MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 221



CCXXI. Le prevenzioni degli apostoli verso i pagani e la parabola del figlio deforme.

   17 luglio 1945.

   221.1 «Da Jabnia andremo ad Acron?», chiedono andando per una fertilissima campagna dove i grani dormono il loro ultimo sonno al sole, al grande sole che li ha maturati, stesi a covoni sui campi falciati e tristi come immensi letti funebri, ora che non hanno più veste di spighe, ma salme di grano in attesa d’esser trasportate altrove.
   Ma se i campi sono spogli, i pometi sono vestiti a festa, coi frutti che si affrettano a maturare, che passano dal verde duro del frutticino a quello tenero, giallino, rosato, lucido come per cera del frutto che matura, oppure i fichi aprono lo scrigno, scoppiando nelle pelle elastica, il dolcissimo scrigno del frutto-fiore, e mostrano, oltre lo spacco verde-bianco o viola e bianco, la gelatina trasparente e sparsa di semolini più scuri della polpa. Gli ulivi ad un venticello leggero scuotono le loro gocce ovali di giada appese al picciolo sottile fra il verd’argento delle frasche, e i noci solenni tengono, duri sul gambo, i loro frutti che gonfiano fra la felpa del mallo, mentre i mandorleti finiscono di maturarli fra l’involucro che aggrinza il suo velluto e ne muta colore, e le viti gonfiano gli acini, e già qualche grappolo, situato in posizione di favore, osa accennare al topazio trasparente e al rubino futuro dell’acino maturo, mentre le cactacee della pianura o delle prime pendici esultano per le decorazioni giorno per giorno più vive degli ovuli di corallo, che sono stati bizzarramente posati da un decoratore allegro sulla cima delle spatole polpute che sembrano mani e mani, chiuse in astucci pungenti che protendono al cielo i frutti che esse han cresciuto e maturato.
   Palme isolate e carrubbi folti ricordano già molto l’Africa vicina, e mentre le prime suonano le nacchere delle loro foglie dure a pettine tondo, gli altri si sono vestiti di smalto verde cupo e stanno impettiti, in sussiego nella loro veste tanto bella. Capre bionde e capre nere, alte, snelle, dalle lunghe corna ricurve e gli occhi dolci e arguti, si pascono delle cactacee e dànno l’assalto agli agavi carnosi, a questi enormi pennelli di foglie dure e spesse che, come carciofi aperti, dal centro del cuo re erompono il candelabro da cattedrale del loro stelo gigante a sette braccia, su cui fiammeggia il fiore giallo e rosso dal profumo gentile.
   Africa ed Europa si dànno la mano nel coprire il suolo di bellezze vegetali,

   221.2 e non appena il gruppo apostolico lascia la pianura per prendere un sentiero che si inerpica su una collina letteralmente coperta di vigneti, in questa sua costa che guarda il mare – costa pietrosa, calcarea, su cui l’uva deve divenire un che di prezioso come per mutazione di succo in giulebbe – ecco che il mare, il mio mare, il mare di Giovanni, il mare di Dio, si mostra nel suo drappo smisurato di seta crespa e azzurra, e parla di lontananze, di infinito, di potenza, mentre canta col cielo e col sole il trio delle glorie creatrici. E la pianura si spiega tutta, in tutta la sua ondulata bellezza di accenni di colli alti pochi metri, mescolati a zone piane, a dune d’oro fino alle città e paesi sul mare, bianchi contro l’azzurro.
   «Come è bello! Come è bello!», mormora estatico Giovanni.
   «Ma, mio Signore! Quel ragazzo vive di azzurro. Devi destinarlo a quello. Pare che veda la sposa quando vede il mare!», dice Pietro, che non fa molta differenza fra acqua marina e acqua lacuale. E ride bonario.
   «È già destinato, Simone. Avete tutti il vostro destino».
   «Oh! bella! E me dove mi mandi?».
   «Oh! tu!…».
   «Dimmelo, sii buono!».
   «In un luogo più grande della tua e mia città e di Magdala e Tiberiade messe insieme».
   «Mi ci perderò».
   «Non avere paura. Sembrerai una formica su un grande scheletro. Ma andando e venendo instancabile risusciterai lo scheletro».
   «Non capisco niente… Sii più chiaro».
   «Capirai, capirai!…», e Gesù sorride.
   «E io?», «E io?». Tutti vogliono sapere.
   «Farò così». Gesù si china – sono lungo la riva ghiaiosa di un torrente ancora molto colmo di acqua nel suo centro – e raccatta una manciata di ghiaietta fina fina. La butta in aria, e quella ricade sparpagliandosi in tutti i sensi. «Ecco. Questo solo sassolino mi è rimasto fra i capelli. Anche voi sarete così sparsi».
   «E Tu, fratello, rappresenti la Palestina, vero?», chiede serio Giacomo d’Alfeo.
   «Sì».
   «Io vorrei sapere chi sarà quello che resta sulla Palestina», chiede ancora Giacomo.
   «Tieni questo sassolino. Per ricordo», e Gesù dà la ghiaietta, rimasta impigliata fra i suoi capelli, al cugino Giacomo e sorride.
   «Non potresti lasciare me in Palestina? Sono il più adatto, perché sono il più rozzo, e in casa nostra ancora mi rigiro. Ma fuori!…», dice Pietro.
   «Tu sei il meno adatto, invece, a rimanere qui.

