MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME II CAPITOLO 123



CXXIII. I discorsi dell’Acqua Speciosa: Non fornicare. L’affronto di cinque notabili.

   4 marzo 1945.

   123.1 Mi dice Gesù: «Abbi pazienza, anima mia, per la doppia fatica. È tempo di sofferenza. Sai come ero stanco gli ultimi giorni?! Tu lo vedi. Mi appoggio nell’andare a Giovanni, a Pietro, a Simone, anche a Giuda… Sì. Ed Io, che emanavo miracolo solo sfiorando con le mie vesti, non potei mutare quel cuore! Lascia che Io mi appoggi a te, piccolo Giovanni, per ridire le parole già dette negli ultimi giorni a quei pervicaci ottusi sui quali l’annuncio del mio tormento scorreva senza penetrare. E lascia anche che il Maestro dica le sue ore di predicazione nella triste pianura dell’Acqua Speciosa. Ed Io ti benedirò due volte. Per la tua fatica e per la tua pietà. Numero i tuoi sforzi, raccolgo le tue lacrime. Agli sforzi per amore dei fratelli sarà data la ricompensa di quelli che si consumano per fare noto Dio agli uomini. Alle tue lacrime per il mio soffrire dell’ultima settimana sarà dato in premio il bacio di Gesù. Scrivi e sii benedetta».

   
   123.2
Gesù è ritto su un mucchio di tavole alzate come una tribuna in uno degli stanzoni, l’ultimo, e parla con voce tonante, presso la porta, per essere udito tanto da quelli che sono nella stanza come da quelli che sono sotto la tettoia e sino sull’aia allagata dalla pioggia. Sotto i loro mantelloni scuri e di lana non conciata, sulla quale l’acqua non ha presa, paiono tanti frati. Nella stanza sono i più deboli, sotto la tettoia le donne, nella corte, all’acqua, i robusti, uomini per lo più.
   Pietro va e viene, scalzo e con la sola veste corta sotto un telo che si è messo sul capo, e non perde il buon umore anche se deve sguazzare nell’acqua e fare una doccia non richiesta. Con lui sono Giovanni, Andrea e Giacomo. Trasportano dall’altro stanzone con precauzione dei malati e guidano dei ciechi o sorreggono degli storpi.
   Gesù attende con pazienza che tutti siano a posto. E solo si duole che i quattro discepoli siano bagnati come delle spugne messe in un secchio.
   «Niente, niente! Siamo legno impeciato. Non te la prendere.
   Facciamo un altro battesimo, e il battezzatore è Dio stesso», risponde Pietro ai rammarichi di Gesù.
   Finalmente tutti sono a posto e Pietro pensa di potersi andare a mettere una veste asciutta. E lo fa cogli altri tre. Ma, quando ha raggiunto da capo il Maestro, vede sporgere dall’angolo della tettoia il mantellone bigio della velata e, senza più pensare che per andare da lei deve riattraversare la corte in diagonale sotto lo scroscio della pioggia che infittisce e nelle pozze che schizzano fino al ginocchio così percosse dai goccioloni, va da lei. La prende per un gomito, senza spostare il mantello, e la trascina bene in su, presso la parete dello stanzone, al riparo dall’acqua. E poi le si pianta vicino, duro e immobile come una sentinella.
   Gesù ha visto. Ha sorriso chinando il capo per celare la luminosità del suo sorriso.

