MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 223



CCXXIII. Un discorso di Gesù evita ad una carovana nuziale l'assalto dei predoni.

   19 luglio 1945.

   223.1 «Nel luogo in cui andremo parlerò Io», dice il Signore mentre sempre più la comitiva si addentra in vallate che assalgono il monte con vie difficili, sassose, strette, e salgono e scendono perdendo orizzonti, riacquistandoli, finché, giunta ad una valle profonda per una discesa ripidissima sulla quale si sente a suo agio solo il caprone, come dice Pietro, la comitiva prende riposo e consuma il suo pasto presso una sorgiva molto ricca d’acque.
   Altre persone sono sparse per i prati ed i boschetti e fanno il loro pasto come Gesù e i suoi. Deve essere un posto di sosta preferito per essere riparato dai venti, con prati soffici e acque. Sono pellegrini che vanno verso Gerusalemme, viaggiatori diretti forse al Giordano, mercanti di agnelli destinati al Tempio, pastori con le loro greggi. Alcuni fanno il viaggio con le cavalcature, i più a piedi.

   223.2 Giunge anche una carovana nuziale tutta bardata a festa. Gli ori tralucono sotto il velo che avviluppa la sposa, una poco più che fanciulla, accompagnata da due matrone tutte scintillanti di bracciali e collane, e da un uomo, forse il paraninfo, oltre che da due servi. Sono arrivati su asini pieni di fiocchi e sonagli, e si ritirano in un angolo per mangiare, come avessero paura che l’occhio dei presenti violasse la sposina. Il paraninfo, o parente che sia, monta la guardia minaccioso mentre le donne mangiano. Vi è della curiosità molto viva, infatti, e con la scusa di chiedersi del sale, un coltello, un goccio di aceto, vi è sempre qualcuno che va da questo o quello per interrogare se è conosciuta la sposa e dove va, e tante belle cose del genere… C’è uno, infatti, che sa da dove viene e dove va e che è ben felice di raccontare tutto quanto sa, stuzzicato da un altro che gli apre sempre più l’ugola col versargli vino generoso. A momenti vengono sciorinati anche i più segreti particolari di due famiglie, del corredo che la sposa porta in quei cassoni, delle ricchezze che l’attendono nella casa dello sposo, e così via. Si viene così a sapere che la sposa è figlia di un ricco mercante di Joppe, e che va sposa al figlio di un ricco mercante di Gerusalemme, e che lo sposo l’ha preceduta per ornare la casa nuziale nell’imminenza del suo arrivo, e che quello che l’accompagna, l’amico dello sposo, è lui pure figlio di un mercante, di Abramo, colui che lavora i diamanti e le gemme, mentre lo sposo è battiloro, e il padre della sposa mercante di lane, tele, tappeti, tende…

   223.3 Dato che il chiacchierone è prossimo al gruppo apostolico, Tommaso sente e chiede: «Ma è forse Natanaele di Levi, lo sposo?».
   «È proprio lui. Lo conosci?».
   «Conosco bene il padre per scambio di affari, un poco meno Natanaele. Matrimonio ricco!».
   «E sposa felice! È ricoperta d’oro. Abramo, parente della madre della sposa e padre dell’amico dello sposo, si è fatto onore, e così lo sposo e il padre di lui. Si dice che in quelle casse è il valore di molti talenti d’oro».
   «Salute!», esclama Pietro e fa una fischiatina. E aggiunge:
   «Vado a vedere da vicino se la merce principale corrisponde al resto», e si alza insieme a Tommaso, e vanno a fare un giretto intorno al gruppo nuziale e guardano ben bene le tre donne, un ammasso di stoffe e di veli dai quali emergono le mani e i polsi ingioiellati e trapelano scintillii dalle orecchie e dal collo, e guardano il rodomantesco paraninfo che sembra debba respingere un assalto di corsari alla verginella, tanto fa il bravaccio.
   Guarda male anche i due apostoli. Ma Tommaso lo prega di salutare, a nome di Tommaso detto Didimo, Natanaele di Levi. E la pace è fatta, tanto fatta che, mentre lui chiacchiera, la sposina trova il modo di farsi ammirare, alzandosi in modo che il mantello e il velo cadano ed ella appaia in tutta la sua leggiadria di corpo e di vesti e nella sua ricchezza di idolo. Avrà quindici anni al massimo, e certi occhi furbi! Si muove vezzosa nonostante la disapprovazione delle matrone, si spunta le trecce e se le riaggiusta con l’aiuto di forcine preziose, si stringe la cintura gemmata, si slaccia, sfila e si rimette i sandali a scarpetta, ben serrati dalle fibbie in oro sul piedino, e intanto ha modo di mostrare le magnifiche chiome morate, le belle mani e le morbide braccia, la vita sottile, il petto e le anche ben modellati, il piedino perfetto, e tutti i monili che tintinnano e sfaccettano alle ultime luci del giorno e alle fiamme dei primi falò.

