MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 251



CCLI. Ai pescatori siro-fenici, la parabola del minatore perseverante. Ermasteo di Ascalona.

   12 agosto 1945.

   251.1 Sono le prime ore del mattino quando Gesù giunge davanti ad una città sul mare. Quattro barche seguono la sua.
   La città è spinta in mare stranamente, come fosse fabbricata su un istmo. Anzi, come se un esile istmo ne congiungesse la parte tutta sporgente sul mare con quella stesa sulla riva[40].


   Vista dal mare, sembra un enorme fungo, adagiato sulle onde col suo cocuzzolo e conficcato con le radici sulla costa: l’istmo è il gambo. Al di qua e al di là di esso, due porti; l’uno, quello di settentrione, meno chiuso, è pieno di piccole imbarcazioni. L’altro, a meridione, ben più riparato, di grossi navigli in arrivo o in partenza.
   «Bisogna andare là», dice Isacco accennando al porto delle piccole barche. «Là stanno i pescatori».
   Girano l’isola e vedo che l’istmo è artificiale, una specie di diga ciclopica che unisce l’isoletta alla terra ferma. Si costruiva senza miserie un tempo! Arguisco da quest’opera e dal numero dei navigli nei porti quanto la città fosse ricca e attiva nei commerci. Dietro alla città, dopo una zona piana, sono collinette di bell’aspetto, e molto lontano è visibile il grande Hermon e la catena libanese. Arguisco anche che questa sia una delle città che vedevo dal Libano.
   La barca di Gesù sta intanto giungendo nel porto settentrionale, nella rada del porto, perché non attracca ma va lenta, a forza di remi, avanti e indietro, finché Isacco scorge quelli che cerca e li chiama a gran voce.

   251.2 Vengono avanti due belle barche da pesca, e l’equipaggio si curva sulle barche più piccole dei discepoli.
   «Il Maestro è con noi, amici. Venite, se volete sentirne la parola. Entro sera torna verso Sicaminom», dice Isacco.
   «Subito veniamo. Dove andiamo?».
   «In un posto quieto. Il Maestro non scende a Tiro, né alla città di terra. Parla dalla barca. Scegliete un posto d’ombra e di riparo».
   «Venite verso le rocce, dietro di noi. Vi sono seni quieti e ombrosi. Potrete anche scendere».
   E vanno in un rientramento della scogliera, più a nord. La costa, spaccata a picco, fa da riparo al sole. Il luogo è solitario. Solo i gabbiani e i colombacci vi fanno dimora, uscendo per le loro scorribande sul mare, e tornano con grandi stridi ai nidi nella roccia. Ma delle altre navicelle si sono unite a quelle di guida, formando una minuscola flottiglia. In fondo a questo minuscolo golfo vi è una larva di spiaggia. Proprio una larva: una piazzetta sparsa di sassi. Ma un centinaio di persone ci possono stare.
   Scendono usando di uno scoglio largo e piatto, che sporge sulle acque fonde come un moletto naturale, e si dispongono sulla spiaggetta sassosa, lucida di sale. Sono uomini bruni, magri, arsi dal sole e dal mare. Delle corte sottovesti lasciano scoperte le membra agili e magre. È molto visibile la diversità della razza coi giudei presenti, meno questa appare coi galilei. Direi che questi siro-fenici hanno più somiglianza coi filistei lontani che con i popoli a loro più vicini. Questi, almeno, che vedo io.