   123.3 Ora parla.
   «Non dite, voi che siete venuti costanti a Me, che Io non parlo con ordine e salto via qualcuno dei dieci comandi. Voi udite. Io vedo. Voi ascoltate. Io applico ai dolori ed alle piaghe che vedo in voi. Io sono il Medico. Un medico va prima ai più malati, a quelli che sono più prossimi a morte. Poi si volge ai meno gravi. Io pure.
   Oggi dico: “Non fornicate”.
   Non volgete intorno lo sguardo cercando di leggere sul volto di uno la parola “lussurioso”. Abbiate carità reciproca. Amereste che uno la leggesse su voi? No. E allora non cercate leggerla nell’occhio turbato del vicino, sulla sua fronte che arrossa e si curva al suolo. E poi… Oh! dite, voi uomini in specie. Quale fra voi non ha mai messo i denti in questo pane di cenere e sterco che è la soddisfazione sessuale? Ed è lussuria solo quella che vi spinge per un’ora fra braccia meretrici? Non è lussuria anche il profanato connubio con la sposa, profanato perché è vizio legalizzato essendo reciproca soddisfazione del senso, evadendo alle conseguenze dello stesso?
   Matrimonio vuole dire procreazione, e l’atto vuol dire e deve essere fecondazione. Senza ciò è immoralità. Non si deve del talamo fare un lupanare. E tale diventa se si sporca di libidine e non si consacra con delle maternità. La terra non respinge il seme. Lo accoglie e ne fa pianta. Il seme non fugge dalla zolla dopo esservi deposto. Ma subito genera radice e si abbranca per crescere e fare spiga, ossia la creatura vegetale nata dal connubio fra la zolla e il seme. L’uomo è il seme, la donna è la terra, la spiga è il figlio. Rifiutarsi a far la spiga e sperdere la forza in vizio è colpa. È meretricio commesso sul letto nuziale, ma per nulla dissimile dall’altro, anzi aggravato dalla disubbidienza al comando che dice[69]: “Siate una sola carne e moltiplicatevi nei figli”.
   Perciò vedete, o donne volutamente sterili, mogli legali e oneste non agli occhi di Dio ma del mondo, che ciononostante voi potete essere come prezzolate femmine e fornicare ugualmente pur essendo del solo marito, perché non alla maternità ma al piacere andate troppo e troppo spesso. E non riflettete che il piacere è un tossico che aspirato da qual che sia bocca contagia, fa arsi di un fuoco che credendo saziarsi si spinge fuor dal focolare e divora, sempre più insaziabile, lasciando acre sapor di cenere sotto la lingua e disgusto e nausea e sprezzo di sé e del compagno di piacere, perché quando la coscienza risorge – e fra l’una febbre e l’altra essa sorge – non può non nascere questo sprezzo di sé, avviliti fino a sotto la bestia?

   123.4 “Non fornicate” è detto.
   È fornicazione molta parte delle azioni carnali dell’uomo. E non contemplo neppure quelle inconcepibili unioni da incubo che il Levitico condanna[70] con queste parole: “Uomo, non ti accosterai all’uomo come fosse una donna”, e: “Non ti accosterai ad alcuna bestia per non contaminarti con essa. E così farà la donna e non si unirà a bestia perché è scellerataggine”. Ma dopo avere accennato al dovere degli sposi verso il matrimonio, che cessa d’esser santo quando, per malizia, diviene infecondo, vengo a parlare della vera e propria fornicazione fra uomo e donna per vizio reciproco e per compenso in denaro o in doni.
   Il corpo umano è un magnifico tempio che racchiude un altare. Sull’altare dovrebbe essere Dio. Ma Dio non è dove è corruzione. Perciò il corpo dell’impuro ha l’altare sconsacrato e senza Dio. Pari a colui che si avvoltola ebbro nel fango e nei rigurgiti della propria ebbrezza, l’uomo avvilisce se stesso nella bestialità della fornicazione e diviene peggio del verme e della bestia più immonda.
   E ditemi, se fra voi è alcuno che ha depravato se stesso sino a commerciare il suo corpo come si fa mercato di biade o di animali, quale bene ve ne è venuto? Prendetevi proprio il vostro cuore in mano, osservatelo, interrogatelo, ascoltatelo, vedete le sue ferite, i suoi brividi di dolore, e poi dite e rispondetemi: era così dolce quel frutto da meritare questo dolore di un cuore che era nato puro e che voi avete costretto a vivere in un corpo impuro, a battere per dare vita e calore alla lussuria, a logorarsi nel vizio?
   Ditemi: ma siete tanto depravate da non singhiozzare nel segreto, sentendo una voce di bimbo che chiama: “mamma” e pensando alla vostra madre, o donne di piacere, fuggite da casa, o cacciate da essa perché il frutto marcito non rovinasse col suo trasudante marciume gli altri fratelli? Pensando alla vostra madre che forse è morta dal dolore di doversi dire: “Ho partorito un obbrobrio”?
   Ma non vi sentite cadere il cuore per terra, incontrando un vecchio solenne nella sua canizie e pensando che su quella del padre voi avete gettato il disonore come un fango preso a piene mani, e col disonore lo scherno del paese natio?
   Ma non vi sentite torcere le viscere di rimpianto vedendo la felicità di una sposa o la innocenza di una vergine, e dovendo dire: “Io tutto questo l’ho rinunciato e non lo avrò mai più!”?
   Ma non sentite come scotennarvi dalla vergogna il volto, incontrando lo sguardo degli uomini o bramoso o pieno di spregio?
   Ma non sentite la vostra miseria quando avete sete di un bacio di bimbo e non osate più dire: “Dammelo”, perché avete ucciso delle vite all’inizio, respinte da voi come peso noioso e un inutile impiccio, staccate dall’albero che pur le aveva concepite, e gettate a far letame, e ora quelle piccole vite vi gridano: “assassine!”?
   Ma non tremate, soprattutto, di quel Giudice che vi ha create e vi attende per chiedervi: “Che hai fatto di te stessa? Per questo, forse, ti ho dato la vita? Pullulante nido di vermi e putrefazione, come osi stare al mio cospetto? Tutto avesti di ciò che per te era il dio: il piacere. Va’ nella maledizione senza termine”?

