MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

A A A

VOLUME II CAPITOLO 118



CXVIII. Inizio di vita in comune all’Acqua Speciosa e discorso d’apertura.

   26 febbraio 1945.

   118.1 Se si paragona questa bassa e rustica casetta alla casa di Betania, certo è un ovile, come dice Lazzaro. Ma se la si paragona alle case[61] dei contadini di Doras, è una abitazione ancora bella.
   Molto bassa e molto larga, costruita solidamente, ha una cucina, ossia un caminone in una stanza tutta affumicata in cui è un tavolo, dei sedili, delle anfore e una rustica rastrelliera dove sono dei piatti e delle coppe. Una larga porta di legno grezzo le dà luce oltre che accesso. Poi, sulla stessa parete dove si apre questa, sono altre tre porte che dànno accesso a tre cameroni lunghi e stretti, dalle pareti scialbate a calce e il suolo di terreno battuto come la cucina. In due di questi sono ora dei lettucci. Paiono dei piccoli dormitori. I molti arpioni infissi nelle pareti testimoniano che lì venivano appesi attrezzi e forse anche prodotti agricoli. Ora servono da attaccapanni, sorreggendo mantelli e bisacce. Il terzo camerone (più largo corridoio che camerone, perché è sproporzionata la larghezza alla lunghezza) è vuoto. Doveva servire anche a ricovero di animali, perché ha una greppia e anelli al muro e presenta quelle buche nel suolo proprie di terreni percossi da zoccoli ferrati. Ora non c’è nulla.
   Fuori, presso questo ultimo locale, un largo portico rustico, fatto di un tetto coperto di fascine e lavagne appoggiato su tronchi d’albero appena scorticati. Non è neppure portico, è tettoia perché è aperto da tre lati: due lunghi almeno dieci metri, l’altro stretto di un cinque metri, non più. In estate una vite deve stendere i suoi rami da tronco a tronco nel lato di meridione. Ora è spoglia e mostra i suoi scheletrici rami, come spoglio è un fico gigantesco che d’estate ombreggia la vasca al centro dell’aia, certo messa per abbeverare le bestie. È a fianco di un pozzo rudimentale, ossia di un buco a livello di suolo, appena un giro di pietre piatte e bianche lo segnala.
   Questa la casa che ospita Gesù e i suoi nel luogo detto «Acqua Speciosa». Campi, anzi, prati e vigne la circondano, e a distanza di un circa trecento metri (non prenda per articolo di fede le mie misurazioni) si vede un’altra casa, in mezzo ai campi, più bella perché munita di terrazzo sul tetto, che questa invece non ha. Oltre questa altra casa, boschi di ulivi e di altre piante, parte spoglie, parte fronzute, celano la vista.

