MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 212



CCXII. Un'onda di amore per Gesù, che a Jutta parla dalla casetta di Isacco.

   8 luglio 1945.

   212.1 Tutta Jutta è corsa incontro a Gesù con i fiori selvaggi delle sue pendici e con le primizie delle sue colture, oltre che col sorriso dei suoi bambini e le benedizioni dei suoi cittadini. E prima ancora che Gesù possa mettere piede nel paese, è circondato da questi buoni che, avvisati da Giuda di Keriot e da Giovanni mandati avanti, sono corsi con quanto hanno trovato di meglio per fare onore al Salvatore, e soprattutto col loro amore.
   Gesù non fa che benedire col gesto e con la parola questa gente adulta o fanciulla, che gli si stringe addosso baciandogli la veste e le mani e che gli pone sulle braccia i poppanti perché Egli li benedica con un bacio. La prima a farlo è Sara, che gli mette sul cuore quello splendido puttino di dieci mesi che è ormai Jesai.
   L’amore ostacola l’andare tanto è irruente, eppure è come un’onda che solleva. Io credo che Gesù proceda più portato da quest’onda che dai propri piedi, e certo il suo Cuore è portato ben in alto, nel sereno, dalla gioia che gli dà questo amore. Ha il volto rifulgente dei momenti di più viva gioia d’Uomo-Dio. Non il potente volto dallo sguardo magnetico delle ore di miracolo, né il volto maestoso di quando manifesta la sua unione continua col Padre, e neppure quello severo di quando reprime una colpa. Tutti rifulgenti di diverse luci, ma questa d’ora è la luce delle ore di distensione di tutto il suo io, assalito da tante parti, costretto a sorvegliare sempre ogni minimo gesto o parola sua o di altri, avvolto in tutti i tranelli del mondo che, come una malefica ragnatela, gettano i loro fili satanici intorno alla divina Farfalla dell’Uomo-Dio, sperando paralizzarne il volo e imprigionarne lo spirito perché non salvi il mondo; imbavagliarne la parola perché non ammaestri le supreme e colpevoli ignoranze della Terra; legarne le mani perché non santifichino, le sue mani di Sacerdote eterno, gli uomini che demonio e carne hanno depravati; velarne gli occhi perché la perfezione del suo sguardo, che è calamita, che è perdono, che è amore, che è fascino che vince ogni resistenza che non sia una resistenza di perfetto satana, non attirino a Sé i cuori.

