MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 220



CCXX. Gli idolatri di Magdalgad e il miracolo su una partoriente.

   16 luglio 1945.

   220.1 Ascalona e le sue ortaglie sono già un ricordo. Nelle ore fresche di una splendida mattina, dando le spalle al mare, Gesù coi suoi si dirige verso delle colline tutte verdi, poco alte ma graziose, che si elevano nella pianura ubertosa. I suoi apostoli, riposati e soddisfatti, sono tutti allegri e parlano di Anania, delle sue schiave, di Ascalona, della gazzarra che era in città al loro ritorno per portare i denari a Dina.
   «Era destinato che provassi le strette dei filistei. L’odio e l’amore hanno le stesse manifestazioni, se si vuole. E io, che non avevo patito per l’odio filisteo, per poco vengo ferito per l’amore. Per poco non ci imprigionano per farci dire dove era il Maestro, quegli esaltati dal miracolo. E che strillare! Vero, Giovanni? La città bolliva come un paiolo. Quelli che erano inquieti non volevano sentire ragione e volevano cercare i giudei per legnarli; quelli beneficati, o amici dei beneficati, volevano persuadere i primi che era passato un dio. Una confusione! Hanno da discutere per dei mesi. Il male è che discutono più coi bastoni che con la lingua. Ebbene… sono fra di loro. Facciano quello che vogliono», dice Tommaso.
   «Però… non sono cattivi…», osserva Giovanni.
   «No. Sono solamente accecati da tante cose», risponde lo Zelote.
   Gesù non parla per un bel tratto di strada. Poi dice: «Ecco, Io ora vado a quel paesello sul monte, voi proseguite per Azoto. Fate attenzione. Siate cortesi, dolci, pazienti. Se anche vi deridono sopportatelo in pace, come ieri faceva Matteo, e Dio vi aiuterà. Al tramonto uscite, andando vicino allo stagno che è alle vicinanze di Azoto. Lì ci troveremo».
   «Ma, Signore, io non ti lascio andare solo!», esclama l’Iscariota. «Sono dei violenti, questi!… È una imprudenza».
   «Non temete di nulla per Me. Vai, vai, Giuda, e sii tu prudente. Addio. La pace sia con voi».
   I dodici se ne vanno non troppo entusiasti. Gesù li guarda andare e poi prende il sentiero della collina, fresco, ombroso. Il colle è coperto di boschi di ulivi, di noci, di fichi e di vigneti ben coltivati e già promettenti pingue raccolto. Nei luoghi pianeggianti sono campicelli di cereali, in quelli in pendio pascolano capre bionde sull’erba verde.

   220.2 Gesù raggiunge le prime case del paese. Sta per entrarvi quando incontra uno strano corteo. Sono donne urlanti, uomini vocianti in una nenia alterna, e tutti fanno una specie di danza intorno ad un caprone che procede ad occhi bendati, percosso, già sanguinante nei ginocchi per essere inciampato e caduto sulle pietre del sentiero.
   Un altro gruppo, ugualmente vociante e urlante, si agita intorno ad un simulacro scolpito, molto brutto in verità, e tiene alte delle padelle con brace accese che alimentano buttando loro sopra resine e sale, almeno così mi sembra, perché le prime mandano odore di ragia e il secondo scoppietta come fa il sale.
   Un ultimo gruppo attornia un santone davanti al quale continuamente si inchinano urlando: «Per la tua forza!» (uomini), «Tu solo puoi!» (donne), «Supplica il dio!» (uomini), «Leva il sortilegio!» (donne), «Comanda alla matrice!», «Salva la donna!»; e tutti insieme, con un ululato da tregenda: «Morte alla maga!». E poi da capo, con la variante: «Per la tua forza!», «Tu solo puoi!», «Ordina al dio!», «Che faccia vedere!», «Comanda al caprone!», «Che mostri la maga!»; e in un urlo da dannati: «Che odia la casa di Fara!».