   221.3 In voi è la prevenzione contro il resto del mondo, e credete essere facile più l’evangelizzare in paese di fedeli che di idolatri e gentili. Mentre è proprio il contrario. Se rifletteste che cosa ci offre la vera Palestina nelle sue classi alte e anche, sebbene meno, nel suo popolo, e se pensaste che qui, in luogo in cui il nome di Palestina è odiato e quello di Dio, nella sua vera espressione, sconosciuto, siamo stati accolti non certo peggio che in Giudea, in Galilea e nella Decapoli, cadrebbero le vostre prevenzioni e vedreste che dico giusto dicendo che è più facile convincere gli ignoranti del Dio vero che quelli del popolo di Dio, idolatri sottili, colpevoli, e che orgogliosamente si credono perfetti, e che come sono vogliono rimanere.
   Quante gemme, quante perle il mio occhio vede dove voi vedete solo terra e mare! La terra delle moltitudini che non sono Palestina. Il mare dell’Umanità che non è Palestina e che, come mare, non chiede che di accogliere i ricercatori per dar loro queste perle, e che, come terra, di essere frugata per lasciarsi carpire le gemme. I tesori sono dapertutto. Ma vanno cercati. Ogni zolla può nascondere un tesoro e nutrire un seme, ogni profondità celare una perla. Ma che? Pretendereste forse che il mare sconvolgesse il suo fondo con burrasche atroci per svellere ai banchi le ostriche perlifere, per aprirle sotto la percossa dei marosi e offrirle poi sul lido ai pigri che non vogliono faticare, ai pusillanimi che non vogliono correre pericoli? Pretendereste che la terra facesse pianta di un granello di rena per darvi frutti con nessun seme? No, miei cari. Ci vuole fatica, lavoro, ardimento. E soprattutto non ci vogliono prevenzioni.

   221.4 Voi, lo so, disapprovate, chi più, chi meno, questo viaggio fra i filistei. Neppure le glorie che queste terre ricordano, le glorie di Israele che parlano da questi campi fecondati dal sangue ebreo sparso per fare grande Israele, da quelle città che furono strappate una ad una dalle mani di chi le teneva per incoronare Giuda e farne nazione potente, sono valide a farvi amare questo pellegrinaggio. E neppure vi dico: neanche l’idea di preparare il terreno a raccogliere l’Evangelo e la speranza di salvare degli spiriti è valida a questo. Non ve la dico fra le ragioni che vi sottopongo alla mente per farvi considerare la giustizia di questo viaggio. È ancora troppo superiore a voi questo pensiero. Vi arriverete un giorno. E allora direte: “Credevamo che fosse un capriccio, credevamo che fosse una pretesa, credevamo che fosse poco amore del Maestro verso noi farci andare così lontano, con cammino lungo e penoso, col rischio di passare delle brutte ore. Ed invece era amore, era previsione, era uno spianarci la via per ora che non lo abbiamo più e che ci sentiamo ancora più smarriti. Perché allora eravamo come tralci che vanno in ogni direzione ma sanno che li nutre la vite e che lì vicino è sempre il palo robusto che li può sorreggere, e ora invece siamo tralci che devono creare una pergola da sé, traendo nutrimento, sì, dal ceppo della vite, ma senza più tronco su cui appoggiarsi”. Questo direte e mi ringrazierete allora.
   E poi!… Non è bello andare così, lasciando cadere scintille di luce, note di suono, corolle celesti, profumi di verità, in servizio e lode di Dio, su terre avvolte nelle tenebre, in cuori muti, su animi sterili come deserti, per vincere i fetori della Menzogna, e farlo insieme, così, Io e voi, voi e Io, il Maestro e gli apostoli, tutti un cuor solo, un solo desiderio, un sol volere? Che Dio sia conosciuto e amato. Che Dio raccolga tutte le genti sotto il suo padiglione. Che dove Egli è tutti siano. Questa è la speranza, il desiderio, la fame di Dio! E questa è la speranza, il desiderio, la fame degli spiriti che non sono, essi, di razze diverse, ma che sono di un’unica razza: quella che Dio crea. E che essendo tutti figli di un Unico, hanno gli stessi desideri, le stesse speranze, le stesse fami del Cielo, della Verità, dell’Amore reale…

