MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 216



CCXVI. Le infedeltà dei discepoli nella parabola del soffione.

   12 luglio 1945.

   216.1 Una pianura percossa dal sole che arroventa i grani maturi e ne estrae un odore che già ricorda il pane. L’odore del sole, dei bucati, delle messi, l’odore dell’estate.
   Perché ogni stagione, potrei dire ogni mese, e anche ogni ora del giorno, ha il suo odore, così come ogni località ha il suo, per uno dai sensi molto affinati e lo spirito di osservazione molto acuto. È ben diverso l’odore di un giorno invernale e con del vento tagliente, da quello pastoso di un giorno d’inverno che sia nebbioso, o dall’odore che sparge la neve. E quanto diversi da questi l’odore della primavera che viene e che si preannuncia così, in un profumo che non è profumo, ma che è ben diverso dall’odore dell’inverno. Ci si alza una mattina ed ecco che l’aria ha un odore diverso: il primo sospiro della primavera. E su, su, per l’odore dei frutteti in fiore, poi dei giardini, delle messi, fino a quello caldo delle vendemmie, e dentro, come un intermezzo, l’odore della terra dopo un temporale… E le ore? Sarebbe stolto dire che l’odore dell’aurora è come quello del meriggio, e questo come quello della sera o della notte. Il primo, fresco e verginale; l’altro, ridente e gaudente; l’altro ancora, stanco e pure saturo di tutto quanto esalò, nel giorno, i suoi odori; l’ultimo, quello notturno, pacato, raccolto, quasi la terra fosse un’enorme cuna raccogliente il riposo dei suoi piccini.
   E i luoghi? Oh! l’odore delle marine così diverso dalle albe alle sere, dai meriggi alle notti, dalle burrasche alle calme, dalle plaghe scogliose a quelle a spiaggia bassa! E l’odore delle alghe che si scoprono dopo le maree, e sembra che il mare abbia aperto le sue viscere per farci aspirare l’afrore del fondo. Così diverso questo odore da quello delle pianure interne, e questo dai luoghi di collina, e questo dagli alti monti.
   È tanta l’infinità del Creatore, che ha potuto imprimere un segno, o di luce, o di colore, o di profumo, o di suono, o di forma, o di altezza, su ognuna delle infinite cose che Egli ha creato. Bellezza infinita dell’Universo, che non ti vedo più che così, attraverso le visioni e il ricordo di ciò che vidi, amando Dio e pregandolo attraverso le sue opere e per la gioia che il vederle mi davano, quanto sei vasta, potente, inesauribile e scevra di stanchezze! Non ne hai e non ne dai. Ma anzi l’uomo si rinnova nel guardarti, Universo del mio Signore, si fa più buono, più puro, si eleva, dimentica… Oh! poterti sempre guardare, e dimenticare gli uomini nella loro parte inferiore, e amarli nella e per la loro anima e per condurli a Dio!
   Ed ecco che seguendo Gesù, che va con gli apostoli per questa pianura piena di messi, io divago di nuovo lasciandomi prendere dalla gioia di parlare del mio Dio nelle sue splendide opere. È amore anche questo, perché la creatura loda nella creatura ciò che in essa ama o loda, semplicemente, la creatura che ama. E così è anche fra creatura e Creatore. Chi lo ama lo loda, e tanto più lo ama tanto più lo loda per Se stesso e per le sue opere. Ma ora impongo silenzio al cuore e vado dietro a Gesù, non come adoratrice ma come fedele cronista.

