MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 250



CCL. Ai discepoli venuti con Isacco la parabola del fango che diviene fiamma. Il sacrificio di Giovanni di Endor.

   11 agosto 1945.

   250.1 È proprio sulle rive del profondo torrente che Gesù trova Isacco con molti discepoli noti ed ignoti. Fra i noti sono il sinagogo dell’Acqua Speciosa: Timoneo; Giuseppe, l’accusato di incesto di Emmaus; il giovane che lasciò di seppellire il padre per seguire Gesù; Stefano; il lebbroso Abele mondato un anno avanti presso Corozim col suo amico Samuele; vi è il traghettatore di Gerico: Salomon; e altri, altri, altri, che riconosco ma dei quali non ricordo assolutamente il luogo dove li vidi né il nome. Volti noti, ed ormai sono tanti, tutti noti come volti di discepoli. E poi altri, conquiste di Isacco o degli stessi discepoli su nominati, che seguono il nucleo principale sperando trovare Gesù.
   L’incontro è affettuoso, gioioso e riverente. Isacco raggia nella gioia di vedere il Maestro e di mostrargli il suo gregge novello, e per premio chiede una parola da Gesù, per la turba che ha con sé.
   «Sai un luogo quieto dove potersi riunire?».
   «All’estremità del golfo vi è una spiaggia deserta, in cui sono casupole di pescatori, vuote in questa stagione perché malsane e perché la stagione della pesca dei pesci da salagione è finita, ed essi vanno nella Siro-Fenicia alla pesca della porpora. Molti di essi già credono in Te, per averti sentito parlare nelle città di mare e per aver trovato i discepoli, e mi hanno ceduto le casette per i nostri riposi. Vi torniamo dopo una missione. Perché molto è da fare su questa costa. È perfettamente corrotta da tante cose. Vorrei giungere sino alla Siro-Fenicia, e lo potrei fare per mare, perché la costa è troppo arroventata dal sole per farla a piedi. Ma io sono pastore, non marinaro, e fra questi non ve ne è uno che sappia veleggiare».
   Gesù, che ascolta attento, con un lieve sorriso, stando un poco curvo, Lui tanto alto di fronte al piccolo pastore, che come un soldato riferisce tutto al suo generale, risponde: «Dio ti aiuta per la tua umiltà. Se qui sono noto è per te, discepolo, non per gli altri.

   250.2 Ora chiederemo a quelli del lago se si sentono di veleggiare sul mare, e andremo, se potremo, in Siro-Fenicia».
   E si volta a cercare Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, che sono in animata conversazione con alcuni discepoli, mentre Giuda Iscariota è dietro a fare i complimenti a Stefano, e lo Zelote con Bartolomeo e Filippo sono presso le donne. Gli altri quattro sono presso a Gesù.
   I quattro pescatori vengono subito. «Ve la sentite di andare in barca sul mare?», chiede Gesù.
   I quattro si guardano, perplessi. Pietro si spettina i capelli mentre riflette. Poi chiede: «Ma dove? Molto al largo? Noi siamo pesci d’acqua dolce…».
   «No, lungo la costa fino a Sidone».
   «Umh! Credo che si possa. Che ne dite?».
   «Lo credo anche io. Mare o lago sarà sempre la stessa cosa:
   acqua», dice Giacomo.
   «Anzi, sarà più bello e facile», dice Giovanni.
   «Questo poi non so da che lo giudichi», gli risponde suo fratello.
   «Dal suo amore per il mare. Chi ama una cosa vede tutte le perfezioni in essa. Amassi così una donna, saresti uno sposo perfetto», scherza Pietro scuotendo affettuosamente Giovanni.
   «No, lo dico perché ad Ascalona ho visto che le manovre sono uguali e la navigazione è tanto dolce», risponde Giovanni.
   «E allora andiamo!», esclama Pietro.
   «Sarebbe però sempre meglio avere uno del luogo. Noi non conosciamo questo mare e questi fondali», osserva Giacomo.
   «Oh! non ci penso neppure! Abbiamo Gesù con noi! Prima non ero ancora sicuro, ma dopo che ha quietato il lago! Andiamo, andiamo col Maestro a Sidone. Forse c’è da fare del buono», dice Andrea.
   «Allora andremo. Procurerai le barche per domani. Fatti dare la borsa da Giuda di Simone».