   220.3 Gesù ferma uno dell’ultimo gruppo e chiede dolcemente:
   «Che avviene? Sono forestiero…».
   L’uomo, poiché la processione si è fermata un momento per percuotere il capro, gettare le resine sulle braci e prendere fiato, spiega: «La sposa di Fara, il grande di Magdalgad, muore di parto. Una che l’odia ha gettato il maleficio. Le viscere si sono annodate e il figlio non può nascere. Cerchiamo la maga per ucciderla. Solo così la sposa di Fara sarà salva, e se non troveremo la maga sacrificheremo il caprone per impetrare somma misericordia dalla dea Matrice» (si capisce che quello scarabocchio di pupazzo è una dea…).
   «Fermatevi. Io sono capace di guarire la donna e salvare il maschio. Ditelo al sacerdote», dice Gesù all’uomo e ad altri due che si sono accostati.
   «Sei medico?».
   «Più ancora».
   I tre fendono la folla e vanno dal sacerdote idolatra. Gli parlano. La voce corre. La processione, che aveva ripreso ad andare, si ferma.
   Il sacerdote, imponente nei suoi cenci multicolori, fa un cenno a Gesù e ordina: «Giovane, vieni qui!». E quando lo ha vicino: «È vero quanto dici? Guarda che, se quanto dici non avviene, noi penseremo che lo spirito della maga si è impersonato in te e ti uccideremo in suo luogo».
   «È vero. Conducetemi subito dalla donna e intanto datemi il capro. Mi occorre. Sbendatelo e portatemelo qui».
   Lo fanno. La povera bestia sbalordita, barcollante, sanguinante, viene portata a Gesù che la carezza sul folto pelo nero.
   «Ora però bisogna ubbidirmi senza eccezione. Lo farete?».
   «Sì!», urla la folla.
   «Andiamo. Non urlate più, non bruciate resine. Lo comando».

   220.4 Vanno, entrando nel paese, e per una via che è la migliore vanno ad una casa messa al centro di un frutteto. Urla e pianti escono dalle porte spalancate, e su tutto, lugubre, il lamento atroce della donna che non può dare alla luce il figlio.
   Corrono ad avvertire Fara, che viene avanti terreo, scarmigliato, affiancato da donne piangenti e da inutili santoni brucianti incensi e foglie su delle padelle di rame. «Salvami la donna!», «Salva mia figlia!», «Salvala, salvala!», urlano a vicenda l’uomo, una vecchia, la folla.
   «La salverò e con essa il tuo maschio, perché maschio è, e floridissimo, con due dolci occhi colore dell’uliva che matura e la testa ricoperta di capelli neri come questo vello».
   «Come lo sai? Che vedi? Anche nelle viscere?».
   «In tutto Io vedo e penetro. Tutto conosco e posso. Sono Dio».
   Avesse mandato un fulmine avrebbe fatto meno effetto. Tutti si gettano al suolo come morti.
   «Alzatevi. Udite. Io sono il Dio potente e non sopporto altri dèi avanti a Me. Accendete un fuoco e gettatevi quella statua».
   La folla si ribella. Comincia a dubitare del «dio» misterioso che ordina l’arsione della dea. I più accesi sono i sacerdoti.
   Ma Fara e la madre della sposa, ai quali preme la vita della donna, si oppongono alla folla ostile e, poiché Fara è il grande del paese, la folla frena i suoi sdegni. L’uomo però interroga:
   «Come posso credere che Tu sei un dio? Dàmmene un segno e io comanderò sia fatto ciò che Tu vuoi».
   «Guarda. Vedi le ferite di questo caprone? Sono aperte, vero? Sanguinanti, vero? La bestia è quasi morente, vero? Ebbene, Io voglio che ciò non sia… Ecco. Guarda».
   L’uomo si curva e guarda… e urla: «È senza ferite!», e si getta al suolo pregando: «La mia donna, la mia donna!».
   Ma il sacerdote della processione dice: «Temi, Fara! Non conosciamo chi è costui! Temi la vendetta degli dèi».
   L’uomo è preso da due paure: gli dèi, la donna… Chiede:
   «Chi sei?».
   «Io sono Colui che sono, in Cielo, in Terra. Ogni forza mi è soggetta, ogni pensiero noto. Gli abitanti dei Cieli mi adorano, gli abitanti dell’Inferno mi temono. E coloro che credono in Me vedranno compiersi ogni prodigio».
   «Io credo! Io credo… Il tuo Nome!».
   «Gesù Cristo, l’incarnato Signore. Quell’idolo alle fiamme!
   Non sopporto dèi al mio cospetto. Quei turiboli spenti. Non vi è che il mio Fuoco che possa e voglia. Ubbidite, o Io vi incenerirò l’idolo vano e me ne andrò senza salvare».
   È terribile Gesù nel suo abito di lino, dalle spalle del quale pende il mantello azzurro che fa strascico dietro a Lui, il braccio levato in atto di comando, il volto folgorante. Ne hanno paura, nessuno parla più… Nel silenzio, l’urlo sempre più sfinito e straziante della sofferente. Ma stentano ad ubbidire.
   Il volto di Gesù si fa sempre più insostenibile a guardarsi. È veramente un fuoco che brucia materie e animi. E le padelle di rame sono le prime a subirne il volere. Chi le tiene le deve gettare perché non resiste più al loro ardore. Eppure i carboni appaiono spenti… Poi sono i portatori dell’idolo che devono mettere al suolo la portantina che sorreggevano per le stanghe sulle spalle, perché i legni si carbonizzano come se una misteriosa fiamma li lambisse, e appena al suolo la barella dell’idolo va in fuoco. La gente fugge terrorizzata…