   216.2 Gesù va dunque per le messi. La giornata è calda. La zona deserta. Non si vede un uomo per i campi. Solo spighe mature e alberi qua e là. Sole, grani, uccelli, lucertole, ciuffi verdi e fermi nell’aria tranquilla: ecco ciò che è intorno a Gesù. Ai due estremi della via maestra che percorre Gesù, nastro polveroso e abbacinante fra il mareggiare dei grani, è da una parte un paesello, dall’altra una fattoria. Niente altro.
   Tutti procedono in silenzio, accaldati. Si sono levati i mantelli, ma certo soffrono ugualmente sotto le vesti di lana, anche se leggere. Solo Gesù, i due cugini e Giuda Iscariota, sono vestiti di lino o di canapa. Certo la veste di Gesù e dell’Iscariota sono di lino bianco; le altre dei figli di Alfeo, per la loro compattezza, mi sembrano più pesanti del lino e sono anche tinte in un colore avorio carico, proprio come lo ha la canapa non imbiancata. Gli altri sono come al solito e vanno asciugandosi il sudore col lino che fa da velo al capo.
   Raggiungono un gruppetto di alberi ad un crocevia. Si fermano a quell’ombra salutare e bevono avidi dalle loro fiaschette.
   «È calda come fosse levata dal fuoco», brontola Pietro.
   «Ci fosse almeno un ruscello! Ma niente, niente!», sospira Bartolomeo. «Fra poco non ne ho più».
   «Quasi dico che è meglio la montagna», geme Giacomo di Zebedeo congestionato dal calore.
   «Meglio di tutto è la barca. Fresca, riposante, pulita, ah!». Il cuore di Pietro va verso il suo lago e la sua barca.
   «Avete ragione tutti. Ma i peccatori sono in montagna come al piano. Se non ci avessero cacciato dall’Acqua Speciosa e perseguitato alle calcagna, sarei venuto qui fra tebet e scebat. Ma presto saremo lungo la marina. L’aria è là temperata dal vento del largo», conforta Gesù.
   «Eh! ci vuole. Qui si sembra lucci morenti. Ma come fanno ad essere così belli i grani se non c’è acqua?», chiede Pietro.
   «Ci sono acque sotterranee. Mantengono umido il terreno», spiega Gesù.
   «Era meglio se erano di sopra, anziché disotto. Che me ne faccio se sono disotto? Non sono una radice io!», dice d’impeto Pietro mentre tutti ridono.
   Ma poi Giuda Taddeo si fa serio e dice: «È egoista il suolo come lo sono gli animi, ed è arido ugualmente. Se ci lasciavano sostare a quel paese e passare il sabato così, si sarebbe avuto ombra, acqua, riposo. Ma ci hanno cacciati…».
   «Anche cibo si avrebbe avuto. Ma neanche quello. Io ho fame. Ci fossero delle frutta! Ma le piante da frutta sono vicine alle case. E chi ci va? Se sono tutti dell’umore di quelli là…», dice Tommaso accennando al paese lasciato alle spalle, a oriente.
   «Prendi il mio cibo. Io non ho mai molta fame», dice lo Zelote.
   «Prendete anche il mio», dice Gesù. «Chi si sente più affamato mangi».
   Ma messe insieme le cibarie di Gesù, dello Zelote e di Natanaele, appaiono molto pochine, e l’occhio sgomento di Tommaso e dei giovani lo dice. Ma tacciono sbocconcellando le microscopiche parti.
   Lo Zelote, paziente, va verso un punto dove un filare verde sul terreno arso fa supporre esistere dell’umidore. Vi è infatti un filo d’acqua in fondo ad un greto, proprio un filo destinato a scomparire fra breve. Dà un grido ai lontani perché vengano a quel ristoro, e tutti vanno, di corsa, seguendo l’ombra saltuaria di un filare di piante poste sull’argine del torrentello semiasciutto, e là possono rinfrescarsi i piedi polverosi, lavarsi il viso sudato, e prima ancora empire le ormai vuote fiaschette e poi lasciarle nell’acqua, là dove è ombra, per averle più fresche.
   Si siedono ai piedi di un albero e sonnecchiano stanchi.