   223.4 Pietro e Tommaso tornano indietro. Tommaso dice: «È una bella fanciulla».
   «E una perfetta civetta. Sarà… ma il tuo amico Natanaele conoscerà presto che c’è chi gli tiene caldo il letto mentre lui tiene caldo l’oro per lavorarlo. E il suo amico è un perfetto sciocco. L’ha affidata bene la sposina!», termina Pietro sedendosi presso i compagni.
   «A me non è piaciuto quell’uomo che faceva parlare quell’altro sciocco là. Quando ha saputo tutto quanto voleva sapere, se ne è andato su per il monte… Sono posti brutti questi. E il tempo è quello buono per i colpi da malandrini. Notti di luna. Calore che spossa. Alberi pieni di fronde. Hum! non mi piace questo posto», brontola Bartolomeo. «Era meglio proseguire».
   «E quell’imbecille che ha raccontato tante ricchezze! E quell’altro che fa l’eroe e il guardiano alle ombre e non vede i corpi veri!… Ebbene, io veglierò ai fuochi. Chi viene con me?», dice Pietro.
   «Io, Simone», risponde lo Zelote. «Resisto bene al sonno».
   Molti del campo, specie i viaggiatori isolati, si sono alzati e se ne sono andati alla spicciolata. Restano dei pastori coi greggi, la comitiva degli sposi, quella apostolica e tre mercanti di agnelli che dormono già. Anche la sposina dorme con le matrone sotto una tenda che i servi hanno montato. Gli apostoli si cercano un posto, Gesù si isola in preghiera, i pastori fanno un gran fuoco al centro dello spiazzo in cui sono. Pietro e Simone ne fanno un altro presso il sentiero del greppo su cui si è imbucato l’uomo che ha dato sospetto a Bartolomeo.

   223.5 Passano le ore e chi non russa ciondola col capo. Gesù prega. Il silenzio è totale. Pare che taccia anche la fonte che splende alla luna, ormai alta nel cielo e illuminante alla perfezione lo spiazzo mentre le coste restano in ombra sotto al frascame fitto.
   Un grosso cane da pastore ringhia. Un mandriano alza il capo. Il cane si drizza e alza il pelo sulla schiena, puntandosi in atto di difesa e di ascolto. Trema persino mentre il ringhio sordo che gli bolle dentro si fa sempre più forte. Simone alza anche lui la testa e scuote Pietro che sonnecchia. Un fruscio cauto viene dal bosco.
   «Andiamo dal Maestro. Portiamolo con noi», dicono i due.
   E intanto il mandriano sveglia i compagni. Sono tutti in ascolto e senza fare rumore. Gesù pure si è alzato, prima ancora di essere chiamato, e va verso i due apostoli. Si riuniscono presso i compagni e perciò presso i pastori, il cui cane dà segni sempre più manifesti di agitazione.
   «Chiamate coloro che dormono. Tutti. Dite che vengano qui senza rumore, e specie le donne e i servi coi cofani. Dite che forse ci sono dei malandrini. Ma non alle donne. A tutti gli uomini».
   Gli apostoli si spargono ubbidendo al Maestro, che dice ai pastori: «Nutrite il fuoco, ben forte, che faccia fiamma molto viva».
   I pastori ubbidiscono e, poiché appaiono agitati, Gesù dice:
   «Non temete. Non vi sarà tolto un bioccolo di lana».
   Sopraggiungono i mercanti e sussurrano: «Oh! i nostri guadagni!», e aggiungono una litania di improperi ai governanti romani e giudei che non ripuliscono il mondo dai ladroni.
   «Non temete. Non perderete uno spicciolo», conforta Gesù.
   Giungono le donne piangenti, spaurite, perché il coraggioso paraninfo, fra i tremiti di una paura colossale, le terrorizza gemendo: «È la morte! La morte per mano dei predoni!».
   «Non temete. Non sarete sfiorate neppure con uno sguardo», conforta Gesù conducendo le donne al centro del piccolo popolo di uomini e bestie spaventate.
   Gli asini ragliano, il cane ulula, le pecore belano, le donne singhiozzano, gli uomini imprecano, o basiscono peggio delle donne, in una cacofonia data dallo spavento. Gesù è calmo come nulla fosse. Il fruscio nel bosco non si può più sentire in questo baccano. Ma che nel bosco ci siano dei malviventi che si avvicinano lo denunciano dei rami che si schiantano o delle pietre che rotolano.
   «Silenzio!», impone Gesù. E lo dice in un modo tale che il silenzio si fa.