   220.5 Gesù si volge a Fara: «Puoi dunque credere realmente nel mio potere?».
   «Credo, credo. Tu sei Dio. Sei il dio Gesù».
   «No. Io sono il Verbo del Padre, di Jeové di Israele, venuto in Carne, Sangue, Anima e Divinità a redimere il mondo e a dargli la fede nel Dio vero, uno, trino, che è nei Cieli altissimi. Vengo a dare aiuto e misericordia agli uomini perché lascino l’Errore e vengano alla Verità, che è l’unico Dio di Mosè e dei Profeti. Puoi credere ancora?».
   «Credo, credo!».
   «Io sono venuto a portare Via, Verità, Vita agli uomini, ad abbattere gli idoli, a insegnare la sapienza. Per Me il mondo avrà redenzione, perché Io morrò per amore del mondo e per la salvezza eterna degli uomini. Puoi credere ancora?».
   «Credo, credo!».
   «Io sono venuto per dire agli uomini che essi, se credono nel Dio vero, avranno la vita eterna in Cielo, presso l’Altissimo che è il Creatore di ogni uomo, animale, pianta e pianeta. Puoi credere ancora?».
   «Credo, credo!».
   Gesù non entra neppure nella casa. Solo tende le braccia verso la stanza della sofferente, a mani distese, come nella risurrezione di Lazzaro, e grida: «Esci alla luce per conoscere la Luce divina e per ordine della Luce che è Dio!».
   Un comando tonante al quale, dopo un momento, fa eco un grido di trionfo che ha nel suo suono del gemito e della gioia, e poi un flebile piangere di neonato, flebile eppure ben distinto e che sempre più cresce come per forza che aumenta.
   «Tuo figlio piange salutando la Terra. Va’ da lui e digli, ora e poi, che non è la Terra la patria, ma lo è il Cielo. Crescilo, e tu cresci con lui, per il Cielo. Questa è la Verità che ti parla. Quelle (e indica le padelle di rame accartocciate come foglie secche, inutili ad ogni uso, giacenti al suolo, e la cenere che segna il posto della barella dell’idolo) sono la Menzogna che non aiuta e non salva. Addio». E fa per andarsene.

