MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 162



CLXII. Le conversioni umane del fariseo Eli e di Simone d'Alfeo.

   13 maggio 1945.

   162.1 Da un’ortaglia, che comincia ad essere florida in tutti i suoi solchi, Gesù penetra in una cucina vastissima dove le due Marie anziane (Maria Cleofe e Maria Salome) cucinano preparando la cena.
   «La pace a voi!».
   «Oh! Gesù! Maestro!». Le due donne si volgono e lo salutano, una con un bel pesce che sta sventrando fra le mani, l’altra tenendo ancora il paiolo, colmo di erbe che si lessano, che aveva staccato dal suo uncino per vedere a che punto era la cottura. I loro visi buoni e appassiti, accaldati dalla fiamma e dal lavoro, sorridono di gioia e sembrano farsi più giovani e belli nella loro felicità.
   «A momenti è pronto, Gesù. Sei stanco? Avrai fame», dice la zia Maria, che ha confidenza di parente e che ama Gesù credo più dei suoi stessi figli.
   «Non più del solito. Ma mangerò certo con piacere i buoni cibi che tu e Maria mi avete preparato. E anche gli altri lo faranno. Eccoli che vengono».
   «La Mamma è nella stanza alta. Sai!… È venuto Simone… Oh! sono contenta del tutto questa sera! No. Non del tutto perché… Tu lo sai quando sarei contenta del tutto».
   «Sì, lo so». Gesù si attira vicino la zia e la bacia in fronte e poi dice: «So il tuo desiderio e la tua invidia senza peccato verso Salome. Ma verrà il giorno che come lei potrai dire: “Tutti i miei figli sono di Gesù”.

   162.2 Vado dalla Mamma».
   Esce e sale la scaletta esterna entrando sul terrazzo soprastante la casa per una buona metà, mentre l’altra metà è occupata da un vasto stanzone da cui escono grosse voci di uomo e a intervalli la dolce voce di Maria, la limpida voce verginale di fanciulla che gli anni non hanno incrinata, la stessa voce che disse: «Ecco l’Ancella di Dio» e che cantava la ninna nanna al suo Bambino.
   Gesù si avvicina senza far rumore, sorridendo perché sente la Mamma che dice: «La mia dimora è mio Figlio. E non sento dolore per essere via da Nazaret altro che quando Egli è lontano. Ma se mi è vicino… oh! nulla più mi manca. E poi non temo della mia casa. Ci siete voi…».
   «Oh! ma guarda là Gesù!», grida Alfeo di Sara che, avendo il volto verso la porta, vi vede per primo apparire Gesù.
   «Sono qui, sì. La pace a voi tutti. Mamma!». Bacia sua Madre sulla fronte e ne è baciato. Poi si volge agli ospiti inattesi, che sono il cugino Simone, Alfeo di Sara, il pastore Isacco e quel Giuseppe che era stato raccolto da Gesù ad Emmaus[1] dopo il verdetto del Sinedrio.
   «Eravamo andati a Nazaret e Alfeo ci ha detto che bisognava venire qui. Siamo venuti. E Alfeo ci ha voluto accompagnare, e anche Simone», spiega Isacco.
   «Non mi è parso vero di venire», dice Alfeo.
   «E anche io ti volevo salutare, stare un poco con Te e con Maria», termina Simone.
   «Ed Io sono molto contento di stare con voi. Ho fatto bene a non rimanere oltre, come volevano gli abitanti di Chedech, dove ero giunto venendo da Gherghesa a Meron e girando poi per l’altra parte».
   «Di là vieni?!».
   «Sì. Mi sono fatto vedere nei posti dove già ero stato e anche oltre. Fino a Giscala sono andato».
   «Quanto cammino!».
   «Ma quanta raccolta! Sai, Isacco? Siamo stati ospiti di rabbi Gamaliele. Fu molto buono. E poi ho incontrato il sinagogo dell’Acqua Speciosa. Viene anche lui. Te lo affido. E poi… e poi… ho acquistato tre discepoli…». Gesù sorride apertamente, beato.
   «Chi sono?».
   «Un vecchietto a Corazim. L’ho beneficato un tempo, e il poveretto, che è un vero israelita senza prevenzioni, per mostrarmi il suo amore mi ha lavorato la zona come un perfetto aratore il suolo. L’altro è un bambino, cinque anni, poco più. Intelligente, ardito. Anche a lui avevo parlato la prima volta che fui a Betsaida e se ne è ricordato meglio dei grandi. Il terzo è un antico lebbroso. L’ho guarito presso Corazim una sera ormai lontana e poi l’ho lasciato. Ora lo ritrovo, mio annunziatore sui monti di Neftali. E, a conferma delle sue parole, egli alza i resti delle sue mani guarite ma menomate di parti e mostra i suoi piedi guariti ma deformi, con cui pure fa tanta strada. La gente capisce quanto era malato da quanto resta di lui e crede alle sue parole condite di lacrime di riconoscenza. Mi è stato facile parlare là, perché c’era chi mi aveva già fatto conoscere e portato gli altri a credere in Me. E ho potuto fare molti miracoli. Tanto può uno che crede realmente…».
   Alfeo assente senza parlare, continuamente assente col capo, mentre Simone curva la testa sotto il sottinteso rimprovero e Isacco giubila apertamente della gioia del suo Maestro, che sta per raccontare del miracolo operato poco prima sul piccolo di Eli.

