MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 218



CCXVIII. Vari incontri in Ascalona, città filistea.

   14 luglio 1945.

   218.1 L’alba risveglia col suo alito fresco i dormenti. Si alzano dal letto di sabbie su cui hanno dormito a ridosso di una duna sparsa di poche erbe disseccate e si arrampicano in cima alla stessa. Una profonda costa sabbiosa è loro davanti, mentre poco più là e poco più qua sono terreni coltivati e belli. Un torrente privo d’acqua segna dei suoi sassi bianchi il biondo della arena, andando con questo biancore di ossa disseccate fino al mare che luccica lontano, coi sui flutti gonfi per la marea del mattino, fatti più gonfi da un poco di maestrale che pettina l’oceano. Camminano sull’orlo della duna fino al torrente disseccato, lo passano, riprendono l’andare, diagonalmente, sulle dune che franano sotto i passi e che così tutte ondulate sembrano continuare l’oceano con materie solide e asciutte anziché con le mobili acque.
   Giungono al lido umido e vanno più spediti, e mentre Gio vanni si ipnotizza a guardare il mare sconfinato che si accende dei primi sfaccettii di sole, e pare che beva quella bellezza e si inazzurri ancor di più nell’occhio, Pietro, più pratico, si scalza, si solleva la veste e sguazza nelle ondette della riva cercando di trovare qualche granchiolino o qualche nicchio da succhiare.
   Una bella città marittima è a due buoni chilometri di distanza, stesa lungo la riva sulla scogliera semilunata, oltre la quale il vento e le burrasche hanno trasportato le arene. E la scogliera, ora che l’acqua dopo la marea si ritira, si scopre anche qui, obbligando a tornare sulle sabbie asciutte per non torturare sugli scogli i piedi nudi.
   «Da dove entriamo, Signore? Di qui si vede solo una muraglia ben compatta. Dal mare non si può entrare. La città è nel punto più fondo dell’arco», dice Filippo.
   «Venite. So da dove si entra».
   «Ci sei già stato?».
   «Una volta da piccino, e non me ne ricorderei. Ma so da dove si passa».
   «Strano! L’ho notato tante volte… Tu non sbagli mai la strada. Qualche volta te la facciamo sbagliare noi. Ma Tu! Sembra che Tu sia sempre stato nel luogo dove ti muovi», osserva Giacomo di Zebedeo.
   Gesù sorride ma non risponde.

   218.2 Va sicuro sino ad un piccolo sobborgo rurale dove gli ortolani coltivano verdure per la città. I campicelli e gli orti sono regolari e ben curati, e donne ed uomini li coltivano e stanno versando acqua nei solchi, estraendola dai pozzi a fatica di braccia, oppure col vecchio e cigolante sistema delle secchie sollevate da un povero asinello che bendato gira intorno al pozzo. Ma non dicono nulla. Gesù saluta: «Pace a voi». Ma la gente rimane, se non ostile, indifferente.
   «Signore, qui si corre pericolo di morire di fame. Non capiscono il tuo saluto. Ora provo io», dice Tommaso. E abborda il primo ortolano che vede dicendo: «Costa cara la tua verdura?».
   «Non più di quella delle altre ortaglie. Cara o non cara, a seconda di come è grassa la borsa».
   «Ben detto. Ma come vedi io non muoio di inedia. Sono grasso e colorito anche senza le tue verdure. Segno che la mia borsa è una buona mammella. Breve: siamo in tredici e possiamo comperare. Cosa ci vendi?».
   «Uova, verdure, mandorle primaticce e mele che sono vizze per vecchiaia, ulive… Ciò che vuoi».
   «Dàmmi delle uova, delle mele e pane, per tutti».
   «Pane non ne ho. In città ne trovi».
   «Ho fame ora, non fame fra un’ora. Non lo credo che non hai pane».
   «Non ne ho. La donna lo sta facendo. Ma vedi là quel vecchio? Lui ne ha molto sempre, perché essendo più sulla strada ne è spesso richiesto dai pellegrini. Vai da Anania e chiedine. Ora ti porto le uova. Ma guarda che costano un denaro la coppia».
   «Ladro! Le tue galline sgravano forse uova d’oro?».
   «No. Ma non è bello essere in mezzo al fetore del pollame, e per nulla non ci si sta. E poi, non siete giudei? Pagate».
   «Tientele. Sei bell’e pagato», e Tommaso gli volta le spalle.
   «Ehi! uomo! Vieni. Te le do per meno. Tre al denaro».
   «Neanche quattro. Bevile e ti si annodino nella gola».
   «Vieni. Senti. Che mi vuoi dare?». L’ortolano insegue Tommaso.
   «Nulla. Non le voglio più. Volevo fare uno spuntino prima di andare in città. Ma è meglio così. Non perderò voce e appetito per cantare le storie del re e per fare un buon pasto all’albergo».
   «Te le do per un didramma la coppia».
   «Auf! Sei peggio di un tafano. Dàmmi le tue uova. E fresche. Se no torno indietro e ti faccio il muso più giallo di quanto non l’hai», e Tommaso va e torna con almeno due dozzine d’uova nel lembo del mantello. «Visto? Le spese le faccio io d’ora in poi, in questo paese di ladri. So come trattarli. Vengono pieni di denaro a comperare da noi, per le loro donne, e i bracciali non sono mai grossi abbastanza, e tirano sul prezzo a intere giornate. Mi vendico.

