MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 167



CLXVII. L'incontro con le romane nel giardino di Giovanna di Cusa.

   19 maggio 1945.

   167.1 Gesù, con l’aiuto di un barcaiolo che lo ha accolto nella sua barchetta, sbarca sul pontile del giardino di Cusa. Già lo ha visto un giardiniere ed accorre ad aprirgli il cancello che intercetta agli estranei l’entrata nella proprietà dalla parte del lago, un alto e forte cancello che però si nasconde in una siepe foltissima e alta di lauri e bossi dalla parte esterna, verso il lago, e di rose di ogni colore dalla parte interna, verso la casa. Gli splendidi rosai infiorano le fronde bronzee dei lauri e dei bossi, si insinuano fra le ramaglie, fanno capolino dall’altro lato, oppure sormontano del tutto la verde barriera e fanno cadere le loro chiome fiorite al di là. Solo ad un punto, all’altezza di un viale, il cancello si mostra nudo, ed è lì che si apre per dare passaggio a chi viene dal lago e a chi va al lago.
   «La pace a questa casa e a te, Joanna. Dove è la tua padrona?».
   «Là con le sue amiche. Ora la chiamo. Ti attendono da tre giorni per paura di giungere in ritardo».
   Gesù sorride. Il servo va di corsa a chiamare Giovanna. Intanto Gesù cammina lentamente verso il luogo accennato dal servo, ammirando lo splendido giardino, si potrebbe dire lo splendido roseto, che Cusa ha fatto costruire per la moglie. Rose di tutti i colori, grandezze e forme, in questo seno riparato di lago, ridono già, precoci e splendide. Vi sono anche altre piante da fiore. Ma sono ancora senza fioritura e la loro presenza è minima di fronte alla quantità dei roseti.

   167.2 Accorre Giovanna. Non ha neppure posato un cestello pieno a metà di rose, né le forbici che aveva per coglierle, e corre così, a braccia tese, snella e gentile nella ricca veste di sottile lana di un rosa tenuissimo, le cui increspature sono tenute in sesto da borchie e fibbie di filigrana d’argento su cui splendono pallide granate. Sui capelli neri e ondulati, un diadema a foggia di mitra, pure in argento e granate, trattiene un velo di bisso leggerissimo, tinto pure in rosa, che ricade all’indietro, lasciando scoperte le piccole orecchie appesantite da orecchini simili al diadema e il volto ridente, il collo sottile sulla cui radice brilla una collana uguale nel lavoro al resto degli ornamenti preziosi.
   Lascia cadere il suo cesto davanti ai piedi di Gesù e si inginocchia a baciargli la veste, fra le rose sparse.
   «Pace a te, Giovanna. Sono venuto».
   «Ed io sono felice. Esse pure sono venute. Oh! ora mi pare di avere fatto male a fare questo! Come farete ad intendervi? Sono affatto pagane!». Giovanna è un poco agitata.
   Gesù sorride, le pone la mano sul capo: «Non avere paura. Ci intenderemo benissimo. E tu hai fatto benissimo a “fare questo”. L’incontro sarà fiorito di bene come il tuo giardino di rose. Raccogli ora queste povere rose che hai lasciato cadere e andiamo dalle tue amiche».
   «Oh! di rose ce ne sono tante! Lo facevo per passare il tempo, e poi le amiche sono così… così… voluttuose… Amano i fiori come fossero… non so…».
   «Ma li amo Io pure! Vedi che abbiamo già trovato un argomento per intenderci fra Me e loro? Su! Raccogliamo queste splendide rose…», e Gesù si china per dare l’esempio.
   «Non Tu! Non Tu, Signore! Se proprio vuoi, ecco… è fatto».

