MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME III CAPITOLO 198



CXCVIII. L’incontro con la madre a Betania. Jabé cambia il suo nome in Margziam.

   23 giugno 1945.

   198.1 Attraverso alla ombrosa strada che congiunge il monte degli Ulivi a Betania – e potrei dire che il monte giunge con le sue propaggini verdi sino alle campagne di Betania – Gesù coi suoi cammina sollecito verso la città di Lazzaro.
   E non vi è ancora entrato che viene riconosciuto, e volontarie staffette corrono in tutti i sensi ad avvertire della sua venuta. Per cui ecco accorrere Lazzaro e Massimino da un lato, Isacco con Timoneo e Giuseppe dall’altro, terza viene Marta con Marcella che alza il suo velo per curvarsi a baciare la veste di Gesù, e subito dopo accorrono Maria d’Alfeo e Maria Salome che venerano il Maestro e poi si abbracciano i figli; e mentre il piccolo Jabé, sempre per mano di Gesù, sballottato da tutti questi irruenti arrivi, osserva stupefatto, e Giovanni di Endor, sentendosi estraneo, si ritira in fondo al gruppo, in disparte, ecco farsi avanti, sul sentiero che conduce alla casa di Simone, la Madre.
   Gesù abbandona la mano di Jabé e dolcemente respinge gli amici per affrettarsi verso di Lei. Le note parole rompono l’aria, squillando come un assolo d’amore sul brusio della folla:
   «Figlio!», «Mamma!». Si baciano, e nel bacio di Maria è l’affanno di chi ha temuto per tanto tempo ed ora, nello sciogliersi del terrore che l’ha tenuto, sente la stanchezza dello sforzo fatto, misura in tutta l’estensione il pericolo in cui è incorso… Gesù la carezza, Lui che comprende, e dice: «Oltre il mio angelo avevo il tuo, Madre, a vegliarmi. Non poteva accadermi nulla di male».
   «Ne sia data lode al Signore. Ma ho tanto sofferto!».
   «Volevo venire più sollecito, ma ho dovuto fare altra via per ubbidire a te. E bene fu, perché il tuo comando, Madre mia, come sempre è fiorito in bene».
   «La tua ubbidienza, Figlio!».
   «Il tuo comando sapiente, Madre…».
   Si sorridono come due innamorati. Ma è possibile che questa Donna sia Madre di quest’Uomo? Dove sono i sedici anni di differenza? La freschezza e la grazia del volto e del corpo verginale fanno di Maria la sorella del suo Figlio, che è nella pienezza della sua bellissima virilità.
   «Non mi chiedi perché è fiorito in bene?», chiede Gesù sempre sorridendo.
   «So che il mio Gesù non mi tiene nascosto nulla».
   «Mamma cara!». La bacia ancora… La gente si è tenuta lontana qualche metro e mostra di non osservare la scena. Ma scommetto che non c’è uno, di tutti questi occhi che pare guardino altrove, che non sbirci la dolce scena.

   198.2 Quello che guarda più di tutti è Jabé, che Gesù ha lasciato andare quando è corso ad abbracciare sua Madre e che è rimasto solo, perché nell’affollarsi delle domande e delle risposte l’attenzione è distratta dal povero bambino… Guarda, guarda, poi china il capo, lotta con il pianto… ma infine non ce la fa e scoppia in pianto, gemendo: «Mamma! Mamma!».
   Tutti, Gesù e Maria per i primi, si volgono, e tutti cercano riparare o sapere chi è il bambino.
   Maria d’Alfeo accorre, e accorre Pietro – erano insieme – dicendo entrambi: «Perché piangi?».
   Ma prima che fra il suo grande pianto Jabé possa trovare fiato per parlare, è accorsa Maria e lo ha preso in braccio dicendo:
   «Sì, figliolino mio, la Mamma! Non piangere più… e scusa se non ti ho visto prima. Ecco, amici, il mio figliolino…». Si capisce che Gesù, nel fare i pochi metri, le deve avere detto: «È un orfanello che ho preso con Me». Il resto lo ha intuito Maria.
   Il bambino piange ancora, ma meno desolatamente, e posto che Maria lo tiene in braccio e lo bacia, finisce col sorridere col visetto ancora lavato di pianto.
   «Vieni che ti asciugo tutte queste lacrime. Non devi piangere più! Dàmmi un bacio…».
   Jabé… non chiedeva che quello, e dopo tante carezze di uomini barbuti si crogiola tutto nel baciare la guancia liscia di Maria.

