MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME II CAPITOLO 114



CXIV. Al convito di Giuseppe d'Arimatea, presenti anche Gamaliele e Nicodemo.

   21 febbraio 1945.

   114.1 Arimatea è ancora montuosa. Non so perché, me la figuravo in pianura. Invece è sui monti, per quanto già digradanti verso il piano che in certe svolte della strada appare, fertile, ad occidente e sfuma all’orizzonte, in questa mattina di novembre, in una nebbietta bassa che pare una distesa d’acqua senza confine.
   Gesù è con Simone e Tommaso. Non ha altri apostoli seco. Ho l’impressione che gradui saggiamente gli effetti dei tipi da avvicinare e, a seconda degli ambienti, porti seco quelli che possono essere accettati senza dare troppo urto all’ospite. Questi giudei devono essere più… suscettibili di donnine romantiche…
   Sento che parlano di Giuseppe d’Arimatea, e Tommaso, che forse lo conosce molto bene, ne illustra i possessi ampli e belli che si estendono sul monte, specie dalla parte di Gerusalemme, sulla via che dalla capitale viene verso Arimatea e congiunge poi questo luogo con Joppe. Sento che dicono così, e Tommaso celebra anche i campi che ha Giuseppe lungo le vie della pianura.
   «Ma almeno qui non sono trattati da bestie gli uomini! Oh!
   quel Doras!», dice Simone.
   Infatti qui i lavoratori sono ben pasciuti e ben vestiti, ed hanno quel che di soddisfatto di chi sta bene. Salutano rispettosamente, perché certo sanno già chi è quell’Uomo alto e bello che va per le campagne di Arimatea verso la casa del loro padrone, e l’osservano parlando fra loro sottovoce.

   114.2 Quando già la casa di Giuseppe appare, ecco un servo che dopo un inchino profondo chiede: «Sei Tu il Rabbi atteso?».
   «Sono Io», risponde Gesù.
   L’uomo saluta profondamente e va di corsa ad avvertire il padrone.
   Infatti, prima ancora che Gesù giunga al limite della casa – tutta recinta da un’alta siepe di sempreverdi che sostituisce, in questa, l’alto muro che ha la casa di Lazzaro e che l’isola dalla strada, senza però fare altro che una continuazione del giardino molto alberato, e ora anche molto spoglio di foglie, che recinge la casa – Giuseppe d’Arimatea, nelle sue ampie vesti a frange, viene incontro a Gesù e si inchina profondamente con le braccia conserte sul petto. Non è il saluto umile di chi riconosce in Gesù il Dio fatto Carne e che si umilia alla genuflessione sino al suolo e al bacio sui piedi o sull’orlo della veste, ma è sempre un grande saluto di rispetto. Anche Gesù si inchina ugualmente e poi dà il suo saluto di pace.
   «Entra, Maestro. Mi hai fatto felice accettando l’invito. Non speravo in Te tanta condiscendenza».
   «Perché? Vado anche da Lazzaro e…».
   «Lazzaro ti è amico… io sono lo sconosciuto».
   «Sei un’anima che cerca la Verità. La Verità non ti respinge perciò».
   «Tu sei la Verità?».
   «Io sono Via, Vita e Verità. Chi mi ama e segue avrà in sé la Via certa, la Vita beata e conoscerà Dio; perché Dio, oltre che Amore e Giustizia, è Verità».
   «Sei un grande Dottore. Ogni tua parola spira sapienza».
   Poi si volge a Simone: «Sono lieto che tu pure ritorni, dopo tanta assenza, nella mia casa».
   «Non per mio volere ne fui assente. Tu sai che sorte ebbi e quanto pianto fu nella vita del piccolo Simone che tuo padre amava».
   «Lo so. E credo tu sappia che non fu mai in me parola in tuo sfavore».
   «So tutto. Il mio servo fedele mi ha detto che anche a te devo se mi fu rispettato l’avere. Dio te ne compensi».
   «Ero qualcosa nel Sinedrio e ho usato questo essere per giovare, con giustizia, ad un amico della mia casa».
   «Molti erano gli amici della mia, e molti erano qualcosa nel Sinedrio. Ma non erano come te giusti…».
   «E questo, chi è? Non mi è nuovo… ma non so dove…».
   «Sono Tommaso, detto Didimo…».
   «Ah! ecco! Vivo ancora il vecchio padre?».
   «Vivo. Nei suoi commerci, coi fratelli. Io l’ho lasciato per il Maestro. Ma ne è felice».
   «È un vero israelita e, poiché è giunto a credere che Gesù di Nazaret è il Messia, non può che esser felice che suo figlio sia fra i suoi prediletti».