   167.3 Camminano fino ad un chiosco che è fatto di un intreccio multicolore di rose. Dalla soglia occhieggiano tre romane: Plautina, Valeria e Lidia. La prima e l’ultima stanno in sospeso, ma Valeria corre fuori e si inchina dicendo: «Salve, Salvatore della mia piccola Fausta!».
   «Pace e luce a te e alle tue amiche».
   Le amiche si inchinano senza parlare.
   Plautina la conosciamo di già. Alta, imponente, dagli splendidi occhi neri, un poco imperiosi, sotto la fronte liscia e bianchissima, naso diritto, perfetto, bocca un poco tumida ma ben fatta, mento rotondetto e marcato, mi ricorda certe bellissime statue di imperatrici romane. Pesanti anelli splendono sulle bellissime mani e larghi bracciali d’oro fasciano le braccia, veramente statuarie, al polso e oltre il gomito, che appare di un bianco rosato, liscio e perfetto, fuori dalla corta manica drappeggiata.
   Lidia invece è bionda, più sottile e più giovane. La sua non è la bellezza imponente di Plautina, ma ha tutta la grazia di una gioventù femminea ancora un poco acerba. E posto che siamo in tema pagano potrei dire che, se Plautina pare la statua di una imperatrice, Lidia potrebbe essere una Diana o una Ninfa di gentile e pudico aspetto.
   Valeria, ora che non è nella disperazione di quando la vedemmo a Cesarea, appare nella sua bellezza di giovane madre, dalle forme piene ma ancora molto giovanili, dall’occhio quieto della madre felice di nutrire e vedere crescere del suo latte il suo nato. Rosea e castana, ha un sorriso pacato ma tanto dolce.
   Ho l’impressione che siano dame di grado inferiore a Plautina, che anche con lo sguardo esse venerano come una regina.

   167.4 «Vi occupavate di fiori? Continuate, continuate. Potremo parlare anche mentre cogliete queste splendide opere del Creatore che sono i fiori e mentre le disponete con l’abilità di cui Roma è maestra in queste coppe preziose, per allungarne la vita, ahimè! troppo breve… Se noi ammiriamo questo boccio, che appena apre il riso dei suoi petali giallo rosa, come non possiamo rimpiangere di vederlo morire? Ma, oh! come sarebbero stupiti gli ebrei di sentirmi dire questa cosa! Ma è perché anche nella creatura floreale noi sentiamo un che, che ha vita. E di vederne la fine ci duole. Però la pianta è più saggia di noi. Sa che su ogni ferita di stelo tagliato nasce un nuovo virgulto che sarà la nuova rosa. Ed ecco allora che la nostra mente deve cogliere l’insegnamento e farsi, dell’amore un poco sensuale per il fiore, uno sprone a pensiero più alto».
   «Quale, Maestro?», interroga Plautina che ascolta attenta e sedotta dal pensiero elegante del Maestro ebreo.
   «Questo. Che come la pianta non muore finché la sua radice è nutrita dal suolo, non muore per morire di steli, così l’umanità non muore per chiudersi al vivere terreno di un essere. Ma sempre nuovi fiori rampolla. E – pensiero ancor più alto, atto a farci benedire il Creatore – e mentre il fiore, morto che sia, più non rivive, e ciò è tristezza, l’uomo, addormentato che sia nel sonno ultimo, non è morto, ma vivo di una più fulgida vita, traendo con la sua parte migliore eterna vita e splendore dal Creatore che lo ha formato.

   167.5 Per questo, Valeria, se la tua bambina fosse morta tu non avresti perduto la sua carezza. Sulla tua anima sarebbe sempre venuto il bacio della tua creatura, separata ma non dimentica del tuo amore. Vedi come è dolce avere una fede nella vita eterna? Dove è ora la tua piccina?».
   «In quella cuna coperta. Non me ne ero mai separata avanti, perché l’amore per il marito e per la figlia erano i due scopi della mia vita. Ma ora che so cosa è vederla morire, non la lascio neppure per un attimo».
   Gesù si dirige ad un sedile su cui è posata una specie di cunella di legno, tutta coperta da una ricca coltre. La scopre e guarda la piccina dormiente che l’aria più viva sveglia dolcemente. I suoi occhietti si aprono stupiti e un sorriso d’angelo schiude la bocchina mentre le manine, prima chiuse a pugnello, si aprono avide di afferrare gli ondeggianti capelli di Gesù, mentre un cinguettio di passerotto segna il procedere di un discorso nel suo pensiero. Infine trilla la grande, universale parola: «Mamma!».
   «Prendila, prendila», dice Gesù che si scosta per lasciare che Valeria si curvi sulla cuna.
   «Ma ti darà noia!… Ora chiamerò una schiava e la farò portare per il giardino».
   «Noia? Oh! no! Mai noia i bambini. Sono sempre miei amici».
   «Hai figli o nipoti, Maestro?», chiede Plautina che osserva con che sorrisi Gesù stuzzica la piccola per farla ridere.
   «Non ho né figli né nipoti. Ma amo i bambini come amo i fiori. Perché sono puri e senza malizia. Anzi, dàmmi, o donna, la tua piccina. Stringermi al cuore un piccolo angelo mi è tanto dolce». E si siede con la piccolina, che l’osserva e che gli spettina la barba e poi trova da fare meglio con le frange del mantello e il cordone della veste, ai quali dedica un lungo e misterioso discorso.

