MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 189



CLXXXIX. A Naim. Resurrezione del figlio di una vedova.

   14 giugno 1945.

   189.1 Naim doveva avere una certa importanza ai tempi di Gesù.
   Non è molto vasta, ma ben costruita, chiusa dentro la sua cinta di mura, stesa su una bassa e ridente collina, una propaggine del piccolo Hermon, dominante dall’alto sulla pianura fertilissima che si spiega in direzione nord-ovest.
   Vi si giunge, venendo da Endor, dopo avere valicato un fiumicello che certo è affluente del Giordano. Però da qui il Giordano non si vede più, e neppure la sua valle, perché delle colline lo celano facendo un arco a punto interrogativo verso est.


   Gesù vi si dirige per una via maestra che congiunge le regioni del lago all’Ermon e ai suoi paesi. Dietro di Lui camminano molti abitanti di Endor parlando fitto fitto fra di loro.
   La distanza che separa il gruppo apostolico dalle mura è ormai molto breve: un duecento metri al massimo. E, posto che la strada maestra va diretta ad immettersi per una porta in città, e la porta è spalancata essendo giorno pieno, si può vedere quanto avviene immediatamente al di là delle mura. È così che Gesù, che parlava con gli apostoli e col nuovo convertito, vede venire, fra un grande fracasso di piangenti e simili apparati orientali, un corteo funebre.
   «Andiamo a vedere, Maestro?», dicono in molti. E già fra i cittadini di Endor molti si sono precipitati a vedere.
   «Andiamo pure», dice Gesù condiscendente.
   «Oh! deve essere un fanciullo, perché vedi quanti fiori e nastri sulla barella?», dice Giuda di Keriot a Giovanni.
   «Oppure sarà una vergine», risponde Giovanni.
   «No, è certo un giovinetto per i colori che vi hanno messo. E poi mancano i mirti…», dice Bartolomeo.
   Il funerale esce oltre le mura. Cosa sia sulla barella, tenuta alta sulle spalle dei portatori, non è possibile vedere. Si intuisce il corpo steso nelle sue bende e coperto dal lenzuolo solo per il rilievo che fa, e si comprende che è il corpo di uno che ha già raggiunto lo sviluppo completo perché è lungo quanto la barella.
   Al suo fianco una donna velata, sorretta da parenti o amiche, cammina piangendo. L’unico pianto vero in tutta quella commedia di piagnone. E quando un sasso incontrato da un portatore, una buca, un rialzo, fa imprimere una scossa alla barella, la madre geme: «Oh! no! Fate piano! Ha tanto sofferto il mio bambino!», e alza una mano tremante ad accarezzare l’orlo della barella – di più non può – e, non potendo di più, bacia i veli ondeggianti e i nastri che il vento talora sommuove e che sfiorano perciò la forma immobile.
   «È la madre», dice Pietro compunto e con un luccicore di pianto nell’occhio arguto e buono.
   Ma non è il solo che abbia il pianto agli occhi per quello strazio. Lo Zelote, Andrea, Giovanni e persino il sempre allegro Tommaso hanno negli occhi del luccicore. Tutti, tutti sono commossi. Giuda Iscariota mormora: «Fossi io! Oh! povera madre mia…».

   189.2 Gesù, il cui occhio è di una dolcezza intollerabile tanto è profonda, si dirige verso la barella.
   La madre, che singhiozza più forte perché il corteo sta per torcere verso il sepolcro già aperto, lo scansa con violenza vedendo che Gesù fa per toccare la bara. Nel suo delirio chissà cosa teme. Urla: «È mio!», e con occhi folli guarda Gesù.
   «Lo so, madre. È tuo».
   «È il mio unico figlio! Perché a lui la morte, a lui che era buono e caro, la gioia di me, vedova? Perché?».
   La folla delle piangenti aumenta il suo pagato pianto per far coro alla madre che continua: «Perché lui e non io? Non è giusto che chi ha generato veda perire il suo seme. Il seme deve vivere perché altrimenti, perché altrimenti a che serve che queste viscere si squarcino per dare alla luce un uomo?», e si percuote sul ventre, feroce e disperata.
   «Non fare così! Non piangere, madre». Gesù le prende le mani in una stretta potente e le tiene con la sua sinistra mentre con la destra tocca la bara dicendo ai portatori: «Fermatevi e posate a terra la barella».
   I portatori ubbidiscono abbassando il lettuccio, che resta appoggiato sui suoi quattro piedi al suolo.
   Gesù afferra il lenzuolo che copre il morto e lo getta indietro scoprendo la salma.
   La madre grida il suo dolore con il nome del figlio, credo:
   «Daniele!».
   Gesù, sempre tenendo le mani materne nella sua, si raddrizza, imponente nel suo fulgore di sguardi, col suo viso dei miracoli più potenti, e abbassando la destra ordina con tutta la forza della voce: «Giovinetto! Io te lo dico: sorgi!».

