MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 200



CC. Aglae a colloquio con il Salvatore.

   25 giugno 1945.

   200.1 Gesù rientra solo nella casa dello Zelote. La sera sta scendendo, placida e serena dopo tanto sole. Gesù si affaccia alla porta della cucina, saluta e poi sale a meditare nella stanza superiore, già preparata per la cena.
   Non pare molto lieto il Signore. Sospira spesso e passeggia avanti e indietro per lo stanzone, gettando ogni tanto uno sguardo sulla campagna circostante, che è visibile dalle molte porte di questa ampia stanza che fa da cubo sopra il piano terreno. Esce anche a passeggiare sulla terrazza, facendo il giro della casa, e si immobilizza sul lato posteriore a guardare Giovanni di Endor, che cortesemente attinge acqua ad un pozzo per offrirla alla indaffarata Salome. Guarda, scrolla il capo, sospira.
   La potenza del suo sguardo attira Giovanni, che si volge a guardare e che chiede: «Maestro, mi vuoi?».
   «No, ti guardavo solamente».
   «È buono Giovanni. Mi aiuta», dice Salome.
   «Anche di questo aiuto Dio gliene darà compenso».
   Gesù, dopo queste parole, rientra nella stanza e si siede.

   200.2 È tanto assorto che non avverte il brusio di molte voci e lo scalpiccio di molti passi entro il corridoio di entrata, e poi due pedate leggere che salgono la scaletta esterna e si avvicinano allo stanzone. Solo quando Maria lo chiama alza il capo.
   «Figlio, è giunta a Gerusalemme Susanna con la famiglia e mi ha subito accompagnato Aglae. La vuoi udire mentre siamo soli?».
   «Sì, Madre. Subito. E che non salga nessuno finché tutto è finito. Spero avere tutto finito prima del ritorno degli altri. Ma ti prego di vegliare acciò non ci siano curiosità indiscrete… in nessuno… e specie per Giuda di Simone».
   «Sorveglierò con cura…».
   Maria esce per tornare dopo poco tenendo per mano Aglae, non più infagottata nel suo mantellone grigio e nel suo velo calato sul davanti, non più con i sandali alti e complicati di fibbie e di strisce che aveva prima, ma resa in tutto simile ad una ebrea per i sandali piatti e bassi, semplicissimi come quelli di Maria, per la veste di un azzurro cupo sulla quale è drappeggiato il manto, e per il velo bianco messo come lo usano le donne ebree popolane, ossia semplicemente sul capo con un lembo gettato sulle spalle di modo che il viso ne è velato ma non totalmente. L’abito comune a quello di infinite altre donne, e l’essere in un gruppo di galilei, hanno risparmiato ad Aglae di essere riconosciuta.
   Entra a capo chino, divenendo di porpora ad ogni passo che fa, e credo che, se Maria non la tirasse dolcemente verso Gesù, si sarebbe inginocchiata sulla soglia.
   «Ecco, Figlio, colei che ti cerca da tanto tempo. Ascoltala», dice Maria quando è presso a Gesù e poi si ritira, abbassando le tende sulle porte spalancate e chiudendo quella che è più prossima alla scaletta.

   200.3 Aglae si libera del sacchetto che ha sulle spalle e poi si inginocchia ai piedi di Gesù con un grande scoppio di pianto. Scivola fino a terra e piange col capo appoggiato sulle braccia incrociate al suolo.
   «Non piangere così. Non è più tempo. Piangere dovevi quando eri in odio a Dio. Non ora che lo ami e ne sei amata».
   Ma Aglae continua a piangere… «Non credi che così è?».
   La voce si fa strada fra i singhiozzi: «Io lo amo, è vero, come so, come posso… Ma, per quanto io sappia e creda che Dio è Bontà, non posso osare di sperare di avere il suo amore. Ho troppo peccato… Lo avrò, forse, un giorno… Ma devo piangere tanto ancora… Per ora sono sola nel mio amore. Sono sola… Non è la disperata solitudine degli anni passati. È una solitudine piena del desiderio di Dio, perciò non più disperata… ma così triste, così triste…».
   «Aglae, come male ancora conosci il Signore! Questo desiderio di Lui ti è prova che Dio risponde al tuo amore, che ti è amico, che ti chiama, che ti invita, che ti vuole. Dio è incapace di rimanere inerte davanti al desiderio della creatura, perché quel desiderio lo ha acceso Lui, Creatore e Signore di ogni creatura, in quel cuore. Lo ha acceso Lui perché ha amato di privilegiato amore l’anima che ora lo desidera. Il desiderio di Dio sempre precede il desiderio della creatura, perché Egli è il Perfettissimo e perciò il suo amore è ben più solerte e acceso dell’amore della creatura».
   «Ma come, come può Dio amare il mio fango?».
   «Non cercare di comprendere con la tua intelligenza. È un abisso di misericordia, incomprensibile a mente umana. Ma là dove l’intelligenza dell’uomo non può comprendere, comprende invece l’intelligenza dell’amore, l’amore dello spirito. Questo comprende ed entra sicuro nel mistero che è Dio e nel mistero dei rapporti dell’anima con Dio. Entra, Io te lo dico. Entra poiché Dio lo vuole».
   «Oh! Salvatore mio! Ma allora io sono proprio perdonata?
   Amata proprio io sono? Lo devo credere?».
   «Ti ho mai mentito?».
   «Oh! no, Signore! Tutto quanto mi hai detto[68] ad Ebron si è avverato. Tu mi hai salvata come è detto dal tuo Nome. Tu mi hai cercata, povera anima perduta. Tu mi hai dato la vita di quest’anima che io portavo in me morta. Tu mi hai detto che se ti avessi cercato ti avrei trovato. E fu vero. Tu mi hai detto che sei dovunque l’uomo ha bisogno di medico e medicina. Ed è vero. Tutto, tutto quanto hai detto alla povera Aglae, da quelle parole del mattino di giugno, alle altre dell’Acqua Speciosa…».
   «Devi allora credere anche a queste».
   «Sì, credo, credo! Ma Tu dimmi: “Io ti perdono !”».
   «Io ti perdono in nome di Dio e di Gesù».
   «Grazie…