   167.6 Plautina dice: «La nostra amica buona e saggia, una delle poche che non si sdegni di noi e non si corrompa con noi, ti avrà detto che abbiamo avuto desiderio di vederti ed udirti per giudicarti per quello che sei. Perché Roma non crede alle fole… Perché sorridi, Maestro?».
   «Dopo te lo dirò. Prosegui».
   «Perché Roma non crede alle fole e vuole giudicare con scienza e coscienza prima di condannare e di esaltare. Il tuo popolo ti esalta e ti calunnia con uguale misura. Le tue opere porterebbero a farti esaltare. Le parole di molti ebrei a crederti poco meno di un delinquente. Le tue parole sono solenni e sagge come quelle di un filosofo. Roma ha molto amore alle dottrine filosofiche e… devo dirlo, i nostri filosofi attuali non hanno una dottrina che soddisfi, anche perché non corrisponde ad essa la loro forma di vita».
   «Non possono avere una forma di vita corrispondente alla loro dottrina».
   «Perché sono pagani, non è vero?».
   «No. Perché sono atei».
   «Atei? Hanno i loro dèi».
   «Non hanno più neppure quelli, donna. Io ti ricordo gli antichi filosofi, i più grandi. Erano pagani essi pure, ma ciononostante guarda che elevatezza di vita fu la loro! Mescolata all’errore, perché l’uomo è portato ad errare. Ma quando furono davanti ai misteri più grandi: la vita e la morte; ma quando furono messi davanti al dilemma dell’onestà o della disonestà, della virtù o del vizio, della eroicità o della vigliaccheria, e pensarono che dal loro volgere al male sarebbe venuto male alla patria e ai cittadini, ecco allora che con volontà gigante gettarono lungi da loro le branche dei mali polipi, e liberi e santi seppero volere il Bene, a qualunque costo. Questo Bene che altri non è che Dio».

   167.7 «Tu sei Dio, si dice. È vero?».
   «Io sono il Figlio del Dio vero, fatto Carne restando Dio».
   «Ma che è Dio? Il più grande dei maestri, se guardiamo Te».
   «Dio è ben più di un maestro. Non avvilite l’idea sublime della Divinità ad una limitazione di sapienza».
   «La sapienza è una deità. Noi abbiamo Minerva. È la dea del sapere».
   «Avete anche Venere, dea del piacere. Potete ammettere che un dio, ossia uno superiore ai mortali, abbia, portata alla perfezione, tutto quanto è bruttura nei mortali? Potete pensare che uno che è eterno abbia in eterno le piccole, meschine, avvilenti delizie di chi ha un’ora di tempo? E che ne faccia scopo del suo vivere? Non pensate che lurido Cielo è quello che voi chiamate Olimpo e dove fermentano i più acri succhi dell’umanità? Se guardate il vostro Cielo, che vedete? Lussurie, delitti, odi, guerre, furti, crapule, tranelli, vendette. Se volete celebrare le feste dei vostri dèi, che fate? Orgie. Che culto date ad essi? Dove è la vera castità delle sacrate a Vesta? Su quale divino codice si appoggiano per giudicare i vostri pontefici? Quali parole possono leggere nel volo degli uccelli o dal rombo d’un tuono i vostri àuguri? E le sanguinanti viscere degli animali sacrificati che risposte possono dare ai vostri arùspici? Hai detto: “Roma non crede alle fole”. E allora perché crede che dodici poveri uomini, col far fare il giro dei campi ad un porco, una pecora e un toro, e coll’averli immolati, possano propiziarsi Cerere, se avete infinite deità, in odio l’una verso l’altre, e di cui credete alle vendette? No. Ben altra cosa è Dio. Esso è eterno, unico e spirituale».
   «Ma Tu dici essere Dio e sei carne».
   «Vi è un altare senza dio nella patria degli dèi. La saggezza umana lo ha dedicato al Dio ignoto. Perché i saggi, i veri filosofi hanno intuito esservi qualcosa oltre lo scenario istoriato creato per quegli eterni bambini che sono gli uomini dagli spiriti avvolti nelle bende dell’errore. Se ora questi saggi – che hanno intuito esservi qualcosa oltre lo scenario bugiardo, qualcosa di veramente sublime e divino che ha fatto quanto è, e dal quale viene quanto di buono vi è nel mondo – hanno voluto un altare al Dio ignoto, che essi sentivano il vero Iddio, come potete voi dare nome di dèi a ciò che dio non è, e dire di sapere ciò che in realtà non sapete? Sappiate dunque cosa è Dio per poterlo conoscere ed onorare.