   250.3 E mescolati insieme, apostoli con discepoli — e non è da dire con che festa molti lo sono, e sono quelli che già sono ben noti a Gesù — tornano sui loro passi andando verso la città, girandola nella sua periferia fino a raggiungere la punta estrema della baia che si spinge come un braccio ricurvo in mare. Lì poche casupole, sparse sulla costa ghiaiosa e breve, rappresentano il posto più miserabile della città, il più spopolato e saltuariamente abitato. Ora le casette — dei cubi di muro sgretolato dalla salsedine e dalla vecchiaia — sono tutte chiuse e, quando i discepoli le aprono, mostrano la loro miseria affumicata, le loro suppellettili ridotte proprio al minimo indispensabile.
   «Ecco. Sono molto comode e pulite, se non belle», dice Isacco che ne fa gli onori.
   «Belle no, poverette. L’Acqua Speciosa era una reggia al paragone. E c’era chi si lamentava!…», borbotta Pietro.
   «Ma per noi sono una fortuna».
   «Certo, certo! L’importante è avere un tetto e volersi bene.
   Oh! guarda qua il nostro Giovanni! Come stai? Dove eri?».
   Ma Giovanni di Endor, pur sorridendo a Pietro, corre a ve nerare Gesù che lo saluta con parole molto buone.
   «Non l’ho fatto venire perché è stato poco bene… Preferisco resti qui. Sa tanto fare con i cittadini e con chi chiede notizie sul Messia…», dice Isacco.
   Infatti l’uomo di Endor è molto più magro di prima. Ma il suo volto è sereno. L’emaciazione gli nobilita i tratti, per cui fa pensare ad uno già toccato dal duplice martirio della carne e dello spirito.
   Gesù l’osserva e gli chiede: «Sei malato, Giovanni?».
   «Non più di quanto lo fossi prima di vederti. E questo nella carne. Ma nell’anima, se ben mi giudico, io sto guarendo dalle mie particolari ferite».
   Gesù ne guarda ancora l’occhio pacato e la fronte scavata alle tempie e non dice altro. Ma gli pone una mano sulla spalla mentre entra con lui in una casetta, dove sono state portate conche d’acqua di mare per rinfrescare i piedi stanchi e brocche di acqua fresca per la sete, mentre fuori, su una rustica tavola ombreggiata da una larva di pergola di piante arrampicanti, si preparano le mense.
   Ed è bello, mentre il crepuscolo cala e il mare mormora le preghiere della sera con il fruscio della risacca sulla spiaggetta ghiaiosa, vedere la cena di Gesù con le donne e gli apostoli, seduti al rozzo tavolone, mentre gli altri, parte seduti per terra, parte su sedili o ceste rovesciate, fanno cerchio alla tavola principale.
   Presto termina la cena e ancor più presto è sparecchiato perché le stoviglie erano ben poche, per i più importanti ospiti. Il mare si è fatto di un nero d’indaco nella notte ancora senza luna. E tutta la sua imponenza si disvela in quest’ora mesta e solenne propria delle coste marine.

   250.4 Gesù, altezza bianca fra le ombre sempre più scure, si alza dalla tavola e viene al centro della piccola turba di discepoli, mentre le donne si ritirano. Isacco e un altro accendono sulla rena dei piccoli fuochi per illuminare e per tenere lontano i nuvoli di zanzare, che forse vengono da acquitrini prossimi.
   «La pace a voi tutti.
   La misericordia di Dio ci unisce in anticipo sul tempo fissato dando reciproca gioia ai nostri cuori. Io li ho scrutati tutti, questi vostri cuori moralmente buoni, come lo dimostra il vostro essere qui, in attesa di Me, in formazione in Me, spiritualmente ancora imperfetti come lo dimostrano certe vostre reazioni, che confessano come ancora in voi perdura il vecchio uomo d’Israele con tutti i suoi concetti e preconcetti, e non è ancora uscito da esso, come farfalla da larva, l’uomo nuovo, l’uomo del Cristo, che del Cristo ha l’ampia, luminosa, misericordiosa mentalità e l’ancor più ampia carità. Ma non vi mortificate se Io ve li ho scrutati e letti in tutti i loro segreti. Un maestro deve conoscere i suoi scolari per poterli correggere nei loro difetti e, credetemi, se è un buon maestro non si disgusta per i più difettosi, ma anzi proprio su quelli egli si curva di più, per migliorarli. Voi sapete che Io sono un buon Maestro. Ed ora vediamo insieme queste reazioni e questi preconcetti, vediamo di considerare insieme il motivo per cui qui siamo, e per la gioia che questo essere uniti ci dà, sappiamo benedire il Signore che sempre, da un singolo bene, ottiene un bene collettivo.