   212.2 Oh! non ancora e sempre così verso il Cristo per opera dei nemici del Cristo? Ancora Scienza ed Eresia, ancora Odio e Invidia, ancora i nemici dell’Umanità, sgorgati dalla stessa Umanità come rami attossicati da una pianta buona, non fanno tutto questo perché l’Umanità muoia, essi che la odiano più ancora di quanto odino il Cristo, perché la odiano attivamente privandola della sua gioia collo scristianizzarla, mentre a Gesù non possono levare nulla, essendo Egli Dio e loro polvere? Sì, lo fanno.
   Ma il Cristo si rifugia nei cuori fedeli e da lì guarda, da lì parla, da lì benedice l’Umanità e poi… e poi si dà a questi cuori ed essi… ed essi toccano il Cielo con la sua beatitudine, pur rimanendo qui, ma ardendo, fino ad averne delizioso tormento di tutto quanto è l’essere: nei sensi e negli organi, nei sentimenti e nel pensiero, e nello spirito infine… Lacrime e sorrisi, gemiti e canto, sfinimento e pure urgenza di vita sono i nostri compagni, più che compagni sono il nostro stesso essere, perché come le ossa sono nella carne e le vene e i nervi sotto l’epidermide e tutto forma un solo uomo, così ugualmente tutte queste cose accese, nate dall’essersi dato a noi Gesù, sono in noi, nella nostra povera umanità. E che siamo noi in quei momenti, che non potrebbero durare eterni perché, se durassero più di attimi, si morrebbe arsi e spezzati? Noi non siamo più uomini. Non siamo più gli animali dotati di ragione viventi sulla Terra. Siamo, siamo, oh! Signore! Lascia che io lo dica una volta, non per superbia, ma per cantare le tue glorie, perché il tuo sguardo mi brucia e mi fa delirare… Noi siamo allora serafini. E m’è stupore che da noi non escano fiamme e ardori sensibili alle persone e alle materie, così come è nelle apparizioni dei dannati. Perché, se è vero che il fuoco d’Inferno è tale che solo un riflesso emanato da un dannato può ardere il legno e far sgocciolare i metalli, che è mai il tuo fuoco, o Dio, che tutto hai di infinito e perfetto?
   Non si muore, no, di febbre, non si arde per essa, non ci si consuma di febbre da mali della carne. Tu sei la febbre di noi, Amore! E di questo si arde, si muore, ci si consuma, di questo e per questo si lacerano le fibre del cuore che non può resistere a tanto. Ma ho detto male, perché l’amore è delirio, l’amore è cascata che frange le dighe e scende atterrando tutto quanto non è lui, l’amore è affollarsi di sensazioni nella mente tutte vere, tutte presenti, ma non può la mano trascriverle tanto è veloce la mente nel tradurre in pensiero il sentimento che prova il cuore. Non è vero che si muore. Si vive. Di una vita decuplicata. Di una vita duplice, vivendo da uomini e da beati: la vita della Terra, quella del Cielo. Si raggiunge e si supera, oh! ne sono certa, la vita senza tare, senza menomazioni né limitazioni, che Tu, Padre, Figlio e Spirito Santo, Tu, Dio Creatore, uno e trino, avevi dato ad Adamo, preludio della Vita dopo la assunzione a Te, da godersi in Cielo dopo un placido passaggio dal Paradiso terrestre a quello celeste, e un valico fatto sulle amorose braccia degli angeli, così come fu il dolce sonno e il dolce assurgere di Maria al Cielo, per venire a Te, a Te, a Te! Si vive la vera Vita.
   E poi ci si ritrova qui e, come io faccio ora, ci si stupisce, ci si vergogna di esser andati tant’oltre e si dice: «Signore, io non sono degno di tanto. Perdona, Signore», e ci si batte il petto, perché abbiamo terrore di avere commesso superbia, e si cala un più fitto velo sullo splendore che, se non continua a fiammeggiare con una supercompleta ardenza, per pietà della nostra limitatezza, si raccoglie però al centro del cuore nostro, pronto a rifiammeggiare potente per un nuovo momento di beatitudine, voluta da Dio. Si cala il velo sul sacrario dove Dio arde dei suoi fuochi, delle sue luci, dei suoi amori… e sfiniti e pur rigenerati si riprende l’andare come… ebbri di un vino forte e soave, che non ottunde ragione ma che ci preserva da avere occhi e pensieri per ciò che non sia il Signore, Tu, mio Gesù, anello di congiunzione fra la nostra miseria e la Divinità, mezzo di redenzione per la nostra colpa, creatore di beatitudine per la nostra anima, Tu, Figlio, che con le mani ferite metti le nostre mani fra quelle spirituali del Padre e dello Spirito perché noi si sia in Voi, ora e sempre. Amen.

   212.3 Ma dove sono andata mentre Gesù mi arde ardendo i cittadini di Jutta col suo sguardo d’amore? Lei avrà notato che non parlo più, o ben di rado, di me. Quante cose potrei dire. Ma stanchezza e debolezza fisica, che mi opprimono subito dopo i dettati, e pudore spirituale, sempre più forte più io procedo, mi persuadono, mi obbligano a tacere. Ma oggi… sono andata troppo in su e, si sa, l’aria della stratosfera fa perdere il controllo… Io sono andata molto più su che nella stratosfera… e non ho più potuto controllarmi… E poi io credo che, se sempre tacessimo, noi presi da questi gorghi d’amore, si finirebbe a deflagrare come proiettili, o meglio come caldaie superriscaldate e chiuse. Mi perdoni, Padre. E ora andiamo avanti.

   212.4 Gesù entra a Jutta e viene condotto nella piazza del mercato e, da questa, alla povera casuccia dove Isacco languì per trent’anni. Gli spiegano: «Qui veniamo a parlare di Te e a pregare come in una sinagoga, la più vera. Perché qui ti abbiamo cominciato a conoscere, e qui le preghiere di un santo ti hanno chiamato a noi. Entra. Vedi come abbiamo disposto».
   La casetta, solo l’anno prima fatta di tre buchetti di stanze – la prima quella in cui Isacco infermo mendicava, la seconda un ripostiglio e la terza una cucinetta che dava sul cortile – sono divenute un unico ambiente e in esso sono panche per chi si raduna in esso. Nel cortile, in una baracchetta, sono state messe le poche masserizie di Isacco come tante reliquie; e il rispetto di quelli di Jutta ha reso meno desolato il cortile, mettendovi delle piante arrampicanti che ora, coi loro fiori, coprono la rustica staccionata e fanno un principio di pergolato, camminando su corde stese a rete sul cortile, all’altezza del tetto basso.
   Gesù li elogia e dice: «Qui possiamo sostare. Vi prego solo di ospitare le donne e il bambino».
   «Oh! Maestro nostro! Questo non sarà mai! Qui verremo con Te, e Tu ci parlerai, ma Tu e i tuoi siete ospiti nostri. Concedici la benedizione di ospitare Te e i servi di Dio. Solo ci spiace che essi non siano quante sono le case…».
   Gesù acconsente ed esce dalla casetta andando nella casa di Sara, che non cede a nessuno il suo diritto di ospitare per il pasto Gesù e i suoi…