   123.5 Chi piange? Nessuno? Voi dite: nessuno? Eppure l’anima mia va incontro ad un’altra anima che piange. Perché le va incontro? Per lanciarle l’anatema perché meretrice? No. Perché mi fa pietà l’anima sua. Tutto in Me repelle per il suo corpo sozzo, sudato nella fatica lasciva. Ma la sua anima!
   Oh! Padre! Padre! Anche per quest’anima Io ho preso carne ed ho lasciato il Cielo per essere il Redentore suo e di tante sue anime sorelle! Perché devo non raccogliere questa pecora errante e portarla all’ovile, mondarla, unirla al gregge, darle pascoli e un amore che sia perfetto come solo il mio può essere, così diverso da quelli che ebbero fin qui per lei nome di amore e non erano che odii, così pietoso, completo, soave che ella più non rimpianga il tempo passato, o lo rimpianga solo per dire: “Troppi giorni ho perduto lungi da Te, eterna Bellezza. Chi mi rende il tempo perduto? Come gustare nel poco che mi resta quanto avrei gustato se fossi sempre stata pura?”.
   Eppure non piangere, anima calpestata da tutta la libidine del mondo. Ascolta: sei un cencio lurido. Ma puoi tornare fiore. Sei un letamaio. Ma puoi divenire aiuola. Sei animale immondo. Ma puoi tornare angelo. Un giorno lo fosti. Danzavi sui prati fioriti, rosa fra le rose, fresca come esse, olezzante di verginità. Cantavi serena le tue canzoni di bambina e poi correvi dalla madre, dal padre, e dicevi loro: “Voi siete i miei amori”. E l’invisibile custode che ogni creatura ha al fianco sorrideva della tua anima bianco-azzurra… E poi? Perché? Perché hai strappato le tue ali di piccolo innocente? Perché hai calpestato un cuore di padre e di madre per correre ad altri cuori insicuri? Perché hai piegato la voce pura a menzognere frasi di passione? Perché hai infranto lo stelo della rosa e violato te stessa?
   Pentiti, figlia di Dio. Il pentimento rinnova. Il pentimento purifica. Il pentimento sublima. L’uomo non ti può perdonare? Neppure tuo padre potrebbe più? Ma Dio può. Perché la bontà di Dio non ha paragone con la bontà umana e la sua misericordia è infinitamente più grande della umana miseria. Onora te stessa rendendo, con una vita onesta, onorevole la tua anima. Giustificati presso Iddio non peccando più contro la tua anima. Fatti un nome nuovo presso Dio. È quello che vale. Sei il vizio. Diventa l’onestà. Diventa il sacrificio. Diventa la martire del tuo pentimento. Sapesti bene martirizzare il tuo cuore per far godere la carne. Ora sappi martirizzare la carne per dare un’eterna pace al tuo cuore.
   Vai. Andate tutti. Ognuno col suo peso e col suo pensiero, e meditate. Dio tutti attende e non rigetta nessuno di quelli che si pentono. Il Signore vi dia la sua luce per conoscere la vostra anima. Andate».
   Molti vanno via verso il paese. Altri entrano nello stanzone. Gesù va verso i malati e li risana.