   167.8 Dio è Quello che dal suo pensiero ha fatto dal Nulla il Tutto. Vi può persuadere e soddisfare la favola dei sassi che si mutano in uomini? In verità vi sono uomini più duri e malvagi del sasso, e sassi vi sono che sono più utili dell’uomo. Ma non ti è più dolce, Valeria, guardando questa tua piccolina, pensare: “È una vivente volontà di Dio, da Lui creata e formata, da Lui dotata di una seconda vita che non muore, di modo che io l’avrò ancora, la mia piccola Fausta, e per l’eternità, se credo nel Dio vero”; anziché dire: “Queste carni di rosa, questi capelli più sottili di filo di ragno, queste pupille serene vengono da un sasso”? Oppure dire: “Io sono in tutto simile alla lupa o alla cavalla e brutalmente mi accoppio, brutalmente genero, brutalmente allevo, e questa figlia è frutto del mio istinto bruto, è un bruto pari a me, e domani, morta lei, morta io, saremo due carogne che si disciolgono in fetore e che mai più si rivedranno”? Dimmi! Il tuo cuore di madre che vorrebbe delle due ragioni?».
   «La seconda no certo, Signore! Se avessi saputo che Fausta non era cosa che per sempre poteva essere dissolta, il mio dolore, nella sua agonia, sarebbe stato meno spietato. Perché avrei detto: “Ho smarrito una perla. Ma essa vi è ancora. Ed io la ritroverò”».
   «Lo hai detto.

   167.9 Quando Io sono venuto verso di voi la vostra amica mi disse che si stupiva della vostra passione per i fiori. E temeva che ciò mi potesse urtare. Ma Io l’ho rassicurata dicendo: “Io pure li amo, e perciò ci intenderemo veramente bene”. Ma voglio portarvi ad amare i fiori così come porto Valeria ad amare la sua creatura di cui, sono certo, avrà più grande cura ora che sa che ha l’anima, che è particella di Dio[7] chiusa nella carne fattale da lei, mamma; una particella che non muore, e che la mamma ritroverà nel Cielo, se crederà nel Dio vero.
   Così voi. Guardate questa splendida rosa. La porpora che orna la veste imperiale è meno splendida di questo petalo, che non solo è gioia degli occhi per il colore ma è gioia del tatto per la sua morbidezza e dell’olfatto per il suo profumo. E guardate questa ancora, e questa, e questa. La prima è sangue sgorgato da un cuore, la seconda è neve testé caduta, la terza è pallido oro, l’ultima sembra fatta con questa dolce faccia infantile che mi sorride in grembo. Ancora: la prima è rigida su un grosso stelo quasi senza spine, rossastro nel fogliame come fosse spruzzato di sangue, la seconda ha rari uncini di spine e opache e pallide foglie lungo lo stelo, la terza è flessuosa come giunco ed ha un fogliame piccolo e lucido come una verde cera, l’ultima pare precluda la via ad ogni assalto alla rosea corolla tanto si è cosparsa di spine. Sembra una lima dalle acutissime punte.
   Ora pensate. Chi ha fatto questo? Come? Quando? Dove? Che era questo luogo nella notte dei tempi? Nulla era. Era informe agitarsi di elementi. Uno, Dio, disse: “Voglio”, e gli elementi si separarono riunendosi per famiglie. E un altro “voglio” tuonò, e si ordinarono l’uno nell’altro: l’acqua fra le terre; l’uno sull’altro: l’aria e la luce sul pianeta composto. Ancora un “voglio” e furono le piante. E poi furono le stelle, e poi gli animali, e poi l’uomo. E perché l’uomo avesse diletto, come splendidi balocchi al suo prediletto, Dio elargì i fiori, gli astri, e per ultimo gli donò la gioia di procreare non ciò che muore, ma ciò che sopravvive alla morte per il dono di Dio che è l’anima. Queste rose sono altrettante volontà del Padre. L’infinita sua potenza si esplica in infinità di bellezze.