   218.3 Ora andiamo da quell’altro scorpione. Vieni, Pietro. E tu, Giovanni, tieni le uova».
   Vanno dal vecchio, che ha l’orto lungo la via maestra che dal nord, costeggiando le case del sobborgo, conduce alla città. Una bella via ben selciata, certo opera romana. La porta della città nel lato orientale è ormai vicina, e oltre di essa si vede che la via prosegue diritta e veramente artistica, mutata in un duplice porticato ombroso, retto da colonne marmoree, all’ombra fresca del quale la gente cammina lasciando il centro della via agli asini, cammelli, carri e cavalli.
   «Salute! Ci vendi del pane?», chiede Tommaso.
   Il vecchio o non sente o non vuol sentire. Veramente il cigolio del bindolo è tale che può creare confusione.
   Pietro perde la pazienza e urla: «Ferma il tuo Sansone! Almeno prenderà fiato per non morire sotto i miei occhi. E ascoltaci!».
   L’uomo ferma il ciuco e guarda storto il suo interlocutore, ma Pietro lo disarma dicendo: «Eh! non è giusto mettere il nome di Sansone ad un ciuco? Se sei filisteo ti deve piacere perché è offesa a Sansone[109]. Se sei d’Israele ti deve piacere perché ricorda una sconfitta filistea. Vedi perciò…».
   «Sono filisteo e me ne vanto».
   «Fai bene. Ti vanterò anche io se ci dai del pane».
   «Ma non sei giudeo?».
   «Sono cristiano».
   «Che luogo è?».
   «Non un luogo. È una persona. E io sono di quella persona».
   «Sei schiavo suo?».
   «Sono libero più di ogni altro uomo, perché chi è di quella persona non dipende più che da Dio».
   «Dici il vero? Neanche da Cesare?».
   «Puah! Cosa è Cesare rispetto a Colui che io seguo e al quale appartengo, e nel nome del quale ti chiedo un pane?».
   «Ma dove è questo potente?».
   «Quell’uomo là, che guarda qui e sorride. È il Cristo, il Messia. Non ne hai mai sentito parlare?».
   «Sì. Il re d’Israele. Vincerà Roma?».
   «Roma? Ma tutto il mondo e anche l’Inferno».
   «E voi ne siete i generali? Così vestiti? Forse per sfuggire alle persecuzioni dei perfidi giudei».
   «Sì e no. Ma dàmmi del pane e mentre mangiamo ti spiegherò».
   «Pane? Ma anche acqua, anche vino e sedili, all’ombra, per te e il compagno e per il tuo Messia. Chiamalo».
   E Pietro sgambetta lesto verso Gesù: «Vieni, vieni. Ci dà quello che vogliamo, quel vecchio filisteo. Credo però che ti assalirà di domande… Gli ho detto chi sei,… su per giù gliel’ho detto. Ma è ben disposto».