   250.5 Ho sentito dalle vostre labbra la vostra ammirazione per Giovanni di Endor, tanto più ammirazione perché egli si professa peccatore convertito, e su questa sua vecchia qualità e su quella nuova appoggia la sua tesi di predicazione presso coloro che vuole portare a Me. È vero. Egli era un peccatore. Ora è un discepolo. Molti di voi sono ormai venuti al Messia per suo merito. Vedete dunque che proprio con quei mezzi che il vecchio uomo di Israele sprezzerebbe, Dio crea il nuovo popolo di Dio.
   Ora Io vi prego di astenervi dal giudicare con giudizio malsano la presenza di una sorella che il vecchio Israele non comprende come discepola. Ho ordinato alle donne di riposare. Ma non era tanto l’ansia di dare loro riposo, quanto quella di potere dare a voi una santa valutazione di una conversione e di impedirvi di commettere peccato contro l’amore e contro la giustizia, la ragione per cui ho dato quel comando che ha certo addolorato le discepole.
   Maria di Magdala, la grande peccatrice di Israele, quella che non aveva scusa al suo peccato, è tornata al Signore. E da chi aspetterà ella fede e misericordia se non da Dio e dai servi di Dio? Tutta Israele, e con Israele gli stranieri che sono fra noi, quelli che molto la conoscono e che severamente la giudicano, ora che non è più loro complice negli stravizi, critica e deride questa risurrezione.
   Risurrezione. È la parola più esatta. Non è il più grande miracolo risuscitare una carne. È miracolo sempre relativo perché destinato ad essere un giorno annullato dalla morte. Io non do immortalità al risuscitato nella carne, ma do eternità al risuscitato dello spirito. E mentre un morto nella carne non unisce la sua volontà di risorgere alla mia, perciò il merito da sua parte non c’è, nel risuscitato nello spirito è presente la sua volontà, anzi è la prima ad essere presente. Perciò non è assente il merito del risuscitato.
   Questo non vi dico per giustificarmi. A Dio solo devo rendere conto delle mie azioni. Ma voi siete i miei discepoli. I miei discepoli devono essere dei secondi Gesù. Non deve essere in loro nessuna ignoranza e nessuna di quelle inveterate colpe per cui tanti sono solo di nome uniti a Dio.

   250.6 Tutto è suscettibile di buone azioni. Anche la cosa apparentemente meno atta ad esserlo. Quando una materia si presta alla volontà di Dio, fosse anche la più inerte, gelata, lurida, può divenire moto, fiamma, bellezza pura.
   Vi porto un paragone tratto[39] dal libro dei Maccabei.
   Quando Nehemia fu rimandato dal re di Persia a Gerusalemme, nel ricostruito Tempio e sul purificato altare si vollero offrire i sacrifizi. Nehemia ricordava come, al momento della cattura da parte dei persiani, i sacerdoti addetti al culto di Dio prendessero il fuoco dell’altare e lo nascondessero in un luogo segreto, nel fondo di una valle, in un pozzo profondo e secco, e facessero ciò così bene e così segretamente che solo essi seppero dove era il sacro fuoco. Questo ricordava Nehemia, e ricordando prese i nipoti di quei sacerdoti perché andassero al luogo che, avanti di morire, i sacerdoti avevano detto ai figli, e questi avevano detto ai figli ancora, tramandando così il segreto di padre in figlio, e vi prendessero il sacro fuoco per accendere il fuoco del sacrifizio. Ma, scesi i nipoti nel pozzo segreto, non fuoco trovarono ma densa acqua, una melma putrida, fetida, pesante, lì filtrata da tutte le ingombre cloache della devastata Gerusalemme. E lo dissero a Nehemia. Ma questi ordinò fosse presa di quell’acqua e gli fosse portata. E, fatti porre le legna sull’altare e sulle legna i sacrifizi, spruzzò abbondantemente tutto, onde fosse aspersa ogni cosa con l’acqua melmosa. Il popolo stupito e gli scandalizzati sacerdoti guardavano e fecero con rispetto, solo perché era Nehemia che ordinava. Ma quanta tristezza nei cuori! Quanta sfiducia! Come in cielo erano nubi a rendere triste il giorno, così nei cuori era il dubbio a rendere melanconici gli uomini. Ma il sole ruppe le nubi e scese coi suoi raggi sull’altare, e le legna, spruzzate dell’acqua melmosa, si accesero con grande fuoco che subito consumò il sacrificio, mentre i sacerdoti pregavano con le preghiere composte da Nehemia e con gli inni più belli d’Israele, finché tutto il sacrifizio fu arso. E, per persuadere le folle che Dio può anche con le materie meno atte, ma usate a retto fine, produrre prodigi, Nehemia ordinò che il resto dell’acqua fosse sparsa su grandi pietre. E le pietre spruzzate dettero fiamme e in esse si consumarono nella gran luce che veniva dall’altare.