   198.3 Ma Gesù ha cercato e scorto Giovanni di Endor e lo va a prendere nel suo angolino remoto. E mentre tutti gli apostoli salutano Maria, Gesù viene a Lei tenendo per mano Giovanni di Endor e dice: «Ecco, Madre, l’altro discepolo. Questi due figli ti ha ottenuto il tuo comando».
   «La tua ubbidienza, Figlio», ripete Maria e poi saluta l’uomo dicendo: «La Pace è con te».
   L’uomo, il rude, inquieto uomo di Endor, che tanto si è già mutato da quel mattino in cui il capriccio dell’Iscariota ha portato Gesù a Endor, finisce di spogliarsi del suo passato mentre si inchina a Maria. Io credo sia così, tanto il volto che si rialza dopo il profondo inchino appare sereno, veramente «pacificato».

   198.4 Si avviano tutti verso la casa di Simone: Maria con Jabé in braccio, Gesù tenendo per mano Giovanni di Endor e poi, intorno e dietro, Lazzaro e Marta, gli apostoli con Massimino, Isacco, Giuseppe, Timoneo.
   Entrano nella casa sulla cui soglia il vecchio servo di Simone venera Gesù e il suo padrone.
   «La pace a te, Giuseppe, e a questa casa», dice Gesù alzando la mano a benedire dopo averla posata sulla testa bianca del vecchio servitore.
   Lazzaro e Marta, dopo la prima gioia, sono un poco tristi, e Gesù chiede: «Perché, amici?».
   «Perché Tu non sei con noi, e perché tutti vengono a Te meno l’anima che vorremmo fosse tua».
   «Fortificate pazienza, speranza e preghiera. E poi, Io sono con voi. Questa casa!… Questa casa non è che il nido da cui il Figlio dell’uomo volerà ogni giorno dai cari amici, così vicini nello spazio, ma, se si considera la cosa soprannaturalmente, infinitamente più vicini nell’amore. Voi siete nel mio cuore ed Io sono nel vostro. Si può essere più vicini di così? Ma questa sera staremo insieme. Vogliate sedervi alla mia tavola».
   «Oh! povera me! Ed io qui mi ciondolo! Vieni, Salome. Abbiamo da fare!». Il grido di Maria d’Alfeo fa sorridere tutti, mentre la buona parente di Gesù si alza sollecita per andare al suo lavoro.
   Ma Marta la raggiunge: «Non ti preoccupare, Maria, per il cibo. Vado a dare ordini. Tu prepara solo le mense. Ti manderò sedili sufficienti e quanto abbisogna. Vieni, Marcella. Torno subito, Maestro».