   220.6 Ma una donna accorre con un vispo neonato avvolto in un lino e grida: «È maschio, Fara. Bello, robusto, dagli occhi morati come uliva che matura e i ricciolini più neri e fini di quelli di un capretto sacro. E la donna riposa beata. Non soffre più, come nulla fosse stato. Una cosa improvvisa, quando già era morente… e dopo quelle parole…».
   Gesù sorride e, poiché l’uomo gli presenta il neonato, Egli lo tocca sul capo col sommo delle dita. La gente, meno i sacerdoti che indignati se ne sono andati vedendo la defezione di Fara, si accosta curiosa di vedere il neonato e di guardare Gesù.
   Fara vorrebbe dargli oggetti e denaro per il miracolo. Ma Gesù dice, dolce e fermo: «Nulla. Il miracolo non si paga altro che con la fedeltà a Dio che l’ha concesso. Tengo solo questo caprone. Per ricordo della tua città». E se ne va col caprone, che gli trotterella vicino come se Gesù fosse il suo padrone, risanato, felice, belante la sua gioia di essere con uno che non lo percuote… Scendono così le balze del colle riprendendo la via maestra che conduce ad Azoto…

   220.7 Quando a sera, presso lo stagno ombroso, Gesù vede venire i discepoli, è reciproco lo stupore, vedendo essi Gesù con quell’ariete e Lui loro con i visi mortificati di chi non ha fatto affari.
   «Disastro, Maestro! Non ci hanno percossi. Ma ci hanno cacciati fuori di città. Abbiamo errato per la campagna, e pagando ben caro abbiamo potuto procurarci del cibo. Eppure fummo dolci…», dicono desolati.
   «Non importa. Anche a Ebron lo scorso anno ci cacciarono e questa volta ci fecero onori. Non dovete sconfortarvi».
   «E Tu, Maestro? Quella bestia?», interrogano.
   «Sono andato a Magdalgad. Ho arso un idolo e i turiboli dello stesso, ho fatto nascere un maschio, ho predicato il Dio vero attraverso i miracoli e mi sono preso il capro, destinato al rito idolatrico, per mercede. Povera bestia, era tutto una ferita!».
   «Ma ora sta bene! È una magnifica bestia».
   «È animale sacro, destinato all’idolo… Sano. Sì. Il primo miracolo per convincerli che Io era il Potente, non il loro pezzo di legno».
   «E che ne fai?».
   «Lo porto a Marziam. Un fantoccio ieri, un capro oggi. Lo farò felice».
   «Ma te lo vuoi condurre dietro fino a Bétèr?».
   «Certamente. Non vedo l’orrore di questo fatto. Se sono il Pastore potrò avere un ariete. Poi lo daremo alle donne. E andranno in Galilea così. Troveremo una capretta. Simone, diverrai pastore di caprette. Meglio se fossero pecore… Ma il mondo è più di capri che di agnelli… È un simbolo, Pietro mio. Ricordalo… Col tuo sacrificio farai degli arieti tanti agnelli. Venite. Raggiungiamo quel villaggio fra i frutteti. Troveremo alloggio o nelle case o sui covoni che già sono legati sui campi.
   E domani andremo a Jabnia».
   Gli apostoli sono stupiti, addolorati, sfiduciati. Stupiti dei miracoli, addolorati di non esserci stati, sfiduciati della loro incapacità, mentre Gesù può tutto.
   Ma Lui, invece, è così contento!… E riesce a persuaderli che «nulla è inutile. Neppure la disfatta. Perché serve a formarvi all’umiltà, mentre il parlare serve a far risuonare un nome, il mio, e a lasciare un ricordo nei cuori». Ed è così convincente e luminoso di gioia che essi pure si rasserenano.
   […].