   250.7 Ogni anima è un fuoco sacro messo da Dio nell’altare del cuore, perché serva ad ardere il sacrificio della vita con amore al Creatore della stessa. Ogni vita è olocausto se bene spesa, ogni giorno è un sacrificio che va consumato con santità. Ma vengono i predoni, gli oppressori dell’uomo e dell’anima dell’uomo. Il fuoco sprofonda nel pozzo profondo. E non per necessità santa, ma per stoltezza nefasta. E là, sommerso negli scoli di tutte le sentine dei vizi, diviene fango putrido e pesante, finché non scende in quel profondo un sacerdote e riporta alla luce del sole quel fango, posandolo sull’olocausto del suo proprio sacrificio. Perché, sappiatelo, non basta l’eroismo del convertendo. Ci vuole anche quello di colui che converte. Anzi, questo deve precedere quello, perché le anime si salvano con il sacrificio nostro. Perché così si giunge ad ottenere che il fango si muti in fiamma e Dio giudichi perfetto e grato alla sua santità il sacrificio che si consuma.
   È allora che, non essendo ancora sufficiente a persuadere il mondo che un fango pentito è ancor più ardente di un fuoco comune, anche se fuoco consacrato — il quale fuoco comune serve solo ad ardere legna e vittime, ossia materie atte ad essere arse — ecco che questo fango pentito diviene tanto potente da accendere e ardere anche le pietre, materie incombustibili. E non vi chiedete da che viene a questo fango questa proprietà? Non lo sapete? Io ve lo dico: perché nell’ardore del pentimento essi si fondono con Dio, fiamma con fiamma; fiamma che sale, fiamma che scende; fiamma che si offre amando, fiamma che si concede amando; abbraccio di due che si amano, che si ritrovano, che si congiungono, facendo una cosa sola. E dato che la fiamma più grande è quella di Dio, ecco che essa trabocca, soverchia, penetra, assorbe, e la fiamma del fango pentito non è più fiamma relativa di cosa creata, ma fiamma infinita di Cosa increata: dell’Altissimo, Potentissimo, Infinito, di Dio.
   Questo sono i grandi peccatori convertiti veramente, totalmente convertiti, generosamente datisi alla conversione senza nulla trattenere del passato, ardendo per prima cosa se stessi, nella parte più pesante, con la fiamma che si alza dal loro fango, corso incontro alla Grazia e toccato da Essa. In verità, in verità vi dico che molte pietre in Israele saranno investite dal fuoco di Dio per queste fornaci ardenti che sempre più arderanno, fino alla consumazione della creatura umana, e che continueranno ad ardere le pietre, le tiepidezze, le incertezze, le timidezze della Terra, dal loro trono in Cielo, veri specchi ustori soprannaturali che raccolgono le Luci Une e Trine per convergerle sulla umanità e accenderla di Dio.