   212.5 …Gesù, nella casa di Isacco, parla. La gente stipa la stanza e il cortile e si pigia anche sulla piazza, e Gesù, per essere udito da tutti, si mette a metà della stanza, così che la voce si spande tanto nel cortile come nella piazza. Deve trattare un argomento portato avanti da qualche interrogazione o avvenimento. Dice:
   «…Ma non abbiatene dubbio. Come dice[100] Geremia, essi riconosceranno alla prova come è doloroso e amaro avere abbandonato il Signore. Per certi delitti, amici, non c’è nitro né borit che valgano a levarne il segno. Neppure il fuoco dell’Inferno corrode questo segno. È indelebile.
   Anche qui bisogna riconoscere la giustizia delle parole di Geremia. Veramente i nostri grandi di Israele sembrano le asine selvagge di cui parla il Profeta. Avvezzi al deserto del loro cuore, perché, credetelo, finché uno è con Dio, anche se povero come Giobbe, anche se solo, anche se nudo, non è mai solo, non è mai povero, non è mai spoglio, non è mai un deserto; ma essi hanno levato Dio dal loro cuore e perciò sono in un arido deserto. Come selvagge asine fiutano nel vento l’odore dei maschi che qui, nel nostro caso, per la loro libidine, ha nome potere, denaro, oltre che lussuria vera e propria, e quell’odore seguono, fino al delitto. Sì. Lo seguono e più lo seguiranno. Non sanno di avere non il piede ma il cuore nudo agli strali di Dio, che vendicherà il loro delitto. Come allora resteranno confusi re e principi, sacerdoti e scribi, che in verità hanno detto e dicono a ciò che è nulla, o peggio, è peccato: “Tu mi sei padre. Tu mi hai generato”!
   In verità, in verità vi dico[101] che Mosè spezzò con ira le tavole della Legge vedendo il popolo in idolatria, e poi risalì sul mon te, pregò, adorò, ottenne. E ciò da secoli. Ma ancora non è cessata né cesserà, ma anzi cresce come lievito messo nella farina, l’idolatria nel cuore degli uomini. Ora quasi ognuno degli uomini ha il proprio vitello d’oro. La Terra è una selva di idoli, perché ogni cuore è un altare, e difficilmente vi è sopra Iddio.
   Chi non ha una passione maligna ne ha un’altra, chi non ha una concupiscenza ne ha una di altro nome. Chi non è tutto per l’oro è tutto per la posizione, chi non è tutto per la carne è tutto per l’egoismo. Quanti io ridotti a vitello d’oro non sono adorati nei cuori! Verrà perciò il giorno che, percossi, chiameranno il Signore e si sentiranno rispondere: “Volgiti ai tuoi dèi. Io non ti conosco”.
   Io non ti conosco! Tremenda parola se detta da Dio ad un uomo. Dio ha creato l’Uomo razza e conosce l’uomo singolo. Se dunque dice: “Io non ti conosco” è segno che ha cancellato con la forza del suo volere quell’uomo dal suo ricordo. Io non ti conosco! Troppo severo Iddio per questo verdetto? No. L’uomo ha urlato al Cielo: “Io non ti conosco” e il Cielo ha risposto all’uomo: “Io non ti conosco”. Fedele come un’eco…