   221.5 Sembra che secoli di errore abbiano cambiato l’istinto degli spiriti. Ma non è. L’errore avvolge le menti. Perché le menti sono fuse con la carne e risentono del veleno che è stato inoculato da Satana nell’animale uomo. E così l’errore può avvolgere il cuore perché anche esso è innestato nella carne e ne risente i tossici. La concupiscenza triplice morde il senso, il sentimento e il pensiero. Ma lo spirito non è innestato nella carne. Sarà sbalordito dai pugni che Satana e la concupiscenza gli sferrano. Sarà quasi accecato dai baluardi carnali e dagli spruzzi del sangue bollente dell’animale-uomo in cui esso è infuso. Ma non ha cambiato il suo anelito al Cielo, a Dio. Non può cambiare.
   Vedete l’acqua pura di questo torrente? È scesa dal cielo e al cielo tornerà per le evaporazioni delle acque sotto il vento ed il sole. Scende e risale. L’elemento non si consuma ma torna alle origini. Lo spirito torna alle origini. Quest’acqua, qui fra i sassi, se avesse parola vi direbbe che anela di tornare all’alto, per essere spinta dai venti per i bei campi del firmamento, soffice, bianca, oppure rosata alle aurore, o di rame acceso al tramonto, o viola come un fiore nei crepuscoli già stellari; vi direbbe che vorrebbe far da crivello alle stelle che occhieggiano dalle schiarite dei cirri, perché ricordino agli uomini il Cielo, oppure da velo alla luna perché non veda le brutture notturne, anziché essere qui, serrata fra gli argini, minacciata di mutarsi in fango, costretta a conoscere connubi di biscie e di ranocchi, mentre essa ama tanto la libertà solitaria dell’atmosfera. Anche gli spiriti, se osassero parlare, direbbero tutti la stessa cosa: “Dateci Dio! Dateci la Verità!”. Ma non lo dicono, perché sanno che l’uomo non avverte, non comprende o deride la supplica dei “grandi mendicanti”, degli spiriti che cercano Dio per la loro tremenda fame. La fame della Verità.

   221.6 Questi idolatri, questi romani, questi atei, questi infelici, che nell’andare incontriamo, che sempre incontrerete, questi vilipesi nei loro desideri di Dio, o per politica, o per egoismo familiare, o per eresia nata da putrido cuore e proliferata in nazioni, hanno fame. Hanno fame! Ed Io ho pietà di loro. E non avrei pietà, essendo Colui che sono? Se provvedo al cibo per l’uomo e per il passero avendone pietà, perché non avrei pietà degli spiriti ai quali si sono messi ostacoli per essere del vero Dio, e che tendono le braccia del loro spirito gridando: “Abbiamo fame!”? Li credete malvagi? Selvatici? Incapaci di giungere ad amare la religione di Dio e Dio? Siete in errore. Sono spiriti che attendono amore e luce.
   Questa mattina siamo stati svegliati dal belare minaccioso del capro che voleva cacciare quel grosso cane venuto ad annusarmi. E voi avete riso, vedendo come l’ariete puntava minaccioso le corna, dopo avere strappato la funicella che lo assicurava all’albero sotto il quale dormivamo, mettendosi fra Me e il cane con un solo balzo, senza pensare che poteva essere assalito e sgozzato dal molosso nella difesa impari di Me. Ugualmente i popoli, che agli occhi vostri paiono arieti selvatici, sapranno mettersi coraggiosamente a difesa della fede di Cristo quando avranno conosciuto che Cristo è Amore che li invita al suo seguito. Li invita. Sì. E voi dovete aiutarli a venire.