   223.6 Gesù lascia il suo posto e va verso il bosco, al limite dello spiazzo. Volge le spalle al bosco e inizia a parlare.
   «La malvagia fame dell’oro travolge gli uomini in sentimenti abbietti. Per l’oro si svela l’uomo più che per altre cose. Guardate quanto male semina col suo affascinante e inutile splendore questo metallo. Io credo che del suo colore sia l’aria dell’Inferno, tanto esso è di natura infernale da quando l’uomo è peccatore.
   Il Creatore lo aveva lasciato nelle viscere di quell’enorme lapislazzuli che è la Terra, creatasi per suo volere, perché fosse utile all’uomo coi suoi sali e fosse di bellezza nei suoi templi.
   Ma Satana, baciando gli occhi di Eva e mordendo l’io dell’uomo, dette un sapore di maleficio al metallo innocente. E da allora per l’oro si uccide e si pecca. La donna per esso diviene civetta e facile al peccato carnale. L’uomo per esso diviene ladro, usurpatore, omicida, duro al suo prossimo e alla sua anima che egli spoglia della sua vera eredità per darsi una effimera cosa, all’anima alla quale egli depreda il tesoro eterno per darsi poche scaglie lucenti che alla morte vanno abbandonate.

   223.7 O voi, che per l’oro peccate più o meno leggermente, più o meno gravemente, e tanto più peccate e tanto più vi ridete di quanto vi è stato insegnato dalla madre e dai maestri, ossia che vi è un premio e un castigo per le azioni fatte durante l’esistenza, non riflettete dunque che per questo peccato voi perderete la protezione di Dio, la vita eterna, la gioia, e avrete rimorsi, maledizioni nel cuore, la paura a compagna, la paura delle punizioni umane, sempre un niente rispetto alla paura, che dovreste avere e non avete, alla santa paura delle punizioni divine? Non riflettete che potrete avere una fine tremenda per i vostri misfatti, se essi sono giunti al delitto; e una fine ancor più tremenda perché eterna, se i vostri misfatti per amore dell’oro non sono giunti allo spargimento di sangue ma hanno vilipeso la legge dell’amore e del rispetto al prossimo, negando soccorsi a chi ha fame per l’avarizia, rubando posti, o pesi, o denari, per ingordigia?
   No. Non ci pensate. Dite: “Tutto è fola! Io ho schiacciato queste fole sotto il peso del mio oro. E non vivono più”. Non sono fole. Sono verità. Non dite: “Ebbene, morto che io sia, tutto è finito”. No. Tutto incomincia. L’altra vita non è l’abisso senza pensiero e senza ricordo per il passato vissuto e senza aspirazione a Dio che voi credete sarà la sosta in attesa della liberazione del Redentore. L’altra vita è attesa beata per i giusti, attesa paziente per i penanti, attesa orrenda per i dannati. Per i primi nel Limbo, per i secondi nel Purgatorio, per gli ultimi nell’Inferno. E mentre ai primi l’attesa cesserà con l’entrata nei Cieli dietro al Redentore, nei secondi dopo quell’ora si farà più confortata di speranza, mentre per i terzi incupirà la sua tremenda certezza di maledizione eterna.
   Pensateci, voi che peccate. Non è mai tardi per ravvedersi. Mutate il verdetto, che si sta scrivendo nei Cieli per voi, con un vero pentimento. Lo sceol[115] sia per voi non inferno, ma penitente attesa, quella almeno, per il vostro volere. Non buio ma crepuscolo di luce. Non strazio ma nostalgia. Non disperazione ma speranza.