   118.2 Pietro con il fratello e con Giovanni lavorano di gusto a scopare l’aia e i cameroni, a riaggiustare i letti, ad attingere l’acqua. Anzi Pietro fa tutto un armeggio intorno al pozzo per aggiustare e rinforzare le funi e rendere più pratico e comodo il prendere acqua. Invece i due cugini di Gesù lavorano di martello e di lima a serrature e imposte, e Giacomo di Zebedeo li aiuta segando e lavorando d’ascia come un arsenalotto.
   Nella cucina traffica Tommaso e pare un cuoco provetto, tanto sa dosare fuoco e fiamma e pulire svelto le verdure che il bel Giuda si è degnato di portare dal paese vicino. Capisco che c’è un paese, più o meno grosso, perché Giuda spiega che il pane lo fanno solo due volte per settimana e che perciò per quel giorno non c’è pane.
   Pietro sente e dice: «Faremo delle focacce sulla fiamma. Là c’è la farina. Svelto, levati la veste e impasta, poi a cuocerle ci penso io. Sono capace».
   E non posso che ridere vedendo che l’Iscariota si umilia, in sottoveste, ad intridere la farina, impolverandosi ben bene.
   Gesù non c’è e con Lui manca Simone, Bartolommeo, Matteo e Filippo.
   «Il più brutto è oggi», risponde Pietro ad un borbottio di Giuda di Keriot. «Ma domani andrà già meglio. E a primavera andrà bene del tutto…».
   «A primavera? Ma staremo qui sempre?», dice spaventato Giuda.
   «Perché? Non è una casa? Piovere, non ci piove. Acqua da bere c’è. Il focolare non manca. E che vuoi di più? Io ci sto benissimo. Anche perché non sento puzza di farisei e compagni…».
   «Pietro, andiamo a ritirare le reti», dice Andrea e trascina via il fratello prima che incominci una diatriba fra lui e l’Iscariota.
   «Quell’uomo non mi può vedere», esclama Giuda.
   «No. Non lo puoi dire. È così schietto con tutti. Ma è buono.
   Sei tu che sei sempre malcontento», risponde Tommaso che invece ha sempre un ottimo umore.
   «È che io mi credevo altra cosa…».
   «Mio cugino non ti vieta di andare alle altre cose», dice pacato Giacomo d’Alfeo. «Credo che tutti, perché stolti, credevamo altra cosa il seguirlo. Ma è perché siamo di dura cervice e di grande superbia. Egli non ha mai nascosto il pericolo e la fatica di seguirlo».
   Giuda borbotta fra i denti.
   Gli risponde l’altro Giuda, il Taddeo, che lavora intorno ad una mensola della cucina per tramutarla in piccolo armadio: «Hai torto. Anche secondo le consuetudini hai torto. Ogni israelita deve lavorare. E noi lavoriamo. Ti pesa tanto il lavoro? Io non lo sento, perché da quando sono con Lui ogni fatica perde il suo peso».
   «Anche io non rimpiango niente. E sono contento di essere proprio come in famiglia ora», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Faremo molto, qui!…», osserva ironico Giuda di Keriot.
   «Ma insomma cosa vuoi? Cosa pretendi? Una corte da satrapo? Non ti permetto di criticare ciò che fa mio cugino. Hai capito?», esplode il Taddeo.
   «Taci, fratello. Gesù non vuole queste dispute. Parliamo il meno possibile e facciamo il più possibile. Sarà meglio per tutti. D’altronde… se Lui non riesce a mutare i cuori… puoi sperarlo tu con le tue parole?», dice Giacomo d’Alfeo.
   «Il cuore che non muta è il mio, vero?», chiede l’Iscariota aggressivo.
   Ma Giacomo non gli risponde. Anzi si mette un chiodo fra le labbra e inchioda intanto vigorosamente delle assi, facendo un fragore tale che il borbottio di Giuda si perde.

   118.3 Passa qualche tempo, poi entrano contemporaneamente Isacco, con delle uova e una cesta di pagnotte fragranti, e Andrea con dei pesci in una nassa.
   «Ecco», dice Isacco. «Le manda il fattore e dice se occorre niente. Ha ordine così».
   «Lo vedi che di fame non si muore?», dice Tommaso all’Iscariota. E poi dice: «Dammi il pesce, Andrea. Che bello! Ma come si fa a prepararlo?… Qui non so fare».
   «Ci penso io», dice Andrea. «Sono pescatore», e si mette in un angolo a sventrare i suoi pesci ancora vivi.
   «Sta venendo il Maestro. Ha fatto un giro in paese e per le campagne. Vedrete che presto ci sarà chi viene. Ha già guarito un malato d’occhi. E poi io avevo già percorso queste campagne e sapevano…».
   «Eh! già! Io, io!… Tutto i pastori… Noi abbiamo lasciato, io almeno, una vita sicura e abbiamo fatto questo e quello, ma non si è fatto nulla…».
   Isacco guarda l’Iscariota stupito… ma filosoficamente non ribatte. Gli altri lo imitano… ma bollono di dentro.

   118.4 «Pace a voi tutti». È Gesù sulla soglia, sorridente, buono. Pare che il sole aumenti splendore per la sua venuta. «Che bravi! Tutti al lavoro! Posso aiutarti, cugino?».
   «No, riposa. Ho finito».
   «Siamo carichi di cibarie. Tutti hanno voluto dare. Se tutti avessero i cuori degli umili!», dice Gesù un poco mesto.
   «Oh! il mio Maestro! Che Dio ti benedica!». È Pietro che entra con un fascio di legna sulle spalle e che saluta così, sotto il suo peso, il suo Gesù.
   «Anche te, Pietro, ti benedica il Signore. Avete molto lavorato!».
   «E più lavoreremo nelle ore di libertà. Abbiamo una villa in campagna noi!… E ne dobbiamo fare un Eden. Intanto ho aggiustato il pozzo, tanto per vedere di notte dove è, e per essere sicuri di non perdere le brocche nel calarle. Poi… lo vedi che bravi i tuoi cugini? Tutte cose necessarie per chi deve vivere in un luogo a lungo, e io, pescatore, non avrei saputo. Proprio bravi. Anche Tommaso. Potrebbe mettersi nella cucina di Erode. Anche Giuda è bravo. Ha fatto delle splendide focacce…».
   «E inutili. C’è il pane», risponde di malumore Giuda.
   Pietro lo guarda e mi aspetto qualche risposta pepata, ma Pietro scuote il capo, aggiusta la cenere e vi stende su le sue focacce.
   «Fra poco è tutto pronto», dice Tommaso. E ride.