   114.3 Sono ormai nel giardino, presso la casa.
   «Ho trattenuto Lazzaro. È in biblioteca che legge un sunto delle ultime sedute del Sinedrio. Non voleva fermarsi perché… So che ormai Tu sai… Per questo non voleva fermarsi. Ma ho detto: “No. Non è giusto che tu ti vergogni così. In casa mia nessuno ti farà offesa. Resta. Chi si isola è solo contro tutto un mondo. E poiché il mondo è più cattivo che buono, il solo viene abbattuto e calpestato”. Ho detto bene?».
   «Bene hai detto e bene hai fatto», risponde Gesù.
   «Maestro… oggi ci sarà Nicodemo e… Gamaliele. Te ne duole?».
   «Perché dovrei dolermene? Riconosco la sua sapienza».
   «Sì. Ne aveva voglia di vederti e… e voleva stare duro sul suo detto. Sai… idee. Dice che lui il Messia lo ha già visto e che attende il segno che Egli gli ha promesso, alla sua manifestazione. Ma dice anche che Tu sei “un uomo di Dio”. Non dice “l’Uomo”. Dice “un uomo di Dio”. Sottigliezze rabbiniche, vero? Non te ne offendi, vero?».
   Gesù risponde: «Sottigliezze. Bene hai detto. Bisogna lasciarli fare. I migliori si poteranno da sé di tutte le inutili ramaglie che li fanno tutta fronda e niente frutto, e verranno a Me».
   «Ti ho voluto dire le sue parole perché certo le dirà a Te pure. È schietto», fa notare Giuseppe.
   «Virtù rara e che apprezzo molto», risponde Gesù.
   «Sì. Gli ho anche detto: “Però col Maestro è Lazzaro di Betania”. Ho detto così perché… sì, insomma, per causa di sua sorella. Ma Gamaliele ha risposto: “Lei è presente? No? E allora? Il fango cade dalla veste che non è più nel fango. Lazzaro lo ha scosso da sé. E non me ne contamina la veste. E poi giudico che, se nella sua casa va un uomo di Dio, posso avvicinarlo anche io, dottore della Legge”».
   «Gamaliele giudica bene. Fariseo e dottore sino alla midolla, ma onesto e giusto ancora».
   «Sono contento di sentirtelo dire.

   114.4 Maestro, ecco Lazzaro».
   Lazzaro si china a baciare la veste di Gesù. È felice di esser con Lui, ma si vede anche palesemente il suo orgasmo in attesa dei convitati. Certo mi è che il povero Lazzaro, alle sue note torture, note agli uomini perché tramandate dalla storia, ha da aggiungere questa, ignota e non riflettuta dai più, della sofferenza morale di quel tremendo pungolo che è il pensiero: «Che dirà questi a me? Che pensa di me? Come mi considera? Mi ferirà con parole o sguardo di sprezzo?». Pungolo che tormenta tutti quelli che hanno qualche macchia nella loro famiglia.
   Ormai, entrati nella ricchissima sala dove sono pronte le mense, non attendono che Gamaliele e Nicodemo, perché altri quattro ospiti sono già venuti. Li sento presentare col nome rispettivo di Felice, Giovanni, Simone e Cornelio.
   Vi è un grande rumore di servi che accorrono quando giungono Nicodemo e Gamaliele, il sempre imponente Gamaliele, dallo splendido abito di neve filata che porta con maestà di re. Giuseppe si precipita ad incontrarlo e il saluto fra i due è di un ossequio pomposo. Anche Gesù è inchinato, e si inchina al grande rabbino che lo saluta col saluto: «Il Signore sia con Te», al quale Gesù risponde: «E la sua pace ti sia sempre compagna». Anche Lazzaro si inchina e così gli altri.