   223.8 Andate. Non cercate lottare con Dio. Egli è il Forte e il Buono. Non vilipendete il nome dei vostri parenti. Udite come quella fonte ha gemito, un gemito simile a quello che spezza il cuore alle vostre madri sapendovi assassini. Udite come mugola il vento nella gola. Pare che minacci e maledica. Come vi maledice il padre per la vita che conducete. Udite come ulula il rimorso nei vostri cuori. Perché volete soffrire mentre potreste essere serenamente paghi col poco sulla Terra e col tutto in Cielo? Date pace al vostro spirito! Date pace agli uomini che temono, che devono temere di voi come di altrettante belve! Datevi pace, poveri sciagurati! Alzate lo sguardo al Cielo, staccate la bocca dal velenoso cibo, purificatevi le mani che grondano di sangue fraterno, purificatevi il cuore.
   Io ho fede in voi. Per questo vi parlo. Perché, se tutto il mondo vi odia e vi teme, Io non vi odio e non vi temo. Ma solo vi tendo la mano per dirvi: “Sorgete. Venite. Tornate mansueti fra gli uomini, uomini fra gli uomini”. Tanto poco vi temo che ora dico a questi tutti: “Tornate al riposo. Senza rancore per i poveri fratelli. Pregate per loro. Io resto qui a guardarli con occhi di amore e vi giuro che nulla accadrà più. Perché l’amore disarma i violenti e sazia gli avidi. Sia benedetto l’Amore, forza vera del mondo. Forza sconosciuta e potente. Forza che è Dio”».
   E volgendosi a tutti: «Andate, andate. Non temete. Là non sono più dei malfattori. Ma uomini sbigottiti e uomini che piangono. Chi piange non fa male. Volesse Iddio che così, come ora, essi rimanessero. Sarebbe la loro redenzione».

[115] sceol (o sheol), parola che si ritrova in altri punti (ad esempio in 357.11), era il nome che si dava al regno dei morti (chiamato anche ade, ìnferi, limbo, seno di Abramo) nel quale sostavano sia i giusti che i peccatori, essendo a tutti preclusa, prima della redenzione, la visione di Dio. Era comunque un limbo, cioè un luogo indefinito, provvisorio, di “attesa”: attesa beata per i giusti (che il Redentore avrebbe introdotto nell’eterno Paradiso), attesa paziente per i penanti (bisognosi di purificazione nel Purgatorio, anch’esso transitorio, di cui trattiamo in due note: al testo di 272.4 e a quello di 444.2), attesa orrenda per i dannati (destinati all’eterno Inferno). La definizione di seno di Abramo ben si adatta alla condizione di beata attesa dei giusti d’Israele. In armonia con la dottrina cattolica, l’opera afferma che Gesù, prima di risorgere da morte, discese agli ìnferi proprio per liberare quei “giusti” del popolo eletto che lo avevano preceduto come potenziali cristiani, cioè credendo e sperando nel Cristo che doveva venire. In più l’opera afferma che per tutti gli altri “giusti” (i non cristiani di buona volontà, o almeno privi di mala volontà) l’attesa nel limbo durerà fino alla fine del mondo, quando anche questi “giusti” conseguiranno la beatitudine eterna, poiché – come è detto in 444.6 – delle quattro dimore dei trapassati (limbo, purgatorio, inferno, paradiso) due sole sussisteranno, ossia il Paradiso e l’Inferno. Dei regni dell’aldilà si parla anche in: 191.6 - 239.6/7 - 272.4 - 300.4 - 356.4 - 377.4 - 385.6 - 406.10 424.2 - 456.5 - 491.3 - 534.4 - 550.4 - 575.13 - 596.50 - 618.4 - 630.7 - 634.7.