   218.4 Vanno tutti nell’ortaglia, dove l’uomo ha già sistemato panche intorno ad un tavolo grezzo messo sotto una folta pergola di vite.
   «La pace a te, Anania. Ti fiorisca la terra per la tua carità e ti dia pingue frutto».
   «Grazie. A te pace. Siedi, sedete. Anibé! Nubi! Pane, vino, acqua. Subito», ordina il vecchio a due donne africane certo, perché una è assolutamente nera dalle grosse labbra e capelli crespi, l’altra è molto scura benché di tipo più europeo. E il vecchio spiega: «Le figlie delle schiave di mia moglie. Lei è morta e morte quelle che erano venute con lei. Ma le figlie sono rimaste. Alto e basso Nilo. Mia moglie era di là. Proibito, eh? Ma io non me ne curo. Non sono d’Israele, e le donne di razza inferiore sono mansuete».
   «Non sei d’Israele?».
   «Lo sono per forza, perché Israele ci è sul collo come un giogo. Ma… Tu sei israelita e ti offendi di questo che dico?…».
   «No. Non mi offendo. Vorrei solo che tu ascoltassi la voce di Dio».
   «Non parla a noi».
   «Tu lo dici. Io ti parlo, ed è la sua voce».
   «Ma Tu sei il Re di Israele».
   Le donne, che stanno arrivando con pane, acqua, vino e che sentono parlare di «re», si fermano interdette guardando il giovane biondo, sorridente, dignitoso, che il padrone chiama «re», e poi fanno per ritirarsi, quasi strisciando per il rispetto.
   «Grazie, donne. E pace anche a voi». Poi, rivolto al vecchio:
   «Sono giovani… Puoi pure continuare il tuo lavoro».
   «No. La terra è bagnata e può aspettare. Parla un poco.
   Anibé, stacca l’asino e ricoveralo. E tu, Nubi, rovescia le ultime secchie, e poi… Ti fermi, Signore?».
   «Non ti disturbare oltre. Mi basta prendere un poco di cibo e poi entro in Ascalona».
   «Non mi disturbo. Va’ pure in città. Ma a sera vieni. Spezzeremo il pane e divideremo il sale. Presto, voi! Tu al pane, tu chiama Geteo che uccida un capretto e preparalo per la sera. Andate». E le due donne se ne vanno senza parlare.

   218.5 «Sicché Tu sei re? Ma le armi? Erode è crudele, in ogni suo ramo. Ci ha ricostruito Ascalona. Ma per gloria sua. E ora!… Ma Tu le vergogne di Israele le sai più di me. Come farai?».
   «Non ho che l’arma che viene da Dio».
   «La spada di Davide?».
   «La spada della mia parola».
   «Oh! povero illuso! Si spunterà e perderà il filo sul bronzo dei cuori».
   «Lo credi? Io non miro ad un regno del mondo. Per voi tutti Io miro al Regno dei Cieli».
   «Noi tutti? Anche io, filisteo? Anche le mie schiave?».
   «Tutti. Tu e loro. E fino per il più selvaggio che è al centro delle foreste africane».
   «Vuoi fare un regno così grande? Perché lo chiami dei Cieli?
   Potresti chiamarlo: regno della Terra».
   «No. Non errare nel comprendere. Il mio è il Regno del vero Dio. Dio è in Cielo. Perciò è Regno del Cielo. Ogni uomo è un’anima vestita di corpo, e l’anima non può vivere che nei Cieli. Io vi voglio curare l’anima, levarne gli errori e gli asti, condurla a Dio attraverso la bontà e l’amore».
   «Questo mi piace molto. Gli altri, io a Gerusalemme non vado, ma so che gli altri d’Israele da secoli non parlano così. Sicché Tu non ci odi?».
   «Non odio nessuno».
   Il vecchio pensa… poi chiede: «E le due schiave hanno anche loro anima come voi d’Israele?».
   «Certamente. Non sono belve catturate. Sono creature infelici. Vanno amate. Le ami tu?».
   «Non le tratto male. Voglio ubbidienza, ma non uso la frusta e le nutro bene. Bestia mal nutrita non lavora, si dice. Ma anche l’uomo malnutrito non è un buon affare. E poi sono nate in casa. Le ho viste piccole. Ora restano loro sole, perché io sono molto vecchio, sai? Quasi ottanta. Loro e Geteo sono il resto della mia casa di un tempo. Mi sono affezionato come a mobili miei. Mi chiuderanno gli occhi…».
   «E poi?».
   «E poi… Mah! Non lo so. Andranno a servire, e la casa si disferà. Mi spiace. L’ho fatta ricca col mio lavoro. Questa terra tornerà sabbiosa, sterile… Questa vigna… L’abbiamo piantata io e la moglie. E quel roseto… Egiziano, Signore. L’odore della mia sposa sento in lui… Mi pare un figlio… il figlio unico che è sepolto, farina ormai, ai suoi piedi… Dolori… Meglio morire giovani e non vedere questo e la morte che viene avanti…».
   «Il tuo figlio non è morto e non la moglie. Sopravvive il loro spirito. Morta è la carne. La morte non deve spaurire. È vita la morte a chi spera in Dio e vive da giusto. Pensaci… Io vado in città. Tornerò questa sera e ti chiederò quel portico per dormire coi miei».
   «No, Signore. Ho molte camere vuote. Te le offro». Giuda mette sul tavolo delle monete.
   «No. Non le voglio. Sono di questa terra a voi invisa. Ma forse sono meglio di quelli che ci dominano. Addio, Signore».
   «Pace a te, Anania».
   Le due schiave insieme a Geteo, un nerboruto e anziano contadino, sono accorse a vederlo partire. «Pace anche a voi. Siate buoni. Addio», e Gesù sfiora i capelli crespi di Nubi e quelli lucidi e tesi di Anibé, sorride all’uomo e se ne va.