   221.7 Udite una parabola.
   Un uomo si sposò, avendo molti figli dalla moglie. Ma uno fra questi nacque deforme nel corpo e apparentemente di razza diversa. L’uomo lo riputò un disonore e non lo amò, per quanto la creatura fosse innocente. Il fanciullo crebbe trascurato fra i servi più infimi, perciò inferiore anche nel pensiero ai fratelli. La madre, essendo morta nel darlo alla luce, non poteva temperare la durezza del padre, impedire lo scherno dei fratelli, correggere le idee errate, nate dal pensiero selvaggio del bambino. Una piccola belva mal sopportata presso la casa dei figli del cuore.
   Il fanciullo divenne uomo così. E la ragione sviluppata in ritardo, ma finalmente giunta alla maturità, comprese che non era essere figlio vivere nelle stalle, ricevere un tozzo di pane e uno straccio di veste e mai un bacio, mai una parola, mai un invito ad entrare nella casa paterna. E soffriva, soffriva gemendo nella sua tana: “Padre! Padre!”. Mordeva il suo pane, ma rimaneva la grande fame del cuore. Si copriva con la veste, ma rimaneva il grande freddo del cuore. Aveva amici gli animali e alcuni pietosi del paese. Ma aveva la solitudine del cuore. “Padre! Padre!”… Lo udivano i servi, i fratelli, i concittadini gemere sempre così, come folle. E “il folle” era detto.
   Infine un servo osò andare da lui, divenuto quasi una belva, e gli disse: “Perché non ti getti ai piedi del padre?”. “Lo farei. Ma non oso…”. “Perché non vieni in casa?”. “Ho paura”. “Ma lo vorresti fare?”. “Oh! sì! Perché di questo ho fame, per questo ho freddo, e mi sento solo come in un deserto. Ma io non so come si vive nella casa del padre mio”. Il servo buono si mise allora ad istruirlo, a renderlo più di bell’aspetto, a levargli il terrore di essere inviso al padre, dicendogli: “Tuo padre ti vorrebbe, ma non sa se tu lo ami. Lo sfuggi sempre… Leva al padre il rimorso di avere agito troppo severamente e il suo dolore di saperti ramingo. Vieni. Anche i fratelli ora non vogliono più schernirti, perché io ho narrato loro il tuo dolore”.
   E il povero figlio andò una sera, guidato dal servo buono, alla porta paterna e gridò: “Padre, io ti amo! Lasciami entrare!…”. Il padre, che vecchio e triste pensava al suo passato e al suo futuro eterno, sussultò a quella voce e disse: “Il mio dolore si placa infine perché nella voce del deforme ho sentito la mia, e il suo amore è prova che egli è sangue del mio sangue e carne della mia carne. Venga dunque a prendere il suo posto presso i fratelli, e sia benedetto il servo buono che ha reso completa la mia famiglia mettendo il figlio reietto fra tutti i figli del padre”.

   221.8 Questa è la parabola. Ma nell’applicazione di essa voi dovete pensare che il Padre dei deformi spirituali, Dio – perché i deformi spirituali sono gli scismatici, gli eretici, i separati – è stato costretto al rigore dalle deformità volontarie che essi hanno voluto. Ma il suo amore non ha mai deflettuto. Li attende. Portateglieli. È il vostro dovere.
   Io vi ho insegnato a dire: “Dàcci oggi il nostro pane, o Padre nostro”. Ma sapete voi cosa vuole dire quel “nostro”? Non vuole dire vostro di voi dodici. Non vostro come discepoli del Cristo. Ma vostro come uomini. Per tutti gli uomini. Per quelli presenti, per quelli futuri. Per quelli che conoscono Dio e per quelli che non lo conoscono. Per quelli che amano Dio e il suo Cristo e per quelli che non lo amano o lo amano male. Ho messo sulle vostre labbra la preghiera per tutti. È il ministero vostro. Voi che conoscete Dio, il suo Cristo, e li amate, dovete pregare per tutti.
   Vi ho detto che la mia preghiera è universale e durerà quanto dura la Terra. Ma voi dovete pregare universalmente, unendo le vostre voci e i vostri cuori di apostoli e discepoli della Chiesa di Gesù a quelle e a quelli degli appartenenti ad altre Chiese che saranno cristiane ma non apostoliche. E insistere, perché siete fratelli – voi nella casa del Padre, essi fuori della casa del Padre comune con la loro fame e la loro nostalgia – finché venga dato ad essi come a voi il “pane” vero che è il Cristo del Signore, amministrato sulle tavole apostoliche, non su altre su cui è mescolato con alimenti impuri. Insistere finché il Padre non abbia detto a questi fratelli “deformi”: “Il mio dolore si placa perché in voi, nella vostra voce, ho sentito la voce e le parole del mio Unigenito e Primogenito. Siano benedetti quei servi che vi hanno portati nella Casa del Padre vostro perché la mia Famiglia sia completa”. Servi di un Dio infinito, dovete mettere l’infinità in ogni vostra intenzione.
   Avete inteso?

   221.9 Ecco Jabnia. Una volta da qui passò l’Arca per andare ad Acron, che non poté custodirla e la rimandò a Betsemes. L’Arca torna ad andare ad Acron. Giovanni, vieni con Me. Voi rimanete in Jabnia e sappiate riflettere e parlare.
   La pace sia con voi».
   E Gesù se ne va con Giovanni e coll’ariete, che belando gli corre dietro come un cane.