   216.3 Gesù li guarda con amore e compassione e crolla il capo.
   Lo vede in quell’atto lo Zelote, che è andato ancora a bere, e gli chiede: «Che hai, Maestro?».
   Gesù si alza, va dallo Zelote e circondandolo con un braccio lo porta seco verso un altro albero dicendo: «Che ho? Mi affliggo per la vostra stanchezza. Se non sapessi ciò che Io sto facendo di voi, non mi darei pace di darvi tanti disagi».
   «Disagi? No, Maestro! È la nostra gioia. Tutto si annulla nel venire con Te. Siamo tutti felici, credilo. Non c’è rimpianto, non c’è…».
   «Taci, Simone. L’umanità grida anche nei buoni. E non avete torto, umanamente parlando, di gridare. Vi ho levato alle vostre case, alle famiglie, agli interessi, e voi siete venuti pensando che ben altro fosse il seguirmi… Ma il vostro gridare di ora, il vostro interno gridare, si placherà un giorno, e allora capirete che sarà stato bello venire per nebbie e fango, per polvere e solleone, perseguitati, assetati, stanchi, senza cibo, dietro al Maestro perseguitato, disamato, calunniato… e più, più ancora. Tutto vi parrà bello allora. Perché allora avrete un altro pensiero, e tutto vedrete in un’altra luce. E mi benedirete di avervi condotto per la mia via difficile…».
   «Sei triste, Maestro. E il mondo giustifica la tua tristezza. Ma noi no. Noi siamo tutti contenti…».
   «Tutti? Ne sei sicuro?».
   «Pensi diverso Tu?».
   «Sì, Simone. Diverso. Tu sei sempre contento. Tu hai capito.
   Molti altri no. Vedi quelli che dormono? Sai quanti pensieri rimuginano anche nel sonno? E tutti quelli che sono fra i discepoli? Credi tu che saranno fedeli finché tutto sarà compiuto? Guarda, facciamo questo vecchio giuoco che certo hai fatto tu pure da bambino (e Gesù coglie un tondo soffione che si erge fra i sassi e che ha raggiunto la perfetta maturazione. Lo porta delicatamente alla bocca, soffia e il soffione si dissolve in minuscoli ombrellini che se ne vanno per l’aria, vagando col loro fiocchetto in alto retto sul manico minuscolo). Vedi? Guarda… Quanti me ne sono ricaduti in grembo come innamorati di Me? Contali… Sono ventitré. Erano almeno tre volte tanti. E gli altri? Guarda. Chi vaga ancora, chi è già caduto come per pesantezza, chi orgoglioso sale, superbo del suo pennacchio d’argento, chi cade nella fanghiglia che abbiamo fatto con le nostre fiaschette. Solo… Guarda, guarda!… Anche dei ventitré che mi erano sulle ginocchia, sette se ne sono andati. È bastato quel calabrone col suo volo per farli volare via!… Di che temevano? O di che sono stati sedotti? Forse del pungiglione o forse dei bei colori neri e gialli, dell’aspetto leggiadro, delle ali iridescenti… Se ne sono andati… Dietro ad una menzognera bellezza… Simone, così sarà dei miei discepoli. Chi per irrequietezza, chi per incostanza, chi per pesantezza, chi per orgoglio, chi per leggerezza, chi per appetito di fango, chi per paura e chi per ingenuità, se ne andranno. Credi tu che tutti quelli che ora mi dicono: “Vengo con Te” Io li troverò, nell’ora decisiva della mia missione, al mio fianco? Erano più di settanta certo i pennacchietti del soffione che il Padre mio creò… e ora sul mio grembo ce ne sono solo sette, perché altri se ne sono andati per questa onda di vento che ha fatto dire di sì agli steli più sottili. Così sarà. E penso a che lotte sono in voi per essermi fedeli…

   216.4 Vieni, Simone. Andiamo a guardare quelle libellule che danzano sull’acqua. A meno che tu preferisca riposare».
   «No, Maestro. Le tue parole mi hanno contristato. Ma io spero che il lebbroso guarito, l’uomo perseguitato al quale Tu hai dato riabilitazione, il solitario al quale Tu hai donato compagnia, il nostalgico di affetti al quale Tu hai aperto il Cielo e il mondo perché trovasse e desse amore, non ti abbandonerà… Maestro… che pensi di Giuda? Lo scorso anno Tu hai pianto con me per lui. Poi… non so… Maestro, lascia stare quelle due libellule, guarda me, ascolta me. Non direi questo a nessuno. Non ai compagni. Non agli amici. Ma a Te sì. Io non riesco ad amarlo Giuda. Me ne confesso. È lui che respinge il mio desiderio di amarlo. Non che mi usi spregio, no, ché anzi è fin cortigianesco col vecchio Zelote che egli indovina più esperto degli altri nel conoscere gli uomini. Ma è il suo modo di fare. Ti pare sincero? Dimmelo».
   Gesù tace per qualche momento, come affascinato dalle due libellule che, posate a pelo d’acqua, fanno un piccolo arcobaleno con le elitre iridescenti, un prezioso arcobaleno che serve ad attirare un curioso moscerino il quale è distrutto da una delle voraci bestiole, la quale a sua volta viene presa a volo da un appiattato rospo, o ranocchio che sia, che se la pappa a volo insieme al moscerino abbattuto.
   Gesù si muove, rialzandosi, perché si era quasi sdraiato per vedere i piccoli drammi della natura, e dice: «Così è. La libellula ha le sue robuste mascelle per nutrirsi delle erbe e le sue robuste ali per abbattere i moscerini, e il ranocchio ha l’ampia gola per inghiottire le libellule. Ognuno ha il suo, e il suo usa. Andiamo, Simone. Gli altri si svegliano».
   «Non mi hai risposto, Signore. Non l’hai voluto fare».
   «Ma ti ho risposto! Mio vecchio sapiente, medita e troverai[105]…». E Gesù risale il greto e va dai discepoli che si svegliano e lo cercano.

[105] medita e troverai. La chiave interpretativa può essere cercata collegando il precedente “Ognuno ha il suo, e il suo usa” con il passo di Matteo 12, 33-35 e con il testo di 219.4 e 222.5.