   118.5 «Parlerai oggi?», domanda Giacomo di Zebedeo.
   «Sì. Fra sesta e nona. I vostri compagni l’hanno detto. Mangiamo perciò solleciti».
   Ancora qualche tempo e poi Giovanni pone il pane sul desco, prepara i sedili, porta le coppe e le anfore, e Tommaso porta le verdure cotte e il pesce arrostito.
   Gesù è al centro, offre e benedice, distribuisce e tutti mangiano di gusto.
   Stanno ancora mangiando quando nell’aia si affacciano delle persone.
   Pietro si alza e va sulla porta: «Che volete?».
   «Il Rabbi. Non parla qui?».
   «Parla. Ma ora mangia perché è uomo Lui pure. Sedetevi là sotto e attendete».
   Il gruppetto va sotto la rustica tettoia.
   «Però viene il freddo e pioverà spesso. Io dico che sarebbe bene usare quella stalla vuota. L’ho pulita a dovere. La greppia sarà lo scanno…».
   «Non fare ironie stolte. Il Rabbi è rabbi», dice Giuda.
   «Ma che ironie! Se è nato in una stalla, potrà parlare da una greppia!».
   «Pietro ha ragione. Ma, ve ne prego, vogliatevi bene!». Gesù pare persino stanco nel dire queste parole.
   Terminano di mangiare e Gesù esce subito per andare presso la piccola folla.
   «Aspetta, Maestro», gli grida dietro Pietro. «Tuo cugino ti ha fatto un sedile perché è umido il suolo là sotto».
   «Non occorre. Tu sai. Parlo in piedi. La gente vuole vedermi ed Io la voglio vedere. Piuttosto… fate sedili e lettucci. Forse verranno dei malati… e serviranno».
   «Sempre per gli altri Tu pensi, Maestro buono!», dice Giovanni e gli bacia la mano.
   Gesù va col suo sorriso lievemente mesto verso la piccola folla. Con Lui vanno tutti i discepoli.
   Pietro, che è proprio a fianco di Gesù, lo fa chinare e gli mormora piano: «Dietro al muro è quella donna velata. L’ho vista. È lì da stamane. Ci è venuta dietro da Betania. La caccio o la lascio?».
   «Lasciala. L’ho detto».
   «Ma se è spia come dice l’Iscariota?».
   «Non lo è. Fidati di quanto ti dico. Lasciala e non dire nulla agli altri. E rispetta il suo segreto».
   «Ho taciuto perché pensavo fosse bene…».

   118.6 «Pace a voi che cercate la Parola», incomincia Gesù. E va in fondo al loggiato avendo alle spalle il muro della casa. Parla lentamente alla ventina di persone sedute per terra o addossate alle colonne, nel tepore di un solicello novembrino.
   «L’uomo cade in un errore nel considerare la vita e la morte e nell’applicare questi due nomi. Chiama “vita” il tempo in cui, partorito dalla madre, inizia il respiro, il nutrimento, il moto, il pensiero, l’azione; e chiama “morte” il momento in cui cessa di respirare, mangiare, muoversi, pensare, operare, e diviene una spoglia fredda e insensibile, pronta a rientrare in un seno, quello di un sepolcro. Ma non è così. Io voglio farvi capire la “vita”, indicarvi le opere atte alla vita.
   Vita non è esistenza. Esistenza non è vita. Esiste anche questa vigna che si lega a queste colonne. Ma non ha la vita di cui Io parlo. Esiste anche quella pecora che bela legata a quell’albero lontano. Ma non ha la vita di cui Io parlo. La vita di cui Io parlo non comincia con l’esistenza e non ha termine col finire della carne. La vita di cui Io parlo ha inizio non in un seno materno. Ha inizio quando dal Pensiero di Dio viene creata un’anima per abitare una carne, ha termine quando il Peccato la uccide!
   Prima l’uomo non è che un seme[62] che cresce, seme di carne, invece che di glutine o di midollo come lo è quello delle biade o quello delle frutta. Prima non è che un animale che si forma, un embrione di animale non dissimile da quello che ora gonfia nel seno di quella pecora. Ma dal momento che in questo concepimento d’uomo si infonde questa parte incorporea, e che pure è la più potente nella sua incorporeità che sublima, ecco che allora l’embrione animale non solo esiste come cuore pulsante, ma “vive” secondo il Pensiero creatore, e diviene l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, il figlio di Dio, il cittadino futuro dei Cieli.
   Ma questo avviene se la vita dura. L’uomo può esistere avendo immagine d’uomo, ma già non essendo più uomo. Essendo cioè un sepolcro in cui putrefà la vita. Ecco perciò che Io dico: la vita non comincia con l’esistenza e non ha termine col finire della carne. La vita ha inizio prima della nascita. La vita, poi, non ha più termine perché l’anima non muore, ossia non si annulla. Muore al suo destino, che è quello celeste, ma sopravvive nel suo castigo se così ha meritato[63]. A questo destino beato muore col morire alla Grazia. Questa vita, colpita da una cancrena che è la morte al suo destino, dura nei secoli nella dannazione e nel tormento. Questa vita, conservata invece tale, raggiunge la perfezione del vivere facendosi eterna, perfetta, beata come il suo Creatore.