   167.10 Mi è inceppato il dire perché urta contro il bronzo serrato della vostra credenza. Ma spero che, per essere il primo incontro, ci si sia già un poco intesi. L’anima vostra lavori su quanto ho detto. Avete domande da fare? Fatele. Sono qui per chiarirle. Non è vergogna l’ignoranza. È vergogna il persistere nell’ignoranza quando c’è chi è pronto a chiarire i dubbi».
   E Gesù, come fosse il più esperto dei papà, esce dal chiosco sorreggendo la piccolina che fa i primi passetti e che vuole andare verso uno zampillo che ondeggia al sole.

   167.11 Le dame restano dove sono parlottando fra loro. E Giovanna, combattuta fra due desideri, sta sulla soglia del chiosco… Infine Lidia si decide, e dietro lei le altre, e va da Gesù che ride perché la piccola vuole afferrare lo spettro solare dell’acqua e non stringe che luce e insiste, insiste con tutto un pigolio di pulcino sulle labbruzze di rosa.
   «Maestro… io non ho capito perché Tu hai detto che i nostri maestri non possono avere forme di vita buona essendo atei. Credono ad un Olimpo. Ma credono…».
   «Non hanno più che l’esteriorità del credere. Finché hanno veramente creduto, come i veri saggi credettero a quell’Ignoto di cui ti ho detto, a quel Dio che soddisfaceva la loro anima anche se senza nome, anche inavvertitamente dal volere, finché hanno volto il loro pensiero a questo Ente, ben superiore, ben superiore ai poveri dèi pieni di umanità, e bassa umanità, che il paganesimo si è dati, hanno, necessariamente, specchiato un poco di Dio. L’anima è uno specchio che riflette e un’eco che riporta».
   «Cosa, Maestro?».
   «Dio».
   «È grande parola!».
   «È grande verità».

   167.12 Valeria, che è sedotta dal pensiero della immortalità, chiede: «Maestro, spiegami dove è l’anima della mia bambina. Bacerò quel posto come un sacrario e l’adorerò, poiché è parte di Dio».
   «L’anima! È come questa luce che la tua Faustina vuole stringere e non può perché è incorporea. Ma c’è. Io, tu, le tue amiche la vediamo. Ugualmente l’anima è visibile in tutto quanto differenzia l’uomo dal bruto. Quando la tua piccina ti dirà i primi suoi pensieri, pensa che quell’intelligenza è la sua anima che si disvela. Quando ti amerà non con l’istinto ma con la ragione, pensa che quell’amore è la sua anima. Quando ti crescerà al fianco bella, non tanto di corpo ma di virtù, pensa che quella bellezza è la sua anima. E non adorare l’anima, ma Dio Creatore della stessa, Dio che di ogni anima buona si vuole fare un trono».
   «Ma dove è questa cosa incorporea e sublime: nel cuore? nel cervello?».
   «È nel tutto che è l’uomo. Vi contiene ed è in voi contenuta.
   Quando vi lascia siete cadaveri. Quando viene uccisa, da un delitto di uomo a se stesso, siete dannati, separati per sempre da Dio».
   «Tu dunque ammetti che il filosofo che ci disse “immortali” aveva ragione benché pagano?», chiede Plautina.
   «Non lo ammetto. Faccio di più. Dico che ciò è articolo di fede. L’immortalità dell’anima, ossia l’immortalità della parte superiore dell’uomo è il mistero più certo e più consolante del credere. È quello che ci assicura di dove veniamo, di dove andiamo, di chi siamo, e ci leva l’amaro di ogni separazione».

