MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 161



CLXI. Guarigione del nipote del fariseo Eli di Cafarnao.

   11 maggio 1945.

   161.1 Gesù sta per giungere con la barca a Cafarnao. La giornata sta per volgere al tramonto e il lago è tutto un brillio giallo rosso.
   Mentre le due barche fanno le manovre per accostare, Giovanni dice: «Ora vado subito alla fonte e ti prendo l’acqua per la tua sete».
   «È buona l’acqua qui», esclama Andrea.
   «Sì, è buona. E più buona ancora me la fa il vostro amore».
   «Io porterò a casa il pesce. Le donne lo prepareranno per la cena. Dopo ci parli, a noi e a loro?».
   «Sì, Pietro».
   «È più bello ora tornare a casa. Prima sembravamo tanti nomadi. Ma ora, con le donne, c’è più ordine, più amore. E poi! Vedere tua Madre mi fa passare subito la stanchezza. Non so…».
   Gesù sorride e tace.
   La barca sfrega sul greto. Giovanni e Andrea, che sono con le sottovesti corte, saltano nell’acqua e con l’aiuto dei garzoni tirano a riva la barca, mettono l’asse per far da pontile. Gesù scende per primo e aspetta che anche la seconda barca sia a riva per unirsi con tutti i suoi. Poi, a passi lenti, vanno verso la fonte. Una fonte naturale, una sorgiva che sgorga un poco fuori del paese ricadendo nel bacino di pietra, fresca, abbondante, argentea. Invita a berla, quell’acqua, tanto è limpida. Giovanni, che è corso avanti con l’anfora, ne torna già e porge la brocca gocciolante a Gesù, che beve a lungo.
   «Quanta sete avevi, Maestro mio! E io, stolto, non mi ero procurato acqua».
   «Non fa nulla, Giovanni. Ora tutto è passato», e lo carezza.

   161.2 Stanno per tornare indietro quando vedono arrivare, con tutta la velocità di cui è capace, Simon Pietro, che era andato in casa a portare il suo pesce. «Maestro! Maestro!», grida col fiato mozzo. «C’è il paese a subbuglio perché l’unico nipote di Eli fariseo sta per morire per il morso di una serpe. Era andato proprio con il vecchio, e contro volontà della madre, nel loro uliveto. Eli sorvegliava dei lavori, il bambino giocava presso le radici di un vecchio ulivo. Ha messo la mano in un buco sperando trovare qualche lucertola e ha trovato il serpe. Il vecchio pare pazzo. La madre del bambino, che fra parentesi odia il suocero e ne ha ragione, lo accusa di essere un assassino. Il bambino diviene freddo di attimo in attimo. Fra parenti non si sono amati! E sì che più parenti di così!».
   «Brutta cosa gli asti in famiglia!».
   «Ma, Maestro, io dico che le serpi non hanno amato il serpente: Eli. E gli hanno ammazzato la serpicina. Mi spiace che mi ha visto e mi ha urlato dietro: “C’è il Maestro?”, e mi spiace per il piccolo. Era un bel bambino e non ne ha colpa se è nipote di un fariseo».
   «Sì. Non ne ha colpa…».

   161.3 Camminano verso il paese e vedono venire verso loro un mucchio di gente urlante e piangente alla testa del quale è il vecchio Eli.
   «Ci ha trovati! Torniamo indietro!».
   «Ma perché? Quel vecchio soffre».
   «Quel vecchio ti odia, ricordatelo. Uno dei più accaniti e primi accusatori tuoi presso il Tempio».
   «Ricordo di essere la Misericordia».
   Il vecchio Eli, spettinato, stravolto, con le vesti in disordine, corre verso Gesù a braccia tese e crolla ai suoi piedi urlando:
   «Pietà! Pietà! Perdono! Non ti vendicare sull’innocente della mia durezza. Tu solo puoi salvarlo! Dio, tuo Padre, qui ti ha condotto. Io credo in Te! Io ti venero! Ti amo! Perdono! Sono stato ingiusto! Menzognero! Ma sono punito. Queste ore sole valgono punizione. Aiuto! È il maschio! L’unico figlio del mio maschio morto. Ed ella mi accusa di averlo ucciso», e piange battendo il capo per terra ritmicamente.
   «Ma su! Non piangere così. Vuoi tu morire senza più occuparti di crescere il nipote?».
   «Muore! Muore! Forse è già morto. Fammi morire anche me. Ma non vivere in quella casa vuota! Oh! miei tristi, ultimi giorni!».
   «Eli, alzati e andiamo…».
   «Tu… vieni proprio? Ma sai chi sono io?».
   «Un disgraziato. Andiamo».
   Il vecchio si alza e dice: «Vado avanti, ma Tu corri, corri, fa’ presto!». E va via, veloce per la disperazione che lo pungola nel cuore.
   «Ma, Signore, credi che lo muterai con questo? Oh! che miracolo sprecato! Ma lasciala morire quella serpicina! Morirà anche il vecchio di crepacuore e… ce ne avrai uno di meno sulla tua strada. Ci ha pensato Dio a…».
   «Ma Simone! In verità ora la serpe sei tu». Gesù respinge severamente Pietro, che resta a capo chino, e va avanti.