   250.8 Vi ripeto che non avevo bisogno di giustificare le mie azioni, ma ho voluto che voi entraste nel mio concetto e lo faceste vostro. Per ora, per altri casi consimili futuri, quando Io non sarò con voi. Un deviato concetto, un farisaico sospetto di contaminare Iddio col portargli un peccatore pentito, non vi trattenga mai dal fare questa opera, che è coronamento perfetto della missione alla quale vi destino. Abbiate sempre presente che Io non sono venuto a salvare i santi ma i peccatori. E fate voi il simigliante, perché il discepolo non è da più del Maestro, e se Io non ripugno da prendere per mano i rifiuti della Terra che sentono bisogno del Cielo, che lo sentono finalmente, e giubilando li porto a Dio, perché questa è la mia missione, ed ogni conquista è una giustificazione della mia Incarnazione mortificante l’Infinito, non ripugnate a farlo neppure voi, uomini limitati, che più o meno avete tutti conosciuto l’imperfezione, fatti della stessa natura dei fratelli peccatori, uomini che Io eleggo a salvatori perché sia continuata la mia opera nei secoli dei secoli della Terra, quasi che Io continuassi a vivere su di essa, in una secolare esistenza.
   E tale sarà, perché l’unione dei miei sacerdoti sarà come la parte vitale nel grande corpo della mia Chiesa, di cui Io sarò lo Spirito animatore, e intorno a questa parte vitale si accentreranno tutte le infinite particelle dei credenti a fare un unico corpo che dal mio Nome avrà nome. Ma, se mancasse la vitalità nella parte sacerdotale, potrebbero le infinite particelle avere vita? In verità che Io, essendo in esso, potrei spingere la mia Vita fino alle particelle più lontane, trascurando le cisterne ed i canali otturati e inutili, renitenti al loro ministero. Perché la pioggia scende dove vuole, e le particelle buone, capaci da se stesse di volere la vita, vivrebbero ugualmente la mia Vita. Ma che sarebbe allora il Cristianesimo? Una vicinanza di anime ed anime. Vicine eppure separate da canali e cisterne che non sono più laccio che unisce distribuendo ad ogni particella il sangue vitale, venuto da un unico centro. Ma sarebbero muri e precipizi di separazione attraverso i quali le particelle si guarderebbero, umanamente ostili, soprannaturalmente afflitte, dicendo nei loro spiriti: “Eppure eravamo fratelli e tali ancora ci sentiamo per quanto ci abbiano divisi!”. Una vicinanza. Non una fusione. Non un organismo. E su questa rovina splenderebbe dolente il mio amore…
   E ancora. Non pensatevi che ciò valga solo per gli scismi religiosi. No. Serve anche per tutte le anime che restano sole perché i sacerdoti si rifiutano di sostenerle, di occuparsene, di amarle, contravvenendo alla loro missione che è quella di dire e di fare ciò che Io dico e faccio, ossia: “Venite a Me voi tutti, ed Io a Dio vi condurrò”.

   250.9 Andate in pace, ora, e Dio sia con voi».
   La gente sciama lentamente, andando ognuno alle casette che li ospitano.
   Si alza anche Giovanni di Endor, che ha sempre preso appunti mentre Gesù parlava, facendosi arroventare dal fuoco per poter vedere ciò che scriveva.
   Ma Gesù lo ferma dicendogli: «Resta un poco con il tuo Maestro». E se lo tiene vicino fino a che tutti se ne sono andati.
   «Andiamo fino a quel masso in riva all’acqua. La luna è sempre più alta e si vede il cammino».
   Giovanni acconsente senza ribattere parola.
   Si dilungano dalle case un duecento metri circa e si siedono su un grosso masso, che non so se sia un rudere di molo, o una estrema propaggine di una scogliera sprofondata nel mare, oppure una rovina di qualche casupola semi inghiottita dalle acque, forse avanzatesi nei secoli sul litorale. So che mentre dalla spiaggetta si può salire appoggiando il piede su incavi e sporgenze che fanno da scalini, dalla parte del mare la parete scende quasi diritta e si tuffa nell’acqua glauca. Anzi, ora, per la marea, è semicircondato dall’acqua che borbotta e schiaffeggia leggermente questo ostacolo e poi fugge con suono di enorme aspirazione, e poi tace un momento, per tornare ancora, sempre con un moto e un suono regolare, fatto di schiaffi e di aspirazioni e silenzi come una musica sincopata. Si siedono proprio in cima a questo ammasso urtato dal mare. La luna fa una via d’argento sulle acque e rende di un azzurro cupissimo il mare, che prima del suo sorgere non era che una distesa nerastra nel nero della notte.