   123.6 Un gruppo di uomini parlotta in un angolo; divisi fra diverse tendenze, gesticolano e si accalorano. Alcuni sono accusatori di Gesù, altri difensori, altri ancora esortano questi e quelli a più maturo giudizio.
   Infine i più accaniti, forse perché pochi rispetto agli altri due gruppi, prendono una via di mezzo. Vanno da Pietro, che insieme a Simone trasporta le barelle ormai inutili di tre miracolati, e lo assalgono prepotenti dentro allo stanzone mutato in foresteria dei pellegrini. Dicono: «Uomo di Galilea, ascolta».
   Pietro si volta e li guarda come bestie rare. Non parla, ma il suo viso è un poema. Simone getta solo un’occhiata ai cinque energumeni e poi esce, lasciando tutti in asso.
   Uno dei cinque riprende: «Io sono Samuele, lo scriba; costui è l’altro scriba Sadoch; e questo è il giudeo Eleazaro, molto noto e potente; e questo l’illustre anziano Callascebona; e questo, infine, Nahum. Capisci? Nahum!», e il tono è addirittura enfatico.
   Pietro fa un lieve inchino ad ogni nome, ma all’ultimo resta a mezza via, e dice, con la massima indifferenza: «Non so. Mai sentito. E… non capisco niente».
   «Rozzo pescatore! Sappi che è il fiduciario di Anna!».
   «Non conosco Anna; ossia conosco molte donne di nome Anna. Ce ne è una fungaia anche a Cafarnao. Ma non so di che Anna costui è fiduciario».
   «Costui? A me si dice: “costui”?».
   «Ma cosa vuoi che ti dica? Asino o uccello? Quando andavo a scuola mi ha insegnato il maestro a dire “costui” parlando di un uomo e, se non ho le traveggole, tu sei un uomo».
   L’uomo si dimena come fosse torturato da quelle parole. L’altro, il primo che ha parlato, spiega: «Ma Anna è il suocero di Caifa…».
   «Aaaah!… Capito!!! Ebbene?».
   «Ebbene, sappi che noi siamo sdegnati!».
   «Di che? Del tempo? Anche io. È la terza volta che mi cambio veste e ora non ho più nulla di asciutto».
   «Ma non fare lo stolto!».
   «Stolto? È verità. Se non siete sdegnati del tempo, di che allora? Dei romani?».
   «Del tuo Maestro! Del falso profeta».
   «Ehi! caro Samuele! Bada che mi sveglio, e sono come il lago. Dalla bonaccia alla tempesta non ci tengo che un attimo. Guarda come parli…».
   Sono entrati anche i figli di Zebedeo e di Alfeo, e con loro l’Iscariota e Simone, e si stringono a Pietro che alza sempre più la voce.
   «Tu non toccherai con le tue mani plebee i grandi di Sionne!».
   «Oh! che bei signorini! E voi non toccatemi il Maestro, perché altrimenti volate nel pozzo, subito, a purificarvi per davvero, di dentro e di fuori».
   «Faccio osservare ai dotti del Tempio che la casa è dominio privato», dice pacato Simone. E l’Iscariota rincara: «e che il Maestro, io ne sono mallevadore, ha sempre avuto per la casa altrui, prima fra tutte la Casa del Signore, il massimo rispetto.
   Sia usato uguale verso la sua».
   «Tu taci, verme subdolo».
   «Subdolo in quanto! Mi avete fatto schifo e sono venuto dove schifo non è. E voglia Dio che essere stato con voi non mi abbia corrotto fino nel fondo!».