   218.6 Dopo poco entrano in Ascalona, per la via dal duplice portico che va diritta al centro della città, che è una scimmiottatura di Roma, con vasche e fontane, con piazze uso Foro, con torri lungo la cinta delle mura e dappertutto il nome di Erode, messo dallo stesso per applaudirsi, posto che gli ascaloniti non lo applaudono. Vi è molto movimento, e cresce più l’ora passa e si avvicina la parte più centrale della città, aperta, ariosa, dagli sfondi luminosi sul mare, che pare chiuso come una turchese in una tenaglia di corallo rosa per le case sparse sull’arco profondo che qui fa la costa, non un golfo, un vero arco, una porzione di circolo che il sole fa tutta di un roseo pallidissimo.
   «Dividiamoci in quattro gruppi. Io vado, anzi vi lascio andare. Poi sceglierò Io. Andate. Dopo l’ora di nona ritrovo alla Porta da cui siamo entrati. Siate prudenti e pazienti».
   E Gesù li guarda andare rimanendo solo con Giuda Iscariota, che ha dichiarato che a questi egli non dirà nulla perché sono peggio dei pagani. Ma quando sente che Gesù vuole andare qua e là senza parlare, allora cambia pensiero e dice: «Ti spiace rimanere solo? Io andrei con Matteo, Giacomo e Andrea; sono i meno capaci…».
   «Va’ pure. Addio».
   E Gesù si aggira solo per la città girandola in lungo e in largo, anonimo fra la gente affaccendata che neppure lo osserva. Solo due o tre bambini alzano il capo curiosi, e una donna procacemente vestita che gli viene risolutamente incontro con un sorriso pieno di sottintesi. Ma Gesù la guarda così severamente che lei diventa di porpora e china gli occhi andandosene. All’angolo si volge ancora, e poiché un popolano che ha osservato la scena le lancia un frizzo mordace e di scherno per la sua sconfitta, ella si avvolge nel suo mantello e fugge.
   I bambini invece girano intorno a Gesù, lo guardano, sorridono al suo sorriso. Uno più audace chiede: «Chi sei?».
   «Gesù», risponde Egli accarezzandolo.
   «Che fai?».
   «Aspetto degli amici».
   «Di Ascalona?».
   «No, del mio paese e della Giudea».
   «Sei ricco? Io sì. Mio padre ha una bella casa e dentro lavora i tappeti. Vieni a vedere. È qui vicino».
   E Gesù va solo col bambino, entrando sotto un lungo androne che fa come una strada coperta. In fondo, fatto più vivo dalla penombra dell’androne, splende uno scorcio di mare tutto acceso di sole.