   212.6 E, meditate, l’uomo è obbligato a conoscere Dio per dovere di riconoscenza e per rispetto verso la propria intelligenza.
   Per riconoscenza. Dio ha creato l’uomo dandogli il dono ineffabile della vita e provvedendolo del dono superineffabile della Grazia. Perduta questa per colpa propria, l’uomo si sente fare una grande promessa: “Io ti renderò la Grazia”. È Dio, l’offeso, che dice così all’offensore, quasi fosse Lui, Dio, il colpevole che è in obbligo di riparare. E Dio mantiene la promessa. Ecco, Io sono qui per rendere la Grazia all’uomo. Dio non si limita a dare il soprannaturale, ma piega la sua Essenza spirituale a provvedere alle pesanti necessità della carne e del sangue dell’uomo, e dà calore di sole, sollievo di acqua, grani, viti, alberi d’ogni specie e animali d’ogni specie. Così l’uomo ha da Dio tutti i mezzi per la vita. È il Benefattore. Bisogna essergli riconoscenti e mostrarlo con lo sforzarsi a conoscerlo.
   Per rispetto verso la propria ragione. Il mentecatto, l’ebete, non sono grati a chi li cura perché non comprendono le cure nel vero loro valore, e a chi li lava e imbocca, li conduce o li pone a letto, a chi veglia perché non vadano in pericoli, hanno odio perché, bestiali come sono per causa del loro malanno, confondono le cure con le torture. L’uomo che manca verso Dio è uno che disonora se stesso, essere dotato di ragione. Solo gli ebeti o i folli non riescono a distinguere il padre dall’estraneo, il benefattore dal nemico. Ma l’uomo intelligente conosce suo padre e il suo benefattore e si compiace di sempre più conoscerlo, anche nelle cose che egli ignora perché avvenute prima che egli fosse nato o fosse beneficato dal padre o dal benefattore. Così si deve fare anche con il Signore per mostrare che intelligenti si è, e non bruti.
   Ma troppi in Israele sono simili a questi folli che non riconoscono il padre e il benefattore. Geremia si chiede: “Può mai la vergine dimenticare i suoi ornamenti e una sposa la sua cintura?”. Oh! sì. Israele è fatto di queste vergini folli, di queste spose impudiche, che dimenticano gli ornamenti e la cintura onesti per mettersi orpelli da meretrice; e ciò si riscontra in misura sempre più numerosa quanto più si sale nelle classi che dovrebbero essere maestre al popolo. E il rimprovero di Dio va, col corruccio e col pianto di Dio, a loro: “Perché ti sforzi di mostrare buona la tua condotta per cercare amore, tu, che invece insegni le malizie e i tuoi modi di fare, ed hai fatto trovare nei lembi della tua veste il sangue dei poveri e degli innocenti?”.

   212.7 Amici, la distanza è un bene ed è un male. Essere molto lontano dai luoghi dove con facilità Io parlo è un male perché vi impedisce di udire le parole della Vita. Voi ve ne lamentate. È vero. Ma è un bene perché vi tiene lontani dai luoghi dove fermenta il peccato, bolle la corruzione e l’insidia sibila per operare su Me intralciandomi nella mia opera, e sui cuori insinuando dubbi e menzogne a mio riguardo. Ma Io vi preferisco lontani a corrotti. Provvederò al vostro formarsi. Voi vedete che Dio ha provveduto da prima che noi ci conoscessimo e perciò ci amassimo. Io ero noto prima che mai ci fossimo visti. Isacco è stato l’annunziatore vostro. Manderò molti Isacchi a parlarvi le mie parole. E sappiate, del resto, che Dio può parlare ovunque, da Solo a solo con lo spirito dell’uomo, e crescerlo nella sua dottrina.
   Non temete che l’esser soli vi possa portare in errori. No. Se non vorrete non sarete infedeli al Signore e al suo Cristo. Del resto, chi proprio non può stare lontano dal Messia sappia che il Messia gli apre il cuore e le braccia e gli dice: “Vieni”. Venite, voi che volete venire. Rimanete, voi che volete restare. Ma predicate il Cristo tanto gli uni come gli altri con una vita onesta. Predicatelo contro la disonestà che si annida in troppi cuori. Predicatelo contro la leggerezza degli infiniti che non sanno rimanere fedeli e che dimenticano i loro ornamenti e cinture di anime chiamate alle nozze col Cristo.
   Voi mi avete detto felici: “Da quando Tu sei venuto non ebbimo mai più malati né morti. La tua benedizione ci ha protetti”. Sì, grande cosa la salute. Ma fate che la mia venuta di ora vi faccia sani di spirito tutti, e sempre, e per tutto. Per questo vi benedico e vi do la mia pace, a voi, ai vostri bambini, ai campi, alle case, alle messi, alle greggi, ai frutteti. Servitevene con santità, non vivendo per essi, ma di essi, dando il superfluo a chi ne è privo, acquistando così la misura premuta delle benedizioni del Padre e un posto nei Cieli.
   Andate. Io resto a pregare…».

   
   9 luglio.

   212.8 Rileggo, per mettere a posto certe parole incomprensibili per pietà dei suoi occhi, Padre, quanto ho scritto ieri. Rileggerlo mi desola… è così inferiore a quello che provavo mentre descrivevo il mio stato d’animo! Eppure allora io, per aiutarmi nel dire ciò che il Signore mi faceva provare, e per la paura di dire male e per avere un sollievo – perché è anche una sofferenza, sa? – io chiamavo il mio S. Giovanni. Gli dicevo: «Tu le sai bene queste cose. Tu le hai provate. Aiutami». Né mi è mancata la sua presenza, il suo sorriso di eterno fanciullo buono e la sua carezza. Ma ora sento che la povera mia parola è così inferiore al sentimento che provavo… Tutto è paglia quanto è umano, l’oro è solo il soprannaturale. Ma l’umano non lo può neppure descrivere.

[100] dice, in: Geremia 2, che tratta dell’apostasia di Israele.
[101] vi dico, ricordando quanto si narra in: Esodo 32-34.