   123.7 «Breve: che volete?», chiede asciutto Giacomo di Alfeo.
   «E tu chi sei?».
   «Sono Giacomo di Alfeo, e Alfeo di Giacobbe, e Giacobbe di Matan, e Matan di Eleazar, e se vuoi ti dico tutta l’ascendenza sino a re Davide da cui vengo. E cugino sono del Messia. Per cui ti prego di parlare con me, di stirpe reale e di razza giudea, se alla tua alterigia è schifo parlare con un onesto israelita che conosce Dio meglio di Gamaliele e Caifa. Andiamo. Parla».
   «Il tuo Maestro e parente si fa seguire dalle prostitute.
   Quella velata è una di esse. L’ho vista mentre vendeva dell’oro. E l’ho riconosciuta. È l’amante fuggita a Sciammai. Questo lo disonora».
   «Chi? A Sciammai il rabbino? Allora deve essere una vecchia carcassa. Fuori pericolo perciò…», motteggia l’Iscariota.
   «Taci, folle! A Sciammai di Elchi, il prediletto di Erode».
   «Toh! Toh! Segno che non lo predilige più, lei, il prediletto.
   È lei che deve andare in letto con lui. Non te. Perché te la prendi, allora?». Giuda di Keriot è ironico al sommo.
   «Uomo, non pensi di disonorarti facendo la spia?», chiede Giuda di Alfeo. «E non pensi che si disonora colui che si abbassa a peccare, non colui che cerca alzare il peccatore? Che disonore ne viene al mio Maestro e fratello se Egli, parlando, spinge la voce sino alle orecchie profanate dalla bava dei lussuriosi di Sionne?».
   «La voce? Ah! Ah! Ha trent’anni il tuo Maestro e cugino, e non è che più ipocrita degli altri! E tu, e voi tutti, dormite sodo la notte…».
   «Impudente rettile! Fuori di qui o ti strozzo», urla Pietro e a lui fanno eco Giacomo e Giovanni, mentre Simone si limita a dire: «Vergogna! La tua ipocrisia è tanto grande che rigurgita e trabocca, e sbavi come un lumacone sul fiore puro. Esci e divieni uomo, perché per ora non sei che una bava. Ti riconosco, Samuele. Sei sempre lo stesso cuore. Dio ti perdoni. Ma va’ via dal mio cospetto».
   Ma mentre il Keriot con Giacomo di Alfeo tengono il bollente Pietro, Giuda Taddeo, che nell’atto assomiglia più che mai al Cugino, di cui ora ha lo stesso balenare azzurro nello sguardo e l’imponenza nell’espressione, tuona: «Disonora se stesso chi l’innocente disonora. L’occhio e la lingua li ha fatti Dio per compiere opere sante. Il malèdico li profana e avvilisce, facendo loro compiere opere malvagie. Io non sporcherò me stesso con atto villano contro la tua canizie. Ma ti ricordo che i malvagi odiano l’uomo integro e che lo stolto sfoga il suo malanimo senza neppur più riflettere che si tradisce. Chi vive nelle tenebre scambia per rettile il ramo fiorito. Ma chi vive nella luce vede le cose come esse sono e le difende, se denigrate, per amore alla giustizia. Noi viviamo nella luce. Siamo la generazione casta e bella dei figli della luce, e il Duce nostro è il Santo che non conosce donna né peccato. Noi Lui seguiamo e lo difendiamo dai suoi nemici, per i quali, come Lui ci ha insegnato, abbiamo non odio ma preghiera. Impara, o vecchio, da un giovane, divenuto maturo perché la Sapienza gli è Maestro, a non essere lesto nel parlare e buono a nulla nell’operare il bene. Vai. E riporta a chi ti ha mandato che non nella profanata casa che è sul monte Moria, ma in questa povera dimora riposa Dio sulla sua gloria. Addio».
   I cinque non osano ribattere e se ne vanno.

   123.8 I discepoli si consultano. Dirlo o non dirlo a Gesù, che è ancora coi malati guariti? Dirlo. È meglio così. Lo raggiungono, lo chiamano e lo dicono.
   Gesù sorride calmo e risponde: «Vi ringrazio della difesa…
   ma che ci volete fare? Ognuno dà ciò che ha».
   «Però un poco ragione l’hanno. Gli occhi sono nella testa per vedere e molti vedono. Lei è sempre lì fuori, come un cane. Ti nuoce», dicono in diversi.
   «Lasciatela stare. Non sarà lei la pietra che mi colpirà sul capo. E se lei si salva… oh! Vale bene la pena di una critica per questa gioia!».
   Tutto ha fine su questa dolce risposta.

[69] dice, in: Genesi 1, 28; 2, 24; 9, 1.
[70] condanna, in: Levitico 18, 22-23.