   200.4 Ma ora… Ora che devo fare? Dimmi, Salvatore mio, che cosa devo fare per avere la Vita eterna? L’uomo si corrompe solo nel guardarmi… Io non posso vivere col tremito continuo di essere scoperta e circuita… In questo viaggio io tremavo ad ogni sguardo d’uomo… Io non voglio più peccare né fare peccare. Dammi la via da seguire. Qual che sia la seguirò. Tu vedi che sono forte anche negli stenti… E anche se per troppo stento incontrassi la morte non ne ho paura. La chiamerò “amica mia” perché mi leverà dai pericoli della Terra, e per sempre. Parla, mio Salvatore».
   «Va’ in luogo deserto».
   «Dove, Signore?».
   «Dove vuoi. Dove ti porterà il tuo spirito».
   «Sarà capace di tanto il mio spirito appena formato?».
   «Sì, perché Dio ti conduce».
   «E chi mi parlerà più di Dio?».
   «La tua anima risorta, per ora…».
   «Ti vedrò mai più?».
   «Mai più sulla Terra. Ma fra poco ti avrò redenta del tutto e allora verrò al tuo spirito per prepararti all’ascesa a Dio».
   «Come avverrà la mia completa redenzione se non ti vedrò più? Come me la darai?».
   «Morendo per tutti i peccatori».
   «Oh! no! Tu no, morire!».
   «Per darvi la Vita devo darmi la morte. Sono venuto per questo in veste umana. Non piangere… Mi raggiungerai presto dove Io sarò dopo il sacrificio mio e tuo».
   «Mio, Signore? Io pure morrò per Te?».
   «Sì. Ma in altra maniera. Morirà ora per ora la tua carne e per volere della tua volontà. È quasi un anno che sta morendo. Quando essa sarà tutta morta, Io ti chiamerò».
   «Avrò la forza di distruggere la mia carne colpevole?».
   «Nella solitudine dove sarai e dove Satana ti assalirà con livida violenza quanto più tu diverrai dei Cieli, troverai un mio apostolo, già peccatore e poi redento».
   «Allora non il benedetto che mi parlava di Te? Egli è troppo onesto per essere stato peccatore».
   «Non quello. Un altro. Ti raggiungerà all’ora giusta. Ti dirà quanto ancora non puoi sapere. Va’ in pace. La benedizione di Dio sia su di te».

   200.5 Aglae, che è sempre stata in ginocchio, si curva a baciare i piedi del Signore. Non osa di più. Poi afferra il suo sacco, lo capovolge. Ne cadono semplici vesti, un piccolo sacchetto che risuona e un’anfora di un delicato alabastro rosa.
   Aglae ripone le vesti, raccoglie il sacchetto e dice: «Questo per i tuoi poveri. È il resto dei miei gioielli. Non ho serbato che delle monete per viatico durante il viaggio… perché, se anche Tu non lo avessi detto, sarei andata in luogo remoto. E questo è per Te. Meno soave del profumo della tua santità. Ma è tutto quello che può dare di meglio la Terra. E mi serviva per fare il peggio… Ecco. Dio mi conceda di odorare almeno come questo, al tuo cospetto, in Cielo», e stappa l’anfora dal tappo prezioso spargendone il contenuto al suolo. Un odore acuto di rose sale a ondate dai mattoni che si impregnano dell’essenza preziosa.
   Aglae ritira l’anfora vuota. «Per ricordo di quest’ora», dice e poi si curva ancora a baciare i piedi di Gesù e si rialza, si ritira a ritroso, esce, chiude la porta… Si sente il suo passo allontanarsi verso la scala, la sua voce scambiare poche parole con Maria, e poi il rumore dei sandali che scendono la scala, e poi più nulla. Di Aglae non resta che il sacchettino ai piedi di Gesù e l’aroma acutissimo per tutta la stanza.
   Gesù si alza… raccoglie il sacchetto e se lo pone in seno, va ad una apertura che guarda sulla via, sorride vedendo la donna sola che si allontana nel suo mantello ebraico verso Betlemme. Fa un gesto di benedizione e poi va sulla terrazza e chiama: «Mamma».
   Maria sale lesta la scala: «L’hai fatta felice, Figlio mio. È andata, con fortezza e con pace».
   «Sì, Madre. Quando tornerà Andrea, mandamelo per primo».