   161.4 Presso la piazza più grande di Cafarnao è una bella casa davanti alla quale è folla che fa baccano… Gesù a quella si dirige e sta per arrivarvi quando dalla porta spalancata esce il vecchio, seguito da una donna scarmigliata che stringe fra le braccia un esserino agonizzante. Il veleno paralizza già gli organi e la morte è prossima. La manina ferita pende col segno del morso alla radice del pollice. Eli non fa che gridare: «Gesù! Gesù!».
   E Gesù, pigiato, sopraffatto dalla folla che quasi gli impedisce ogni atto, prende la manina e se la porta alla bocca, sugge la ferita, poi alita sul visetto cereo dagli occhi socchiusi e vitrei. Poi si raddrizza: «Ecco», dice, «ora il bambino si sveglia. Non lo spaventate con tutti quei volti stravolti. Avrà già paura per il ricordo del serpe».
   Infatti il piccolo, il cui volto si colora di rosa, apre la bocca ad un lungo sbadiglio, si sfrega gli occhietti, poi li apre e resta stupito di essere fra tanta gente, poi ricorda e fa per fuggire con un balzo così repentino che cadrebbe se Gesù non fosse pronto a riceverlo fra le braccia.
   «Buono, buono! Di che hai paura? Guarda che bel sole! Là è il lago, là la tua casa, qui la mamma e il nonno».
   «E la serpe?».
   «Non c’è più. Ci sono Io».
   «Tu. Sì…». Il bambino pensa… poi, voce della verità innocente, dice: «Mi diceva il nonno di dirti “maledetto”. Ma io non lo dico. Ti voglio bene, io».
   «Io? Io ho detto questo? Il piccolo delira. Non ci credere, Maestro. Io ti ho sempre rispettato». La paura che sta passando fa già riaffiorare l’antica natura.
   «Le parole hanno e non hanno valore. Le prendo per quello che valgono. Addio piccino, addio donna, addio Eli. Vogliatevi bene e vogliatemi bene, se potete». Gesù volge le spalle e va verso la casa dove abita.

   161.5 «Perché, Maestro, non hai fatto un miracolo strepitoso?
   Dovevi dare comando al veleno di lasciare il piccolo. Mostrarti Dio dovevi. Invece hai succhiato il veleno come un povero uomo qualunque». Giuda di Keriot è poco contento. Voleva qualcosa di strepitoso.
   Anche altri sono dello stesso parere: «Schiacciarlo dovevi, quel nemico, con la tua potenza. Hai sentito, eh! Subito ha rimesso veleno…».
   «Non importa del veleno. Ma considerate che, se avessi fatto come voi volevate facessi, egli avrebbe detto che ero aiutato da Belzebù. Nella sua anima rovinata può ancora ammettersi la mia potenza di medico. Non oltre. Il miracolo porta alla fede coloro che già sono per quella via. Ma nei senza umiltà – la fede prova sempre che esiste in un’anima umiltà – porta ad una bestemmia. Meglio perciò evitare questo pericolo con il ricorrere a forme di apparenza umana. È la miseria degli increduli, l’inguaribile miseria. Nessuna moneta la elimina, perché nessun miracolo li porta a credere, né ad essere buoni. Non importa. Io il mio compito. Essi la loro mala sorte».
   «Ma perché lo hai fatto, allora?».
   «Perché sono la Bontà e perché non si possa dire che sono stato vendicativo coi nemici e provocatore presso i provocatori. Accumulo carboni sul loro capo. E loro me li porgono perché Io li accumuli. Sta’ buono, Giuda di Simone. Tu cerca di non fare come loro. E basta. Andiamo dalla Madre mia. Sarà contenta di sapere che ho guarito un piccino».