   218.7 Incontrano una bambina sparuta che piange. «È Dina. È povera, sai? Mia madre le dà del cibo. Sua madre non può più guadagnare. Il padre è già morto, in mare. Una tempesta mentre da Gaza andava al porto del Grande Fiume a portare merci e a prenderne. E siccome le merci erano di mio padre, e il padre di Dina era un marinaio nostro, mia mamma ora pensa a loro. Ma sono in tanti rimasti senza padre così… Che dici Tu? Deve essere brutto essere orfani e poveri. Ecco la casa mia. Non lo dire che ero per la strada. Dovevo essere a scuola. Ma sono stato mandato via perché facevo ridere i compagni con questo…», e tira fuori dal vestito un pupazzo intagliato nel legno, in una sottile assicella di legno, molto comico per davvero, munito di una bazza e di un naso molto caricaturali.
   Gesù ha un sorriso che gli tremola sotto le labbra, ma si frena e dice: «Non sarà il maestro, vero? E nessun parente. Non sta bene».
   «No. È il sinagogo dei giudei. È vecchio e brutto, e noi gli diamo sempre la baia».
   «Non sta bene neppure questo. Certo è molto più vecchio di te e…».
   «Oh! è un vecchione, mezzo gobbo e quasi cieco, ma è così brutto!… Non ci ho colpa io se lui è brutto!».
   «No. Ma hai colpa a scherzare un vecchio. Anche tu da vecchio sarai brutto perché ti curverai, sarai con pochi capelli, mezzo cieco, camminerai coi bastoni, avrai quel viso così. E allora? Avrai piacere di essere scherzato, allora, da un bambino senza rispetto? E poi perché fare inquietare il maestro, disturbare i compagni? Non sta bene. Tuo padre se lo sapesse ti punirebbe, tua madre ne avrebbe dolore. Io non dirò loro nulla. Ma tu mi dai subito due cose: la promessa di non fare più queste mancanze, e mi dai questo fantoccio. Chi lo ha fatto?».
   «Io, Signore…», dice mortificato il bambino, conscio ormai della gravità dei suoi… misfatti… E aggiunge: «Mi piace tanto lavorare il legno! Delle volte rifaccio i fiori dei tappeti o le bestie che ci sono. Sai?… I draghi, le sfingi e altre bestie ancora…».
   «Quelle le puoi fare. C’è tanto bello sulla Terra! Dunque prometti e mi dai questo fantoccio? Se no non siamo più amici. Io lo terrò per tuo ricordo e pregherò per te. Come ti chiami?».
   «Alessandro. E Tu che mi dai?».
   Gesù è imbarazzato. Ha sempre così poco! Ma poi si ricorda di avere una fibbia molto bella al collo di una veste, cerca nel sacco, la trova, la stacca e la dà al bambino. «E ora andiamo.
   Ma guarda che, se anche Io vado via, Io so tutto lo stesso. E se ti so cattivo torno qui e dico tutto alla mamma». Il patto è fatto.

   218.8 Entrano in casa. Dopo il vestibolo è un ampio cortile ed esso è circondato da tre lati da cameroni dove sono i telai.
   La servente che ha aperto, stupita vedendo il bambino con uno sconosciuto, avvisa la padrona e questa, una donna alta e di aspetto dolce, accorre chiedendo: «Ma il figlio si è forse sentito male?».
   «No, donna. Ma mi ha guidato a vedere i tuoi telai. Sono forestiero».
   «Vuoi fare acquisti?».«No. Io non ho denaro. Ma ho amici che amano le cose belle e che hanno denaro».
   La donna guarda curiosamente quest’uomo, che confessa così senza perifrasi di essere povero, e dice: «Ti credevo un signore. Hai modi e aspetto da gran signore».
   «Invece sono semplicemente un rabbi galileo, Gesù, il Nazareno».
   «Noi abbiamo commerci e non abbiamo prevenzioni. Vieni e guarda». E lo porta a guardare i suoi telai dove fanciulle lavorano sotto la direzione della padrona.
   I tappeti sono veramente pregevoli di disegno e di tinte; alti, soffici, sembrano aiuole tutte in fiore, o un caleidoscopio di gemme. Altri hanno mescolato ai fiori delle figure allegoriche come ippogrifi, sirene, draghi, oppure grifoni araldici simili ai nostri.
   Gesù ammira: «Sei molto brava. Sono contento di avere visto tutto questo. E sono contento che tu sia buona».
   «Come lo sai?».
   «Si vede al viso, e il bambino mi ha detto di Dina. Dio te ne compensi. Anche che tu non lo creda, tu sei molto vicina alla Verità, avendo carità in te».
   «Quale verità?».
   «Al Signore altissimo. Chi ama il prossimo, e nella famiglia e nei dipendenti esercita la carità e la estende sui miseri, ha già in sé la Religione.