   114.5 Gamaliele prende posto al centro della mensa, fra Gesù e Giuseppe. Dopo Gesù è Lazzaro. Dopo Giuseppe, Nicodemo. Ha inizio il pasto dopo le preci di rito, che Gamaliele dice dopo un tutto orientale scambio di cortesie fra i tre principali personaggi, ossia Gesù, Gamaliele e Giuseppe.
   Gamaliele è molto dignitoso, ma non superbo. Ascolta più che parlare. Ma si capisce che medita su ogni parola di Gesù, e spesso lo guarda coi suoi fondi occhi scuri e severi. Quando Gesù tace per esaurimento dell’argomento, è Gamaliele che con una opportuna domanda riaccende le conversazioni.
   Lazzaro sulle prime è un poco confuso. Ma poi si rinfranca e parla anche lui.
   Allusioni dirette alla personalità di Gesù non ce ne sono fino a pasto quasi finito. Allora si accende, fra quello chiamato Felice e Lazzaro, al quale poi si unisce a sostegno Nicodemo, e infine quello di nome Giovanni, una discussione circa la prova, in favore o contro un individuo, che sono i miracoli.
   Gesù tace. Sorride talora di un misterioso sorriso, ma tace. Anche Gamaliele tace. Tiene un gomito puntato sul letto e fissa intensamente Gesù. Pare voglia decifrare qualche parola soprannaturale incisa nella pelle pallida e liscia del volto magro di Gesù. Sembra ne analizzi ogni fibra.

   114.6 Felice sostiene che è inoppugnabile la santità di Giovanni e, da questa indiscussa e indiscutibile santità, ne trae una conseguenza non favorevole a Gesù Nazareno, autore di molti e noti miracoli. Dice: «Non è il miracolo prova di santità, perché la vita del profeta Giovanni ne è priva. Eppure nessuno in Israele conduce una vita pari alla sua. Lui non banchetti, non amicizie, non comodi. Lui sofferenze e prigionie per l’onore della Legge. Lui solitudine, perché, sì, ha discepoli, ma seco loro non convive e trova colpe anche nei più onesti e tuona su tutti. Mentre… eh! mentre il qui presente Maestro di Nazaret ha, è vero, fatto miracoli, ma vedo che anche Lui ama ciò che la vita offre e non sdegna amicizie e, questo perdona se un degli Anziani del Sinedrio te lo dice, ed è troppo facile a dare, in nome di Dio, perdono e amore anche a peccatori noti e segnati da anatema. Non lo dovresti fare, Gesù».
   Gesù sorride e non parla. Lazzaro risponde per Lui: «Il nostro potente Signore è padrone di dirigere i suoi servi come e dove vuole. A Mosè ha concesso il miracolo. Ad Aronne, suo primo pontefice, non l’ha concesso[57]. E allora? Che ne concludi?
   Più santo l’uno dell’altro?».
   «Certamente», risponde Felice.
   «Allora il più santo è Gesù che fa miracolo».
   Felice è disorientato. Ma si aggrappa ad un appiglio: «Ad Aronne era già dato il ponteficato. Bastava».
   «No, amico», risponde Nicodemo. «Il ponteficato era una missione. Santa, ma non più di missione. Non sempre e non tutti i pontefici d’Israele furono santi. Eppure furono pontefici, anche se santi non erano».
   «Non vorrai dire che il Sommo Sacerdote sia uomo privo di grazia!…», esclama Felice.
   «Felice… non entriamo nel fuoco che brucia. Io, te, Gamaliele, Giuseppe, Nicodemo, tutti sappiamo tante cose…», dice quello di nome Giovanni.
   «Ma come? Ma come? Gamaliele, intervieni!…». Felice è scandalizzato.
   «Se è giusto, dirà la verità che non vuoi udire», dicono i tre che sono accesi contro Felice.
   Giuseppe cerca di mettere pace. Gesù sta zitto e così Tommaso, lo Zelote e l’altro Simone amico di Giuseppe. Gamaliele pare giocare con le frange del suo abito, ma guarda da sotto in su Gesù.
   «Parla dunque, Gamaliele», urla Felice.
   «Sì. Parla. Parla», dicono i tre.
   «Io dico: le debolezze della famiglia si tengono celate», dice Gamaliele.
   «Non è una risposta!», urla Felice. «Pare che tu confessi che vi sono colpe nella casa del Pontefice!».
   «È bocca di verità», dicono i tre.