   250.10 «Giovanni, non dici al tuo Maestro la ragione per cui soffre il tuo corpo?».
   «Tu la sai, Signore. Ma non dire: “soffre”. Di’: “si consuma”. È più esatto, e Tu lo sai, e sai che si consuma con giubilo. Grazie, Signore. Mi sono ravvisato io pure nel fango che diviene fiamma. Ma io non avrò tempo di accendere le pietre. Mio Signore, io morrò presto. Troppo ho sofferto per l’odio del mondo e troppo io giubilo per l’amore di Dio. Ma non rimpiango la vita. Qui potrei ancora peccare, mancare alla missione alla quale ci destini. Già due volte ho mancato nella mia vita. Alla mia missione di maestro, perché in essa dovevo saper trovare di che formare me stesso e non mi sono formato. Alla mia missione di marito, perché non ho saputo formare la moglie. Logicamente. Non avevo saputo formare me, e non potevo saper formare lei. Potrei mancare anche alla missione di discepolo. E mancare a Te non voglio. Sia dunque benedetta la morte se viene a portarmi dove non si può più peccare! Ma se non avrò la sorte di discepolo insegnante, avrò quella di discepolo vittima, e sarà quella che più assomiglia alla tua. Tu lo hai detto questa sera: “Ardendo per prima cosa se stessi”».
   «Giovanni, è una sorte che subisci o un’offerta che fai?».
   «Un’offerta che faccio, se Dio non disdegna il fango che si è fatto fuoco».
   «Giovanni, tu fai molte penitenze».
   «Le fanno i santi, Tu per il primo. È giusto le faccia colui che tanto ha da pagare. Ma Tu forse trovi che le mie non sono grate a Dio? Me le vieti?».
   «Io non ostacolo mai le buone aspirazioni dell’anima innamorata. Sono venuto a predicare coi fatti che nella sofferenza è espiazione e nel dolore redenzione. Non mi posso contraddire».
   «Grazie, Signore. Sarà la mia missione».

   250.11 «Cosa scrivevi, Giovanni?».
   «Oh! Maestro! Delle volte il vecchio Felice emerge ancora con le sue abitudini di maestro. Penso a Marziam. Lui ha tutta una vita per predicarti, ed è, per la sua età, non presente alle tue predicazioni. Ho pensato di segnare certi insegnamenti che Tu ci hai dato e che il bambino non ha sentito perché intento ai suoi giuochi o lontano con uno di noi. Nelle tue parole anche minime è tanta sapienza! Le tue conversazioni famigliari sono già un ammaestramento, e proprio sulle cose di ogni giorno, di ogni uomo, su quei minimi che sono in fondo i massimi della vita perché accumulandosi formano una grande soma che esige pazienza, costanza, rassegnazione, per essere portata con santità. Più facile compiere un grande ed unico atto eroico che mille e diecimila piccole cose che esigono una costante presenza di virtù. Eppure non si giunge all’atto grande, sia nel male come nel bene — io lo so per il male — se non si fa lungo accumulo di atti piccoli, apparentemente insignificanti. Io ho cominciato ad uccidere quando, stanco della frivolezza di mia moglie, le ho dato il primo sguardo sprezzante. Per Marziam ho segnato le tue piccole lezioni. E questa sera ho avuto desiderio di segnare la tua grande lezione. Lascerò il mio lavoro al bambino perché si ricordi di me, il vecchio maestro, e perché abbia anche quello che altrimenti non avrebbe. Il suo splendido tesoro. Le tue parole. Me lo permetti?».
   «Sì, Giovanni. Ma sii in pace su tutto, come questo mare.
   Vedi? Per te sarebbe troppo rovente andare nell’ardore del sole, e la vita apostolica è veramente un ardore. Hai tanto lottato nella tua vita. Ora Dio ti chiama a Sé in questo placido raggiare di luna che tutto placa e fa puro. Cammina nella dolcezza di Dio. Io te lo dico: Dio è contento di te».
   Giovanni di Endor prende la mano di Gesù, la bacia e mor mora: «Eppure sarebbe stato anche bello dire al mondo: “Vieni a Gesù!”».
   «Lo dirai dal Paradiso, uno specchio ustorio anche tu. Andiamo, Giovanni. Vorrei leggere ciò che hai scritto».
   «Eccolo, Signore. E domani ti darò l’altro rotolo su cui ho segnato le altre parole».
   Scendono dal loro scoglio e, in un biancore splendidissimo di luna che ha mutato in argento la ghiaietta della riva, tornano alle case. E si salutano, Giovanni inginocchiandosi, Gesù benedicendolo con la mano posata sul suo capo e dandogli la sua pace.

[39] qualche brano: i brani citati non sembrano ripresi testualmente dalla sacra Scrittura, che tuttavia ne riflette il concetto in vari passi soprattutto del Pentateuco e dei Salmi.