   198.5 «Ho visto Giuseppe d’Arimatea, Lazzaro. Lunedì viene qui con degli amici».
   «Oh! allora quel giorno sei mio!».
   «Sì. Viene per stare insieme, ma anche per combinare per una cerimonia che si riflette a Jabé. Giovanni, porta il bambino sulla terrazza. Si divertirà».
   Giovanni di Zebedeo, ubbidiente sempre, si alza subito dal suo posto, e dopo poco si sente il cinguettio del bambino e le sue piccole pedate sulla terrazza che cinge la casa.
   «Il bambino», spiega Gesù alla Madre, agli amici, alle donne, fra cui è Marta, che ha volato per non perdere un minuto di gioia presso il Maestro, «è nipote di un contadino di Doras. Sono passato da Esdrelon…».
   «È vero che i campi sono una desolazione e che li vuole vendere?».
   «Una desolazione lo sono. Della vendita non so. Un contadino di Giocana me ne ha accennato. Ma non so se è cosa sicura».
   «Se li vendesse… li comprerei volentieri per avere un asilo per Te anche in mezzo a quel nido di serpenti».
   «Non credo che ci riuscirai. Giocana è pronto a prenderli».
   «Vedremo… Ma continua il racconto. Che contadini sono?
   Quelli di prima li ha tutti sparsi».
   «Sì. Questi vengono dalle sue terre di Giudea, almeno il vecchio che è parente del bambino. Il bambino era tenuto nel bosco, come un animale selvatico, perché Doras non lo scorgesse… e vi è dall’inverno…».
   «Oh! povero bambino! Ma perché?». Le donne sono tutte commosse.
   «Perché suo padre e sua madre sono rimasti sepolti dalla frana nei pressi di Emmaus. Tutti: padre, madre, fratellini. Lui è vissuto perché non era in casa. Lo hanno condotto dal vecchio padre. Ma che poteva un contadino di Doras? Tu, Isacco, hai parlato di Me come di un salvatore, anche per questo caso».
   «Ho fatto male, Signore?», chiede umilmente Isacco.
   «Hai fatto bene. Dio lo voleva. Il vecchio mi ha dato il bambino, che deve anche divenire maggiorenne in questi giorni».
   «Oh! miserello! Così piccolo a dodici anni?! Il mio Giuda era alto quasi il doppio a quell’età… E Gesù? Che fiore!», dice Maria d’Alfeo.
   E Salome: «Anche i miei figli erano ben più forti!».
   Marta mormora: «Veramente è ben piccolino! Credevo non avesse ancora dieci anni».
   «Eh! la fame è brutta! E la deve avere fatta da quando fu al mondo. Ora poi… Cosa gli doveva dare il vecchio, se là si muore tutti di fame?», dice Pietro.
   «Sì, ha molto sofferto. Ma è molto buono e intelligente. L’ho preso per consolare il vecchio e il bambino».

   198.6 «Lo adotti?», chiede Lazzaro.
   «No. Non posso».
   «Allora lo prendo io».
   Pietro si vede dileguare la speranza e ha un gemito vero e proprio: «Signore! Tutto a lui?».
   Gesù sorride: «Lazzaro, tu hai già fatto tanto e te ne sono grato. Ma questo bambino non te lo posso confidare. È il “nostro” bambino. Di tutti noi. La gioia degli apostoli e del Maestro. Inoltre qui crescerebbe fra il fasto. Io gli voglio fare dono del mio manto regale: “l’onesta povertà”. Quella che il Figlio dell’uomo volle per Sé, per poter avvicinare tutte le più grandi miserie senza mortificare nessuno. Tu hai avuto anche di recente un mio dono…».
   «Ah! sì! Il vecchio patriarca e sua figlia. Molto attiva la donna, e il vecchio molto buono».
   «Dove sono ora? Voglio dire: in quale luogo?».
   «Ma qui, a Betania. Ti pare che volessi allontanare la benedizione che Tu mi mandavi? La donna è al lino. Ci vogliono mani leggere ed esperte per quel lavoro. Il vecchio, posto che vuole proprio lavorare, l’ho messo agli alveari. Ieri – vero, sorella? – aveva la lunga barba tutta d’oro. Le api, sciamando, si erano attaccate tutte a quel barbone, ed egli parlava loro come a tante figlie. È felice».
   «Lo credo! Che tu sia benedetto!», dice Gesù.
   «Grazie, Maestro.