   167.13 Plautina pensa profondamente. Gesù l’osserva e tace. Infine chiede: «E Tu l’hai l’anima?».
   Gesù risponde: «Sicuramente».
   «Ma sei o non sei Dio?».
   «Sono Dio. Te l’ho detto. Ma ora ho preso natura di Uomo.
   E sai per quale motivo? Perché solo con questo mio sacrificio Io potevo risolvere i punti insuperabili alla vostra ragione, e dopo aver abbattuto l’errore, liberando il pensiero, potevo liberare anche l’anima da una schiavitù che per ora non ti posso spiegare. Perciò ho chiuso la Sapienza in un corpo, la Santità in un corpo. La Sapienza la spargo come seme sul terreno e polline ai venti, la Santità come da preziosa anfora infranta fluirà sul mondo nell’ora della Grazia e santificherà gli uomini. Allora il Dio ignoto sarà noto».
   «Ma Tu sei già noto. Chi pone in dubbio la tua potenza e la tua sapienza è malvagio o mentitore».
   «Noto sono. Ma questa non è che un’alba. Il meriggio sarà pieno della cognizione di Me».
   «Quale sarà il tuo meriggio? Un trionfo? Lo vedrò io?».
   «In verità sarà un trionfo. E tu vi sarai. Perché in te è nausea di ciò che sai e appetito di ciò che ignori. La tua anima ha fame».
   «È vero! Ho fame di verità».
   «Io sono la Verità».
   «Concediti allora all’affamata».
   «Non hai che venire alla mia mensa. La mia parola è pane di verità».

   167.14 «Ma che diranno i nostri dèi se li abbandoniamo? Non si vendicheranno su noi?», chiede Lidia paurosa.
   «Donna, hai mai visto un mattino nebbioso? I prati si perdono sotto un vapore che li nasconde. Viene il sole e il vapore si dissolve, i prati splendono più belli. Così i vostri dèi, nebbia di povero pensiero umano che, ignorando Dio e avendo bisogno di credere, perché la fede è lo stato permanente e necessario dell’uomo, si è creato questo Olimpo, vera fola insussistente. Così i vostri dèi al sorgere del Sole, Iddio vero, nei vostri cuori, si dissolveranno senza poter nuocere. Perché essi non sono».
   «Bisognerà ascoltarti ancora… molto… Siamo assolutamente davanti all’ignoto. Tutto quanto Tu dici è nuovo».
   «Ma ti ripugna? Non lo puoi accettare?».
   Plautina risponde sicura: «No. Mi sento più orgogliosa di quel minimo che ora so, e che Cesare non sa, che del mio nome».
   «E allora persevera.

   167.15 Io vi lascio con la mia pace».
   «Ma come? Non resti, mio Signore?». Giovanna è desolata.
   «Non resto. Ho molto da fare…».
   «Oh! che ti volevo dire la mia pena!».
   Gesù, che si incammina, dopo l’ossequio delle romane, si volge e dice: «Vieni sino alla barca. Mi dirai il tuo affanno».
   E Giovanna va. E dice: «Cusa mi vuole mandare per qualche tempo a Gerusalemme, e io ne ho dolore. Lo fa perché non vuole che io sia più relegata, ora che sono sana…».
   «Anche tu ti crei nebbie inutili!». Gesù ha già un piede sulla barca. «Se pensassi che così potrai ospitarmi o seguirmi con più facilità, saresti contenta e diresti: “La Bontà ci ha pensato”».
   «Oh!… è vero, mio Signore! Non avevo riflettuto».
   «Vedi dunque! Ubbidisci, da brava moglie. L’ubbidienza ti darà il premio di avermi per la prossima Pasqua e l’onore di aiutarmi ad evangelizzare le tue amiche. La pace sia sempre con te!».
   La barca si stacca e tutto ha fine.

[7] particella di Dio sembra cambiata in particella nata da Dio in una correzione poco chiara di MV su una copia dattiloscritta, sulla quale MV ha messo anche la seguente nota: Particella non va intesa come “brano di Dio” infuso in noi, ma come “luogo-trono”, “sede” infusa o “alitata” (dal “soffio della vita” di cui parla il v.7 del II cap. del Genesi) da Dio, dunque cosa da Dio, venuta da Dio nell’uomo. San Tommaso d’Aquino la chiama “una capacità di Dio” che Dio riempie di Sé, perché noi partecipassimo della sua vita divina. La spiegazione di MV deve essere tenuta presente – insieme con il testo di 10.9 – ogni volta che nell’opera si parla dell’anima come “parte” o “particella” di Dio. Essa si collega con le note che si trovano in: 4.6 - 54.5 - 165.4 - 170.4 - 365.16 - 444.4 - 463.4 - 524.7 - 537.11.