   200.6 Passa del tempo, poi si sentono le voci degli apostoli che ritornano… Accorre Andrea: «Maestro, mi vuoi?».
   «Sì, vieni qui. Nessuno lo saprà, ma per te è giustizia dirlo.
   Andrea, grazie in nome di Dio e di un’anima».
   «Grazie? Di che?».
   «Non senti questo profumo? È il ricordo della Velata. È venuta. È salvata».
   Andrea diviene rosso come una fragola, scivola in ginocchio e non trova una parola… Infine dice: «Ora sono contento. Sia benedetto il Signore!».
   «Sì. Alzati. Non dire agli altri che è venuta».
   «Tacerò, Signore».
   «Vai pure. Ascolta, c’è ancora Giuda di Simone?».
   «Sì, ci ha voluto accompagnare… dicendo… tante menzogne. Perché fa così, Signore?».
   «Perché è un ragazzo viziato. Dimmi la verità: vi siete litigati?».
   «No. Mio fratello è troppo felice col suo bambino per avere voglia di farlo, e gli altri… lo sai… sono più prudenti. Ma certo, in cuor nostro, siamo tutti disgustati. Ma dopo cena torna via… Altri amici… dice lui. Oh! e sprezza le meretrici!…».
   «Sii buono, Andrea. Anche tu devi essere felice questa sera…».
   «Sì, Maestro. Ho anche io la mia invisibile ma dolce paternità. Vado».

   200.7 Ancora qualche tempo, poi salgono in gruppo gli apostoli col bambino e Giovanni di Endor. Li seguono le donne con le pietanze e i lumi. Ultimo viene Lazzaro con Simone.
   Appena entrano nella stanza esclamano: «Ah! ma veniva di qui!!!», e fiutano l’aria satura di profumo di rose, satura nonostante le porte spalancate. «Ma chi ha profumato così questa stanza? Marta forse?», chiedono in molti.
   «Mia sorella non si è mossa di casa, oggi, dopo le mense», risponde Lazzaro.
   «E chi allora? Qualche satrapo assiro?», scherza Pietro.
   «L’amore di una redenta», dice serio Gesù.
   «Poteva risparmiarsi questo inutile sfoggio di redenzione e dare quanto ha speso per i poveri. Sono tanti e sanno che noi diamo. Io non ho più un picciolo», dice irritato l’Iscariota. «E dobbiamo comperare l’agnello, affittare la stanza per il Cenacolo e…».
   «Ma vi ho offerto tutto io…», dice Lazzaro.
   «Non è giusto. Perde il bello, il rito. La Legge dice: “Prenderai l’agnello per te e la tua casa”. Non dice: “Accetterai l’agnello”».
   Bartolomeo si volta di scatto, apre la bocca, ma poi la chiude. Pietro diviene cremisi nello sforzo di tacere. Ma lo Zelote, che è in casa sua, sente di poter parlare e dice: «Queste sono sottigliezze rabbiniche… Ti prego di lasciarle perdere e di conservare, in cambio, rispetto al mio amico Lazzaro».
   «Bravo, Simone!». Pietro scoppia se non parla. «Bravo! Mi pare anche che ci si dimentichi un poco troppo che solo il Maestro ha diritto di insegnare…». Pietro dice quel «ci si dimentichi» con uno sforzo eroico per non dire: «che Giuda dimentica».
   «È vero… ma… sono nervoso, ecco. Scusa, Maestro».
   «Sì. E anche ti rispondo. La gratitudine è una grande virtù.
   Io sono grato a Lazzaro. Come quella redenta fu grata a Me. Io spargo su Lazzaro il profumo della mia benedizione, anche per quelli, fra i miei apostoli, che non lo sanno fare, Io, capo di voi tutti. La donna ha sparso ai miei piedi il profumo della sua gioia di salvata. Ha riconosciuto il Re, ed è venuta al Re, prima di molti altri sui quali il Re ha effuso molto più amore che non su di lei. Lasciatela fare senza criticarla. Non potrà essere presente alla mia acclamazione, né alla mia unzione. La sua croce è già sulla sua spalla. Pietro, tu hai detto se era venuto qui un satrapo assiro. In verità ti dico che neppure l’incenso dei Magi, tanto puro e prezioso, era più soave di questo, più prezioso di questo. L’essenza è stemperata nel pianto, e per questo è così acuta: l’umiltà sostiene l’amore e lo rende perfetto. Sediamo a mensa, amici…».
   E con l’offerta del cibo cessa la visione.

[68] mi hai detto, in 77.7.