   114.7 Gamaliele si raddrizza e si volge a Gesù: «Qui è il Maestro che eclissa i più dotti. Parli Lui in merito».
   «Lo vuoi. Ubbidisco. Io dico: L’uomo è uomo. La missione è oltre l’uomo. Ma l’uomo, investito di una missione, diventa capace di compierla da superuomo quando per una vita santa ha ad amico Dio. È Lui che ha detto: “Tu sei sacerdote secondo l’ordine da Me dato”. Cosa è scritto sul razionale? “Dottrina e Verità”. Questo dovrebbero avere coloro che sono i pontefici. Alla Dottrina si giunge con costante meditazione, tesa a conoscere il Sapientissimo. Alla Verità con la fedeltà assoluta al Bene. Chi tresca col Male entra nella Menzogna e perde Verità».
   «Bene! Hai risposto da grande rabbino. Io, Gamaliele, te lo dico. Mi superi».
   «Spieghi allora, costui, perché Aronne non fece miracoli e Mosé sì», strepita Felice.
   Gesù risponde pronto: «Perché Mosè doveva imporsi sulla massa oscura e pesante, e anche contraria, degli israeliti, e giungere ad avere un ascendente su essi, tale da piegarli al volere di Dio. L’uomo è l’eterno selvaggio e l’eterno bambino. È colpito da ciò che esce dalle regole. Il miracolo è tale. È una luce agitata davanti alle pupille oscurate, è un suono suonato presso le orecchie tappate. Sveglia. Richiama. Fa dire: “Qui è Dio”».
   «Lo dici a tuo pro», ribatte Felice.
   «A mio pro? E che mi aggiungo facendo miracolo? Posso parere più alto se mi metto un filo d’erba sotto il piede? Tale è il miracolo rispetto alla santità. Vi sono santi che non hanno fatto mai miracoli. Vi sono maghi e negromanti che con forze oscure li fanno, ossia fanno cose sovrumane ma che sante non sono, e loro sono demoni. Io sarò Io anche se non farò più miracolo».
   «Benissimo! Sei grande, Gesù!», approva Gamaliele.
   «E chi è, secondo te, questo “grande”?», incalza Felice rivolto a Gamaliele.
   «Il più grande profeta che io conosca, sia nelle sue opere che nelle sue parole», risponde questi.
   «È il Messia, ti dico, Gamaliele. Credilo, tu sapiente e giusto», dice Giuseppe.
   «Come? Anche tu, rettore dei giudei, tu, l’Anziano, gloria nostra, cadi in questa idolatria di un uomo? Ma chi te lo prova che è il Cristo? Io non lo crederò neppure se lo vedrò fare miracoli. Ma perché davanti a noi non ne fa uno? Diglielo tu che lo lodi, diglielo tu che lo difendi», dice Felice a Gamaliele e a Giuseppe.
   «Non l’ho invitato per trastullo degli amici e ti prego ricordare che è mio ospite», risponde serio Giuseppe.
   Felice si alza e se ne va stizzito e villano.