   218.9 Quella è Dina, non è vero?».
   «Sì. Ha la madre morente. Dopo la prenderò io, ma non per i telai. Troppo piccola e troppo gracile. Vieni, Dina, da questo signore».
   La bambina, dal visetto triste dei bambini infelici, si accosta timidamente.
   Gesù la carezza e dice: «Mi conduci da tua madre? Vorresti che guarisse, vero? Allora portami da lei. Addio, donna. E addio, Alessandro. E sii buono».
   Esce con la bambina per mano. «Sei sola?», chiede.
   «Ho tre fratellini. L’ultimo non ha conosciuto il padre».
   «Non piangere. Sei capace di credere che Dio può guarire tua madre? Lo sai, non è vero, che c’è un solo Dio, il quale ama gli uomini che Egli ha creati e specie i bambini buoni? E che può tutto?».
   «Lo so, Signore. Prima andava a scuola mio fratello Tolmé, e a scuola si è mescolati coi giudei. Si sa per questo tante cose. So che c’è e che si chiama Jeové e che ci ha puniti perché i filistei furono cattivi con Lui. Ce lo rimproverano sempre i bambini ebrei. Ma io non c’ero allora, e non la mamma e non il padre. Perché allora…», il pianto fa argine alla parola.
   «Non piangere. Dio ama anche te e mi ha portato qui, per te e per tua mamma. Sai che gli israeliti attendono il Messia che deve venire per fondare il Regno dei Cieli? Il Regno di Gesù Redentore e Salvatore del mondo?».
   «Lo so, Signore. E ci minacciano dicendo: “Allora guai a voi sarà”».
   «E sai che farà il Messia?».
   «Farà grande Israele e ci tratterà molto male».
   «No. Farà redento il mondo, leverà il peccato, insegnerà a non peccare, amerà i poveri, i malati, gli afflitti, andrà da essi, insegnerà ai ricchi, ai sani, ai felici ad amarli, raccomanderà di essere buoni per avere la Vita eterna e beata nel Cielo. Questo farà. E non opprimerà nessuno».
   «E come si capirà che è Lui?».
   «Perché amerà tutti e guarirà i malati che credono in Lui, redimerà i peccatori e insegnerà l’amore».
   «Oh! se ci fosse prima che la mamma muoia! Come crederei io! Come lo pregherei! Andrei a cercarlo finché lo avessi trovato e gli direi: “Sono una povera bambina senza padre, la madre mi muore, io spero in Te”, e sono sicura che anche che io sia filistea mi ascolterebbe».
   Tutta una fede semplice e forte vibra nella voce della fanciulla. Gesù sorride guardando la poverina che gli cammina a lato. Lei non vede questo sorriso fulgido perché guarda avanti, verso la casa ormai vicina…

   218.10 Giungono ad una casupola ben povera, in fondo ad un vicolo cieco. «È qui, Signore. Entra…». Una cameretta meschina, un saccone con sopra un corpo sfinito, tre piccoli di età dai dieci ai tre anni, seduti presso il saccone. Miseria e fame tralucono da tutto.
   «Pace a te, donna. Non ti agitare. Non ti scomodare. Ho trovato la tua bambina e so che sei malata. Sono venuto. Vorresti guarire?».La donna in un filo di voce risponde: «Oh! Signore!… Ma per me è finita!…», e piange.
   «Tua figlia è giunta a credere che il Messia potrebbe guarirti. E tu?».
   «Oh! crederei anche io. Ma dove è il Messia?».
   «Io sono che ti parlo». E Gesù, che era curvo sul saccone mormorando le sue parole presso il volto dell’indebolita, si raddrizza e grida: «Lo voglio. Sii guarita».
   I bambini hanno quasi paura della sua imponenza e stanno, tre volti di stupore, a far corona al giaciglio materno.
   Dina si preme le mani sul piccolo petto. Una luce di speranza, di beatitudine balena sul suo visetto. Anela quasi, tanta è la sua emozione. Ha la bocca aperta per una parola che già il cuore mormora, e quando vede che la madre, prima cerea e abbandonata, come se una forza la attirasse trasfondendosi in lei, si alza a sedere, e poi, sempre con gli occhi fissi in quelli del Salvatore, si alza in piedi, Dina ha un urlo di gioia: «Mamma!». La parola che empiva il cuore è detta!… E poi un’altra:
   «Gesù!». E abbracciando la madre la obbliga a inginocchiarsi dicendo: «Adora, adora! È Lui quello che il maestro di Tolmé diceva il profetizzato Salvatore».
   «Adorate il vero Dio, siate buoni, ricordatevi di Me.
   Addio». E lesto esce, mentre ancora le due felici sono prostese al suolo…

[109] Sansone, le cui imprese contro i filistei sono narrate in: Giudici 14-16. Inoltre, le lotte tra Israele e i filistei, cui più volte si accenna nel presente capitolo e nei successivi (l’ultima volta in 221.9), sono l’argomento dominante di: 1 Samuele 47; 13-14; 17; 23; 28; 31.