vero trova quel bene nell’altra vita».
   «Rinasco un’altra volta? Divento tribuno o anche imperatore?».
   «No. Diventi simile a Dio sposandoti alla sua eterna beatitudine nel Cielo».
   «Come? Nell’Olimpo io? Fra gli dèi?».
   «Non vi sono dèi. Vi è il Dio vero. Quello che Io predico.
   Quello che ti ode e segna la tua bontà e il tuo desiderio di conoscere il Bene».
   «Questo mi piace! Non sapevo che Dio si potesse occupare di un povero soldato pagano».
   «Egli ti ha creato, Publio. Perciò ti ama e ti vorrebbe con Lui».
   «Eh!… perché no? Ma… nessuno ci parla di Dio… mai…».
   «Io verrò a Cesarea e mi udrai».
   «Oh! sì. Ed io verrò ad udirti. Ecco là Nazaret. Io ti vorrei servire ancora. Ma se sono visto…».
   «Scendo, e ti benedico per la tua bontà».
   «Salve, Maestro».
   «Il Signore vi si mostri, militi. Addio».

   109.15 Scendono. Riprendono l’andare.
   «Fra poco riposerai, Giona», rincuora Gesù.
   Giona sorride. È sempre più calmo man mano che scende la sera e che è sicuro di esser lontano da Doras.
   Giovanni col fratello corre avanti, ad avvisare Maria. E quando il piccolo corteo giunge in Nazaret quasi deserta nella sera che scende, Maria è già sulla soglia in attesa del Figlio.
   «Madre, ecco Giona. Si ricovera sotto la tua dolcezza per cominciare a gustare il suo Paradiso. Felice, Giona?».
   «Felice! Felice!», mormora come in estasi lo sfinito.
   Viene portato nella stanzetta dove morì Giuseppe.
   «Sei sul letto di mio padre. E qui è la Madre, e qui sono Io. Vedi? Nazaret diventa Betlemme, e tu ora sei il piccolo Gesù fra due che ti amano, e questi sono quelli che venerano in te il servo fedele. Gli angeli non li vedi, ma alitano su te le loro ali di luce e cantano le parole del salmo natalizio…».
   Gesù versa la sua dolcezza sul povero Giona che si accascia di attimo in attimo. Pare che abbia resistito fino allora per morire qui… ma è beato. Sorride, cerca baciare la mano di Gesù, quella di Maria, e di dire, dire… ma l’affanno spezza la parola. Maria lo conforta come una madre. E lui ripete: «Sì… sì» col suo sorriso beato nel volto scheletrito.
   I discepoli, sulla porta dell’orto, tacciono e osservano commossi.
   «Dio ha ascoltato il tuo lungo desiderio. La Stella della tua lunga notte ora diventa la Stella del tuo eterno mattino. Tu ne sai il Nome», dice Gesù.
   «Gesù, il tuo! Oh! Gesù! Gli angeli… Chi mi canta l’inno angelico? L’anima l’ode… ma anche l’orecchio lo vuole udire… Chi, per farmi dormire felice… Ho tanto sonno! Tanta fatica ho fatto!… Tante lacrime… Tanti insulti… Doras… io lo perdono… ma non voglio sentire la sua voce e la sento… È come la voce di Satana presso al mio morire. Chi me la copre quella voce con le parole venute dal Paradiso?».
   È Maria che, sull’aria stessa della sua ninna-nanna, canta piano: «Gloria a Dio negli alti Cieli e pace agli uomini quaggiù». E lo ripete due o tre volte, poiché vede che Giona si fa calmo nell’udirla.
   «Non parla più Doras», dice dopo qualche tempo. «Solo gli angeli… Era un Bambino… in una greppia… fra un bue e un asino… ed era il Messia… Ed io l’ho adorato… e con Lui c’era Giuseppe e Maria…». La voce si spegne in un breve gorgoglio e subentra il silenzio.
   «Pace in Cielo all’uomo di buona volontà! È morto. Lo metteremo nel nostro povero sepolcro. Merita di attendere la risurrezione dei morti presso al giusto mio padre», dice Gesù.
   E mentre, avvertita da non so chi, entra Maria d’Alfeo, tutto cessa.

[50] sta già raggiungendoli, invece di è dietro che arriva (analoga espressione corretta in 102.1), è correzione di MV su una copia dattiloscritta.
[51] fatto, parola mancante sull’originale autografo per evidente distrazione di MV, è nella copia dattiloscritta.
[52] Tommaso è un’aggiunta di MV su una copia dattiloscritta.