   198.7 Ma quel bambino ti costerà! Mi permetterai almeno…».
   «Ci penso io alla sua veste di festa», strilla Pietro. Ridono tutti per l’impulsività del grido.
   «Va bene. Ma avrà bisogno di altre vesti. Simone, sii buono. Sono anche io senza bambini. Lascia che io e Marta ci si consoli pensando a delle piccole vesti da fare».
   Pietro, così pregato, si commuove subito e dice: «Le vesti… sì… Ma la veste per mercoledì la prendo io. Me l’ha promesso il Maestro, e ha detto che anderò con la Madre ad acquistarla domani». Pietro dice tutto per paura di qualche mutazione in suo sfavore.
   Gesù sorride e dice: «Sì, Madre. Ti prego di andare domani con Simone. Altrimenti quest’uomo mi muore d’affanno. Lo consiglierai nella scelta».
   «Io ho detto: veste rossa e cintura verde. Starà molto bene. Meglio che con quel colore che ha ora».
   «Rosso andrà molto bene. Anche Gesù era vestito di rosso. Ma io direi che starebbe meglio sul rosso una cintura rossa, o almeno ricamata in rosso», dice dolcemente Maria.
   «Io dicevo così perché vedo che Giuda, che è bruno, sta molto bene con quelle strisce verdi sull’abito rosso».
   «Ma queste non sono verdi, amico!», ride l’Iscariota.
   «No? E che colore è allora?».
   «Questo colore è detto “vena d’agata”».
   «E che vuoi che ne sappia io?! Mi pareva verde. L’ho visto anche sulle foglie…».
   Maria Ss. interviene benigna: «Simone ha ragione. È il colore esatto che prendono le foglie alle prime acque di tisri…».
   «Ecco! e siccome le foglie sono verdi io dicevo che era verde», termina contento Pietro.
   La Soave ha messo pace e gioia anche in questa piccola cosa.

   198.8 «Chiamate il piccino», prega Maria.
   E il bambino accorre subito insieme a Giovanni.
   «Come ti chiami?», chiede Maria accarezzandolo.
   «Sono… ero Jabé. Ma ora aspetto il nome…».
   «Lo aspetti?».
   «Sì, Jabé vuole un nome che voglia dire che Io l’ho salvato.
   Tu lo cercherai, Madre. Un nome d’amore e di salvezza».
   Maria pensa… e poi dice: «Marjiam (Maarhgziam). Tu sei la piccola stilla nel mare dei salvati di Gesù. Ti piace? Così ricorda anche me oltre che la Salvezza».
   «È molto bello», dice contento il bambino.
   «Ma non è un nome di donna?», chiede Bartolomeo.
   «Con una elle al fondo, invece della emme, quando questa stilla di Umanità sarà adulto, potrete mutare il suo nome in nome d’uomo. Ora porta il nome che gli ha dato la Mamma.
   Non è vero?».
   Il bambino dice di sì e Maria lo carezza.
   La cognata la interpella: «È bella questa lana», e tocca il mantellino di Jabé. «Ma ha un tal colore! Che dici? Io la tingerei in rosso scurissimo. Verrà bene».
   «Domani sera lo faremo. Perché domani avrà la sua nuova veste. Ora non glielo possiamo levare».
   Marta dice: «Verresti con me, bambino? Ti porto qui vicino, a vedere tante cose, e poi si torna qui…».
   Jabé non si rifiuta. Non rifiuta mai niente… ma pare un poco spaurito ad andare con la donna quasi sconosciuta. Dice timido e gentile: «Potrebbe venire con me Giovanni?».
   «Ma certo!…».
   Se ne vanno.

   198.9 E nella loro assenza le conversazioni continuano fra i vari gruppi. Narrazioni, commenti, sospiri sulla durezza umana.
   Isacco racconta quanto ha potuto sapere del Battista. C’è chi lo dice in Macheronte e chi a Tiberiade. I discepoli non sono ancora tornati… «Ma non lo avevano seguito?».
   «Sì. Ma presso Doco i catturatori traversarono il fiume col prigioniero e non si sa se poi sono risaliti al lago o scesi a Macheronte. Giovanni, Mattia e Simeone si sono sguinzagliati per sapere e non lo abbandoneranno certo».
   «E tu, Isacco, non mi abbandonerai certo questo nuovo discepolo. Per ora sta con Me. Voglio faccia la Pasqua con Me».
   «Io la farò in Gerusalemme, in casa di Giovanna. Mi ha visto e mi ha offerto una stanza per me e i compagni. Vengono tutti, quest’anno. E saremo con Gionata».
   «Anche quelli del Libano?».
   «Anche. Ma non potranno forse venire i discepoli di Giovanni».
   «Vengono quelli di Giocana, lo sai?».
   «Davvero? Starò alla porta, presso i sacerdoti che immolano. Li vedrò e li porterò con me».
   «Attendili proprio per l’ultima ora. Non hanno che tempo misurato. Ma hanno l’agnello».
   «Io pure. Splendido. Me lo ha dato Lazzaro. Immoleremo questo, e l’altro, il loro, servirà loro per il ritorno».

