MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 195



CXCV. Una lezione di Giovanni di Endor all’Iscariota e l’arrivo a Gerusalemme.

   20 giugno 1945.

   195.1 Il cielo è a pioggia e Pietro mi pare un Enea capovolto, perché in luogo di portare via il proprio padre ha sulle spalle il piccolo Jabé, tutto ricoperto dal mantellone di Pietro. La testolina si vede emergere sopra il capo canuto di Pietro, che ha le braccia del piccolo intorno al collo e che ride diguazzando nelle pozzanghere.
   «Ce la poteva risparmiare questa», brontola l’Iscariota, nervoso per l’acqua che viene dal cielo, che schizza sulle vesti dal suolo.
   «Eh! si potrebbero risparmiare tante cose!», risponde Giovanni di Endor fissando col suo unico occhio, che credo veda per due, il bel Giuda.
   «Che vuoi dire?».
   «Voglio dire che è inutile pretendere che gli elementi abbiano riguardi per noi, quando noi non ne abbiamo coi nostri simili, e in materia ben più grave che non siano due gocce d’acqua o uno spruzzo di fango».
   «È vero. Ma a me piace entrare in città ordinato, pulito. Ho molte amicizie, io, e in alto».
   «Attento allora di non cascare».
   «Mi stuzzichi?».
   «Nooh! Ma sono un vecchio maestro e… un vecchio scolaro.
   Da quando vivo imparo. Prima ho imparato a vegetare, poi ho osservato la vita, poi ho conosciuto l’amarezza della vita, ho esercitato una inutile giustizia, quella del “solo” contro Dio e contro la società. Dio mi ha castigato con il rimorso, la società con le catene, perciò il giustiziato, in fondo, sono stato io. Infine, ora, ho imparato, sto imparando, a “vivere”. Ora, essendo maestro e scolaro, tu capisci che mi viene naturale di ripetere le lezioni».
   «Ma io sono l’apostolo…».
   «E io sono un disgraziato, lo so, e non dovrei permettermi di insegnare a te. Ma, vedi, non si sa mai ciò che si può diventare. Credevo di morire onesto e venerato pedagogo in Cipro, e divenni omicida e ergastolano. Ma quando alzavo il coltello per farmi vendetta, e quando trascinavo la catena odiando l’universo, se mi avessero detto che sarei divenuto un discepolo del Santo, avrei dubitato della mente di chi me lo avesse detto. Eppure… tu lo vedi! Perciò chissà che anche a te, apostolo, io non possa dare qualche lezione buona. Per la mia esperienza.
   Non per la santità. Non ci penso neppure».
   «Ha ragione quel romano a chiamarti Diogene».
   «Già. Ma però Diogene cercava l’uomo e non lo trovò. Io, più fortunato di lui, ho trovato una serpe dove credevo essere la donna e un cuculo dove vedevo l’uomo amico, ma dopo aver vagato per tanti anni, reso folle da questa conoscenza, ho trovato l’Uomo, il Santo».
   «Io non conosco altra sapienza che quella d’Israele».
   «Se così è, hai già di che salvarti. Ora però hai anche la scienza, anzi la sapienza di Dio».
   «È la stessa cosa».
   «Oh! no! Come un giorno nebbioso rispetto ad uno pieno di sole».
   «Insomma, mi vuoi ammaestrare? Io non ne ho voglia».
   «Lasciami parlare! Prima parlavo ai bambini: erano svagati. Poi alle ombre: mi maledivano. Poi ai polli: erano già migliori dei due primi, molto migliori. Ora parlo con me stesso non potendo ancora parlare con Dio. Perché me lo vuoi impedire? Ho mezza vista, la vita spezzata dalle miniere, il cuore malato da tanti anni. Lascia almeno che non mi si sterilisca la mente».
   «Gesù è Dio».
   «Lo so, lo credo. Più di te. Perché io sono rinato per sua opera, tu no. Ma per quanto Lui sia il Buono, è sempre Lui, Dio, ed il povero disgraziato che io sono non osa trattarlo con la tua famigliarità. Gli parla la mia anima… ma il labbro non osa. L’anima, e penso che Egli la senta nei suoi pianti di riconoscente e penitente amore».

   195.2 «È vero, Giovanni. Io sento la tua anima». Gesù entra nella conversazione dei due. Giuda arrossisce di vergogna, l’uomo di Endor di gioia. «Io sento la tua anima, è vero. E sento anche il lavoro della tua mente. Hai detto bene. Quando ti sarai formato in Me, molto ti gioverà essere stato maestro e scolaro attento. Parla, parla, anche con te stesso…».
   «Una volta, Maestro, e non è molto, mi hai detto che è male parlare col proprio io», osserva impertinente Giuda.
   «È vero, l’ho detto[57]. Ma era perché tu facevi mormorazione col tuo proprio io. Quest’uomo non mormora, medita, e con fine buono. Non fa male».
   «Insomma, ho torto!». Giuda è aggressivo.
   «No, hai dell’uggia nel cuore. Ma non sempre può essere sereno. I contadini desiderano la pioggia. È carità pregare perché essa venga. È carità anche questa. Ma guarda, ecco un bell’arcobaleno che da Atarot fa arco su Rama. Siamo già oltre Atarot, il triste vallone è superato, qui tutto è coltivato e ridente sotto il sole che rompe le nubi. Quando saremo a Rama, saremo a trentasei stadi da Gerusalemme. La rivedremo dopo quel colle, che segna il luogo dell’orrenda libidine commessa dai gabaoiti[58]. Tremenda cosa il morso della carne, Giuda…».
   Giuda non risponde e si dilunga sguazzando con ira nelle pozzanghere.