   189.3 Il morto, così come è, fra le fasce, si leva a sedere sulla barella e chiama: «Mamma!». La chiama con la voce balbettante e spaurita di un piccolo terrorizzato.
   «È tuo, donna. Io te lo rendo in nome di Dio. Aiutalo a liberarsi dal sudario. E siate felici». E Gesù fa per ritirarsi.
   Ma sì! La folla lo inchioda alla bara su cui si è rovesciata la madre, che annaspa fra le bende per fare presto, presto, presto, mentre il lamento infantile, implorante, si ripete: «Mamma! Mamma!».
   Il sudario è slegato, slegate le bende, e madre e figlio si possono abbracciare, e lo fanno senza tenere conto dei balsami che appiccicano e che poi la madre leva dal caro viso, dalle care mani, con le stesse bende, e poi, non avendo con che rivestirlo, la madre si leva il mantello e ve lo avvolge, e tutto serve ad accarezzarlo…

   189.4 Gesù la guarda… guarda questo gruppo di amore, stretto sulle sponde del lettuccio non più funebre, e piange.
   Lo vede Giuda Iscariota, questo pianto, e chiede: «Perché piangi, Signore?».
   Gesù volge il volto verso di lui e dice: «Penso a mia Madre…».
   Il breve colloquio richiama la donna al suo Benefattore.
   Prende per mano il figlio e lo sorregge, perché è come uno che abbia un resto di torpore nelle membra, e si inginocchia dicendo: «Anche tu, figlio mio. Benedici questo Santo che ti ha reso alla vita e a tua madre», e si china a baciare la veste di Gesù mentre la folla osanna a Dio e al suo Messia, ormai conosciuto per quello che è perché gli apostoli e i cittadini di Endor si sono presi l’incarico di dire chi è Colui che ha operato il miracolo.
   E tutta la folla ormai esclama: «Sia benedetto il Dio di Israele. Benedetto il Messia, il suo Inviato! Benedetto Gesù, Figlio di Davide! Un grande Profeta è sorto fra noi! Dio ha veramente visitato il suo popolo! Alleluia! Alleluia!».

   189.5 Finalmente Gesù può sgusciare dalla stretta e penetrare in città. La folla lo segue e lo insegue, esigente nel suo amore.
   Accorre un uomo e saluta profondamente. «Ti prego sostare nel mio tetto».
   «Non posso. La Pasqua mi vieta ogni sosta oltre quelle stabilite».
   «Fra poche ore è il tramonto ed è venerdì…».
   «Appunto che devo prima del tramonto avere raggiunto la mia tappa. Ti ringrazio lo stesso. Ma non mi trattenere».
   «Ma io sono il sinagogo».
   «E con ciò vuoi dire che ne hai il diritto. Uomo, bastava che Io tardassi un’ora che quella madre non avrebbe riavuto il figlio. Io vado dove altri infelici mi attendono. Non ritardare per egoismo la loro gioia. Verrò, di certo, un’altra volta e starò con te, in Naim, più giorni. Ora lasciami andare».
   L’uomo non insiste più. Dice solo: «È detto. Ti attendo».
   «Sì. La pace sia con te e con i cittadini di Naim. Anche a voi di Endor pace e benedizione. Tornate alle case. Dio vi ha parlato attraverso il miracolo. Fate che in voi avvengano, per forza d’amore, tante risurrezioni al Bene per quanti sono i cuori».
   Un ultimo coro di osanna. Poi la folla lascia andare Gesù, che traversa diagonalmente la città ed esce verso la campagna, verso Esdrelon.