   198.10 Rientra Marta con Giovanni e il bambino in una piccola veste di lino bianco con una sopraveste rossa. Sul braccio ha un mantello pure rosso.
   «Li riconosci, Lazzaro? Vedi che tutto serve?».
   I due fratelli si sorridono.
   Gesù dice: «Io ti ringrazio, Marta».
   «Oh! Signore mio! Ho la malattia di conservare tutto. L’ho ereditata dalla madre mia. Ho ancora molte vesti di mio fratello. Care perché toccate dalla madre. Ogni tanto ne levo un capo per qualche bambino. Ora li darò a Margziam. Sono un poco lunghe, ma si possono rimborsare. Lazzaro, divenuto maggiorenne, non le volle più… Un bel capriccio, tutt’affatto da pargolo… e l’ebbe vinta perché mia madre adorava il suo Lazzaro».
   La sorella lo carezza con amore e Lazzaro ne prende la bellissima mano, la bacia e dice: «E tu no?». Si sorridono.
   «È una provvidenza questa», osservano in molti.
   «Sì, il mio capriccio ha fatto del bene. Forse mi sarà perdonato per questo».
   La cena è pronta e ognuno va al suo posto…

   198.11 …È notte fatta quando Gesù può parlare in pace con la Madre. Sono saliti sulla terrazza e, seduti su un sedile, l’uno presso l’altra, con la mano nella mano, si parlano e si ascoltano.
   Prima è Gesù che narra le cose avvenute. Poi è Maria che dice: «Figlio, dopo la tua partenza, subito dopo, è venuta da me una donna… Ti cercava. Una grande miseria. E una grande redenzione. Ma questa creatura ha bisogno del tuo perdono per essere tenace nella sua risoluzione. L’ho affidata a Susanna dicendo che era una tua guarita. È vero. L’avrei potuta tenere con me se la nostra casa non fosse un mare ormai, dove tutti fanno vela… e molti con malvagi intenti. E la donna ha ribrezzo del mondo, ormai. Vuoi sapere chi è?».
   «Un’anima è. Ma dimmi il nome, perché Io la possa accogliere senza errore».
   «Aglae è. La romana, mima e peccatrice, che Tu hai cominciato a salvare ad Ebron, che ti ha cercato e trovato all’Acqua Speciosa, che per la sua rinata onestà ha già sofferto. Quanto!… Mi ha detto tutto… Che orrore!…».
   «Il suo peccato?».
   «Questo e… direi più ancora: che orrore è il mondo! Oh! Figlio mio! Diffida dei farisei di Cafarnao! Di questa infelice si volevano servire per nuocerti. Anche di questa…».
   «Lo so, Madre… Dove è Aglae?».
   «Giungerà con Susanna avanti la Pasqua».
   «Va bene. Io le parlerò. Sarò qui ogni sera e, meno quella pasquale che consacrerò alla famiglia, l’attenderò. Non hai che da trattenerla, se viene. È una grande redenzione, lo hai detto. E così spontanea! In verità ti dico che in pochi cuori il mio seme attecchì con la forza con cui attecchì su questo terreno infelice. E dopo ne aiutò la crescita, fino a completa formazione, Andrea».
   «Me lo ha detto».
   «Madre, che hai provato avvicinando quella rovina?».
   «Ribrezzo e gioia. Mi pareva di essere sull’orlo di un abisso d’inferno, ma insieme mi sentivo trasportare nell’azzurro. Come sei Dio, mio Gesù, quando compi di questi miracoli!».
   Restano zitti, sotto le stelle luminosissime e nel biancore di un quarto di luna già tendente ad essere piena. Zitti, amandosi e riposandosi l’uno nell’amore dell’altra.