   195.3 «Ma che ha, oggi, quello?», chiede Bartolomeo.
   «Taci, che Simone di Giona non senta. Evitiamo questioni e… non avveleniamo Simone. È così felice col suo bambino!».
   «Sì, Maestro. Ma non sta bene. Glielo dirò».
   «È giovane, Natanaele. Anche tu lo fosti…».
   «Sì… ma… Non deve mancarti di rispetto!». Senza volere alza la voce.
   Accorre Pietro: «Che c’è? Chi manca di rispetto? Il nuovo discepolo?», e guarda Giovanni di Endor, che si è discretamente ritirato quando ha capito che Gesù correggeva l’apostolo, e che sta parlando con Giacomo d’Alfeo e Simone Zelote.
   «Neanche per idea. È rispettoso come una fanciulla».
   «Ah! bene! Se no… eh! era in pericolo il suo occhio. Allora… allora è Giuda!…».
   «Senti, Simone, non potresti occuparti del tuo piccolo? Me lo hai levato e poi vuoi occuparti di una conversazione amichevole fra Me e Natanaele. Non ti pare che vuoi fare troppe cose?».
   Gesù sorride così tranquillo che Pietro resta incerto sul suo giudizio. Guarda Bartolomeo… ma questo ha alzato il suo volto aquilino a scrutare il cielo… Pietro sente cadere il sospetto. L’apparizione della Città, ormai vicina, visibile in tutta la sua bellezza di colli, di uliveti, di case e del Tempio in specie, questa vista che doveva essere sempre fonte di emozione e d’orgoglio per gli israeliti, finisce di distrarlo del tutto.
   Il sole ben caldo dell’aprile di Giudea ha presto asciugato le pietre della via consolare. Ora le pozze d’acqua bisogna proprio cercarle. Gli apostoli si rassettano sul bordo della via, riabbassano le vesti che si erano rimborsate, si lavano i piedi fangosi in un chiaro ruscello, si aggiustano i capelli, si drappeggiano nei mantelli. E così fa Gesù. Vedo che tutti fanno così.

   195.4 L’entrata a Gerusalemme doveva essere una cosa importante. Presentarsi alle mura in questo tempo di festa era come presentarsi ad un sovrano. La Città santa era la «vera» regina degli israeliti. Lo capisco bene quest’anno che posso notare, su questa via consolare, le turbe e il loro comportamento. Qui i cortei delle diverse famiglie si ordinano, le donne tutte da loro, gli uomini in altro gruppo, i bambini o con questo o con quello, ma tutti seri e nello stesso tempo sereni. Alcuni ripiegano il mantello più usato ed estraggono un altro, nuovo, dalle sacche da viaggio, o cambiano i sandali. E poi l’andatura diviene solenne, già ieratica. In ogni gruppo c’è il solista che dà tono, e gli inni vengono intonati, i vecchi, gloriosi inni di Davide. E la gente si guarda con occhi più buoni, come raddolciti dall’aver visto la Casa di Dio, e guarda questa Casa santa, enorme cubo di marmo sormontato dalle cupole d’oro, messo come perla al centro del recinto imponente del Tempio.
   Qui – nella comitiva apostolica che si forma così: davanti Gesù e Pietro, aventi in mezzo il bambino; dietro Simone, l’Iscariota e Giovanni; poi Andrea, che ha forzato Giovanni di Endor a mettersi fra lui e Giacomo di Zebedeo; in quarta fila i due cugini del Signore con Matteo; ultimi Tommaso con Filippo e Bartolomeo – qui è Gesù che intona con la sua potente e bellissima voce di un leggero tono baritonale[59], fuso, a renderlo più prezioso, a vibrazioni tenorili; e risponde Giuda Iscariota, uno schietto tenore, e Giovanni dalla voce limpida di chi è molto giovane ancora, e le due voci baritonali dei cugini di Gesù e il quasi basso di Tommaso che è un baritono talmente profondo da non essere quasi più tale. Gli altri, dotati di voci meno belle, seguono in sordina il coro-pieno di quelli che sono virtuosi fra di loro. (I salmi sono quelli noti, detti graduali[60]).
   Il piccolo Jabé, voce d’angelo fra le voci robuste degli uomini, canta molto bene, forse perché lo conosce meglio degli altri, il salmo 121: «Mi sono rallegrato per quello che mi è stato detto: “Andremo alla casa del Signore”». E veramente è tutto luminoso di gioia nel visetto solo pochi giorni prima tanto triste.
   Ecco le mura ormai prossime. Ecco la porta dei Pesci. Ecco le vie sopraffollate.
   Subito al Tempio per una prima preghiera. E poi la pace nella pace del Getsemani, la cena, il riposo.
   Il viaggio verso Gerusalemme è compiuto.

[57] l’ho detto, in 183.1.
[58] libidine commessa dai gabaoiti, narrata in: Giudici 19, 22-28.
[59] tono baritonale, fuso, a renderlo più prezioso, a vibrazioni tenorili, invece di tono baritonale fuso a rendere più preziose le vibrazioni tenorili, è correzione di MV su una copia dattiloscritta, dove aggiunge: voce comprendente una gamma estesa di note perfette.
[60] graduali sono detti i Salmi 120-134 secondo la nuova numerazione. Il Salmo 121, citato più sotto, è diventato Salmo 122.