   162.3 Ma la cena è pronta e le donne, insieme a Maria, preparano la tavola nello stanzone e portano le pietanze, ritirandosi poi abbasso. Restano solo gli uomini e Gesù offre, benedice e distribuisce le parti.
   Ma pochi bocconi sono consumati quando sale Susanna dicendo: «È venuto Eli con dei servi e molti doni. Ma vorrebbe parlare con Te».
   «Vengo subito, o meglio, fallo salire».
   Susanna va e torna poco dopo col vecchio Eli accompagnato da due servi che portano un grande cesto. Dietro, le donne, meno Maria Ss., occhieggiano curiose.
   «Dio sia con Te, mio benefattore», saluta il fariseo.
   «E con te, Eli. Entra. Che vuoi? Ancora non sta bene il nipote?».
   «Oh! benissimo. Salta nell’orto come un capretto. Ma prima ero così sbalordito, così confuso che ho mancato al mio dovere. Ti voglio mostrare la mia gratitudine e ti prego di non rifiutare l’inezia che ti offro. Un poco di cibo per Te e i tuoi. Sono prodotti delle mie campagne. E poi… vorrei… vorrei averti domani alla mensa. Per dirti ancora grazie e farti onore, fra amici. Non ricusare, Maestro. Comprenderei che non mi ami e che, se hai guarito Eliseo, è solo per amore di lui, non di me».
   «Io ti ringrazio. Ma non occorrevano doni».
   «Ogni grande ed ogni dotto li accetta. È uso».
   «Io pure.

   162.4 Ma Io accetto molto volentieri un dono solo, quello anzi lo cerco».
   «Ed è? Dillo. Se posso te lo darò».
   «Il vostro cuore. Il vostro pensiero. Datemelo. Per vostro bene».
   «Ma io te lo consacro, Gesù benedetto! Ma lo puoi dubitare?
   Io ho avuto… sì… ho avuto dei torti verso di Te. Ma ora ho compreso. Ho anche saputo della morte di Doras che ti ha offeso… Perché sorridi, Maestro?».
   «Seguivo un ricordo».
   «Credevo avessi dell’incredulità circa il mio dire».
   «Oh! no. So che ti ha commosso la morte di Doras. Più ancora del miracolo di questa sera. Ma non temere Dio, se realmente hai compreso e se realmente vuoi d’ora in avanti essermi amico».
   «Vedo che sei realmente profeta. Io, è vero, temevo più… venivo più a Te per paura di un castigo uguale a quello di Doras – e questa sera ho detto: “Ecco. Il castigo è venuto. E ancora più atroce perché non ha colpito la vecchia quercia nel suo proprio vivere, ma nel suo affetto, nella sua gioia di vivere, fulminandomi il querciolo di cui mi beavo” – che non per la sciagura. Avevo capito che sarebbe stato giusto come per Doras…».
   «Avevi capito che sarebbe stato giusto. Ma ancora non credevi in chi è buono».
   «Hai ragione. Ma ora non più. Ho capito.

   162.5 Ci vieni allora in casa mia, domani?».
   «Eli, Io avevo deciso partire all’aurora. Ma perché tu non possa pensare che Io ti sprezzo, rimando di un giorno. Domani sarò da te».
   «Oh! Sei proprio buono. Lo ricorderò sempre».
   «Addio, Eli. Grazie di tutto. Queste frutta sono bellissime, e burrose devono essere queste formaggelle, certo ottimo il vino. Ma potevi dare tutto ai poveri in mio nome».
   «C’è anche per essi, se vuoi, in fondo, sotto a tutto. Era l’offerta per Te».
   «Questo allora lo distribuiremo domani insieme, dopo o prima del convito, a tuo piacere. La notte ti sia placida, Eli».
   «E a Te. Addio», e se ne va coi servi.
   Pietro, che ha estratto, con tutta una mimica sul volto, quanto conteneva la cesta, per renderla ai servi, mette la borsa sul tavolo davanti a Gesù e dice, come finendo un interno discorso: «E sarà la prima volta che quel vecchio gufo fa elemosina».
   «È vero», conferma Matteo. «Io ero esoso, ma lui mi superava. Ha raddoppiato il suo con lo strozzinaggio».
   «Ebbene… se si ravvede… È una bella cosa, non è vero?», dice Isacco.
   «È una bella cosa certo. E pare che proprio così sia», annuiscono Filippo e Bartolomeo.
   «Il vecchio Eli convertito! Ah! Ah!». Pietro ride di gusto.