   114.8 Vi è un silenzio. Gesù si volge a Gamaliele: «E tu non chiedi miracoli per credere?».
   «Non saranno i miracoli di un uomo di Dio quelli che mi leveranno l’aculeo, che porto nel cuore, di tre domande che sempre rimangono senza risposta».
   «Quali domande?».
   «È vivo il Messia? Era quello? È questo?».
   «È Lui, ti dico, Gamaliele!», esclama Giuseppe. «Non lo senti santo? Diverso? Potente? Sì? E allora? Che attendi per credere?».
   Gamaliele non risponde a Giuseppe. Si rivolge a Gesù: «Una volta… non ti spiaccia, o Gesù, se io sono tenace nelle mie idee… Una volta, quando ancora viveva il grande e saggio Illele, io credetti, e lui con me, che il Messia fosse in Israele. Grande balenare di sole divino in quel freddo giorno di un insistente inverno! Era Pasqua… L’uomo tremava per le messi assiderate… Io dissi, dopo aver udito quelle parole: “Salvo è Israele! Da oggi dovizia nei campi e benedizioni nei cuori! L’Atteso si è manifestato col suo primo fulgore”. E non errai. Tutti potete rammentarvi che raccolto vi fu quell’anno embolismico, dai tredici mesi, che in questo si ripete…».
   «Che parole udisti? Da chi dette?».
   «Da uno… un poco più che bambino… ma Dio splendeva sul suo volto innocente e soave… Sono diciannove anni che penso e ricordo… e cerco riudire quella voce… che parlava parole di sapienza… Quale parte di Terra l’accoglie? Io penso:… “Era Dio. In veste di fanciullo per non terrorizzare l’uomo. E come baleno che scorrendo i firmamenti ratto appare ad oriente e a ponente, a settentrione e a meridione, Egli, il Divino, scorre, nella sua veste di misericordiosa bellezza, con voce e viso di bimbo e pensiero divino, la Terra per dire agli uomini: ‘Io sono’”. Così penso… “Quando tornerà in Israele?… Quando?”. E penso: “Quando Israele sarà altare per il suo piede di Dio”; e geme il cuore, vedendo l’abbiezione d’Israele: “Mai”. Oh! dura risposta! E vera! Può la Santità scendere nel suo Messia finché l’abbominio è in noi?».
   «Lo può e lo fa, perché è Misericordia», risponde Gesù.

   114.9 Gamaliele lo guarda pensoso e poi chiede: «Quale è il tuo vero Nome?».
   E Gesù si alza, imponente, e dice: «Io son chi sono. Il Pensiero e la Parola del Padre. Sono il Messia del Signore».
   «Tu?… Non lo posso credere. Grande la tua santità. Ma quel Bambino in cui io credo, ecco, ha detto allora: “Io darò un segno… Queste pietre fremeranno quando sarà la mia ora”. Io attendo quel segno per credere. Me lo puoi Tu dare per persuadermi che sei Tu l’Atteso?».
   I due, ora in piedi ambedue, alti, solenni, l’uno nell’ampio abito di lino candido, l’altro nel semplice abito di lana rosso cupo, l’uno anziano, l’altro giovane, dagli occhi dominatori e profondi entrambi, si guardano fissamente.
   Poi Gesù abbassa il braccio destro, che aveva piegato sul petto, e come giurasse esclama: «Questo segno vuoi? E questo avrai! Ripeto le lontane parole: “Le pietre del Tempio del Signore fremeranno alle mie ultime parole”. Attendi quel segno, dottore di Israele, uomo giusto, e poi credi, se vuoi avere perdono e salvezza. Beato in anticipo se potessi credere avanti! Ma non puoi. Secoli di credenze errate, su una promessa giusta, e cumuli di orgoglio, ti fanno baluardo alla Verità e alla Fede».
   «Bene dici. Attenderò quel segno. Addio. Il Signore sia con Te».
   «Addio, Gamaliele. Lo Spirito eterno ti illumini e conduca».
   Tutti salutano Gamaliele, che se ne va con Nicodemo e con Giovanni e Simone (sinedrista). Restano Gesù, Giuseppe, Lazzaro, Tommaso, Simone Zelote e Cornelio.
   «Non si piega!… Vorrei averlo fra i tuoi discepoli. Peso decisivo in tuo favore… e non riesco», dice Giuseppe.
   «Non te ne dolere. Nessun peso sarà atto a salvarmi dalla bufera che già si prepara. Ma Gamaliele, se non si piega in favore, neppure si piegherà contro al Cristo. È uno che attende…».
   Tutto ha fine.

[57] non l’ha concesso. Infatti i prodigi operati da Aronne furono dal Signore concessi non a lui, ma a Mosè con l’ordine di operarli attraverso l’azione di Aronne (Esodo 7-8). Anche se così non fosse, il Signore favorì Aronne non in quanto “suo primo pontefice”, perché gli fece compiere prodigi prima della consacrazione a sommo sacerdote (Esodo 28-29; Levitico 8-9). Ancora di Aronne si parla, oltre che in alcuni passi riguardanti Mosè, in 342.6 e 642.9.