   118.7 Abbiamo dei doveri verso la vita? Sì. Essa è un dono di Dio.
   Ogni dono di Dio va usato e conservato con cura, perché è cosa santa quanto il Donatore. Malmenereste voi il dono di un re? No. Passa agli eredi, e agli eredi degli eredi, come gloria della famiglia. E allora perché malmenare il dono di Dio? Ma come lo si usa e conserva questo dono divino? In che modo tenere in vita il paradisiaco fiore dell’anima per conservarlo ai Cieli? Come ottenere di “vivere” al di sopra ed oltre l’esistenza?
   Israele ha chiare leggi in proposito e non ha che osservarle. Israele ha profeti e giusti che dànno esempio e parola per praticare le leggi. Israele ha anche ora i suoi santi. Non può, non dovrebbe errare quindi Israele. Invece Io vedo macchie nei cuori e spiriti morti pullulare da ogni dove. Onde vi dico: fate penitenza; aprite l’animo alla Parola; mettete in pratica la Legge immutabile; rinsanguate l’esausta “vita” che langue in voi; se già l’avete morta, venite alla Vita vera, a Dio. Piangete sulle vostre colpe. Gridate: “Pietà!”. Ma risorgete. Non siate dei morti viventi per non essere domani degli eterni penanti. Io non vi parlerò d’altro che del modo di giungere o di conservare la vita.
   Un altro vi ha detto: “Fate penitenza. Mondatevi dal fuoco impuro delle lussurie, dal fango delle colpe”. Io vi dico: poveri amici, studiamo insieme la Legge. Riudiamo in essa la voce paterna del Dio vero. E poi insieme preghiamo l’Eterno dicendo: “La tua misericordia scenda sui nostri cuori”.
   Ora è cupo inverno. Ma fra poco verrà primavera. Uno spirito morto è più triste di un bosco spogliato dal gelo. Ma se umiltà, volontà, penitenza e fede penetreranno in voi, come bosco a primavera la vita tornerà in voi, e voi fiorirete a Dio per portare poi domani, nel domani dei secoli e dei secoli, perenne frutto di vita vera.
   Venite alla Vita! Cessate di esistere solamente e cominciate a “vivere”. La morte allora non sarà “fine”, ma principio sarà. Il principio di un giorno senza tramonto, di una gioia senza stanchezza e misura. La morte sarà il trionfo di ciò che visse prima della carne, e trionfo della carne che sarà chiamata, alla risurrezione eterna, a compartecipare a questa Vita, che Io prometto nel nome del Dio vero a tutti coloro che avranno “voluto” la “vita” per la loro anima calpestando il senso e le passioni per godere della libertà dei figli di Dio.
   Andate. Ogni giorno a quest’ora Io vi parlerò dell’eterna verità. Il Signore sia con voi».
   La gente sfolla piano con molti commenti. Gesù torna nella solitaria casetta e tutto ha fine.

[61] case, viste in 89.1 e in 109.11.
[62] Prima l’uomo non è che un seme... dovrebbe intendersi non in senso temporale, ma in senso ipotetico e modale, come per dire: Se fosse senz’anima, l’uomo concepito non sarebbe altro che un seme di carne. Il discorso, infatti, non si prefigge di stabilire il momento dell’infusione dell’anima, ma di far capire in termini semplici che la vita vera è quella spirituale.
[63] se così ha meritato è un’aggiunta di MV su una copia dattiloscritta.