   162.6 Il cugino Simone, che è stato sempre pensieroso, dice: «Gesù, io vorrei… io vorrei seguirti. Non come questi. Ma almeno come le donne. Lascia che io mi unisca a mia madre e alla tua. Tutti vengono… io, io parente… Non pretendo di avere un posto fra questi. Ma almeno così, come buon amico…».
   «Dio ti benedica, figlio mio! Quanto era che attendevo questa parola da te!», grida Maria d’Alfeo.
   «Vieni. Io non respingo nessuno e non forzo nessuno. Non esigo neppure tutto da tutti. Prendo quanto mi potete dare. Le donne è bene che non siano sempre sole, quando andremo in regioni a loro sconosciute. Grazie, fratello».
   «Lo vado a dire a Maria», dice la madre di Simone e termina: «Essa è giù nella sua cameretta, e prega. Ne sarà ben felice»…

   162.7 …La sera scende rapida. Si accende una lucerna per scendere per la scala ormai buia nel crepuscolo, e chi va a destra, chi a sinistra per riposare.
   Gesù esce, va sulla riva del lago. Il paese è tutto quieto, deserte le vie, deserta la riva, spopolato il lago in questa sera senza luna. Solo stelle in cielo e parlottio di risacca sul greto. Gesù entra nella barca tratta a riva, si siede, mette un braccio sul bordo e su esso china il capo e sta così. Se pensi o preghi non so.
   Lo raggiunge molto cautamente Matteo: «Maestro, dormi?», chiede piano.
   «No, penso. Vieni qui con Me, posto che non dormi».
   «Mi sei parso turbato e ti ho seguito. Non sei contento della tua giornata? Hai toccato il cuore di Eli, hai acquistato come discepolo Simone d’Alfeo…».
   «Matteo, tu non sei un semplice come Pietro e Giovanni. Astuto sei, e sei istruito. Sii anche schietto. Saresti tu felice per queste conquiste?».
   «Ma… Maestro… Loro sono sempre migliori di me, e Tu mi hai detto, quel giorno, che eri molto felice perché io mi ero convertito…».
   «Sì. Ma tu eri realmente convertito. Ed eri schietto nella tua evoluzione al Bene. Venivi a Me senza tutto un lavoro di pensiero, venivi per volontà di spirito. Non così Eli… e neppure Simone. Il primo non è che toccato alla superficie: l’uomo-Eli è scosso. Non lo spirito-Eli. Quello è sempre uguale. Caduta l’effervescenza che il miracolo di Doras e del nipotino ha prodotto in lui, sarà l’Eli di ieri e di sempre. Simone!… Simone, lui pure non è ancora altro che un uomo. Se mi avesse visto insolentito, invece che celebrato, mi avrebbe compatito e mi avrebbe, come sempre, lasciato. Questa sera ha sentito che un vecchietto, che un bambino, che un lebbroso sanno fare ciò che egli, parente, non sa fare; ha visto che l’orgoglio di un fariseo si è curvato davanti a Me, e ha deciso: “Io pure”. Ma non sono queste conversioni, sotto pungolo di considerazioni umane, quelle che mi fanno felice. Mi avviliscono anzi.

   162.8 Resta con Me, Matteo. In cielo non vi è luna, ma almeno brillano le stelle. Nel mio cuore questa sera non ci sono che lacrime. La tua compagnia sia la stella dell’afflitto Maestro tuo…».
   «Ma, Maestro, se posso… figurati! È che io sono un grande infelice sempre, un povero inetto. Ho troppo peccato per poterti piacere. Non so parlare. Non so ancora parlare le parole nuove, pure, sante, ora che ho lasciato il mio antico linguaggio di frode e lussuria. E temo che non sarò mai capace di parlare con Te e di Te».
   «No, Matteo. Tu sei l’uomo, con tutta la tua penosa esperienza d’uomo. Sei perciò quello che, per aver mangiato il fango ed ora per mangiare il miele celeste, puoi dire i due sapori e dare, di essi, la vera analisi, e capire, capire, e far capire ai tuoi simili di ora e di poi. E ti crederanno, perché appunto tu sei l’uomo, il povero uomo che, per sua volontà, diviene l’uomo, il giusto uomo sognato da Dio. Lascia che Io, l’Uomo-Dio, mi appoggi a te, umanità che amo fino a lasciare il Cielo per te ed a morire per te».
   «No, morire no. Non dirmi che per me muori!».
   «Non per te, Matteo, ma per tutti i Mattei della Terra e dei secoli. Abbracciami, Matteo, bacia il tuo Cristo, per te, per tutti. Solleva la mia stanchezza di Redentore incompreso. Io ti ho sollevato dalla tua di peccatore. Asciuga il mio pianto… perché di essere da così pochi capito, Matteo, è la mia amarezza».
   «Oh! Signore, Signore! Sì! Sì!…»; e Matteo, seduto presso il Maestro che cinge con un braccio, lo consola col suo amore…