   251.3 Gesù si addossa alla costa e inizia a parlare.
   «Si legge[41] nel libro dei Re come il Signore comandasse ad Elia di andare a Sarepta dei Sidoni durante la siccità e la carestia che afflisse la terra per oltre tre anni. Il Signore non mancava dei mezzi per sfamare il suo profeta in ogni luogo, né lo mandò a Sarepta perché questa città fosse ricca di cibo. No, che anzi là già si moriva di fame. Perché allora Dio mandò Elia Tesbite?
   C’era in Sarepta una donna di retto cuore, vedova e santa, madre di un fanciullo, povera, sola, eppure non ribelle al tremendo castigo, non egoista nella sua fame, non disubbidiente. Dio la volle beneficare dandole tre miracoli. Uno per l’acqua portata all’assetato, uno per il piccolo pane cotto sotto la cenere quando ella non aveva più che un pugno di farina, uno per l’ospitalità data al profeta. Le dette pane e olio, la vita del figlio e la conoscenza della parola di Dio.
   Voi vedete che un atto di carità non solo sfama il corpo, leva il dolore della morte, ma istruisce l’anima nella sapienza del Signore. Voi avete dato alloggio ai servi del Signore ed Egli vi dà la parola della Sapienza. In questa terra dove non viene la parola del Signore, ecco che un atto buono la porta. Io posso paragonare voi all’unica donna di Sarepta che accolse il profeta. Anche voi qui siete gli unici che accolgono il Profeta. Perché, se fossi sceso nella città, i ricchi e potenti non mi avrebbero accolto, gli indaffarati mercanti e marinai dei navigli mi avrebbero trascurato, e inerte sarebbe rimasta la mia venuta.
   Ora Io vi lascerò e voi direte: “Ma che siamo noi? Un pugnello di uomini. Che possediamo? Una goccia di sapienza”. Eppure Io vi dico: “Vi lascio con l’incarico di annunciare l’ora del Redentore”. Vi lascio ripetendo le parole di Elia profeta: “L’anfora della farina non si esaurirà. L’olio non scemerà fintanto che verrà chi più ampiamente lo distribuisca”.
   Già lo avete fatto. Perché qui vi sono dei fenici mescolati a voi di là del Carmelo. Segno è che voi avete parlato così come vi fu parlato. Vedete che il pugnello di farina e la gocciola d’olio non si è esaurita, ma anzi è sempre cresciuta. Continuate a farla crescere. E se vi parrà che sia strano che Iddio vi abbia scelto per questa opera, non sentendovi atti a eseguirla, dite la parola della grande fiducia: “Farò ciò che Tu dici fidandomi sulla tua parola”».

   251.4 «Maestro, ma come comportarci con questi pagani? Questi noi li conosciamo per la pesca. L’uguale lavoro ci accomuna. Ma gli altri?», chiede un pescatore d’Israele.
   «Il comune lavoro ci accomuna, tu dici. E allora non dovrebbe accomunare una comune provenienza? Dio ha creato gli israeliti come i fenici. Quelli del piano di Saron o dell’Alta Giudea non differiscono da quelli di questa costa. Il Paradiso era stato fatto per tutti i figli dell’uomo. E il Figlio dell’uomo viene per portare al Paradiso tutti gli uomini. Lo scopo è quello di conquistare il Cielo e dare gioia al Padre. Trovatevi dunque sulla stessa via e amatevi spiritualmente così come vi amate per ragioni di lavoro».
   «Isacco molto ci ha detto. Ma noi vorremmo sapere di più. È possibile avere un discepolo per noi, così fuori mano?».
   «Mandaci Giovanni di Endor, Maestro. È tanto capace di fare ed è abituato a vivere con dei pagani», suggerisce Giuda di Keriot.
   «No. Giovanni sta con noi», risponde reciso Gesù. E poi, volgendosi ai pescatori: «Quando finisce la pesca della porpora?».
   «Alle burrasche di autunno. Dopo il mare è troppo agitato qui».
   «Tornerete allora a Sicaminom?».
   «Lì. E a Cesarea. Forniamo molto i romani».
   «Potrete allora ritrovarvi coi discepoli. Intanto perseverate».

   251.5 «Vi è a bordo della mia barca uno che io non volevo e che è venuto in tuo nome, quasi».
   «Chi è?».
   «Un giovane pescatore di Ascalona».
   «Fàllo scendere e venire qui».
   L’uomo va a bordo e torna con un giovinotto piuttosto confuso di essere oggetto di tanta attenzione.
   L’apostolo Giovanni lo riconosce. «È uno di quelli che ci hanno dato il pesce, Maestro», e si alza per salutarlo. «Sei venuto, Ermasteo? Qui? Sei solo?».
   «Solo. A Cafarnao mi sono vergognato… Sono rimasto sulla costa, sperando…».
   «Che?».
   «Di vedere il tuo Maestro».
   «E non ancora il tuo? Perché, amico, tergiversi ancora? Vieni alla Luce che ti attende. Guarda come ti osserva e sorride».
   «Come sarò sopportato?».
   «Maestro, vieni da noi un momento».
   Gesù si alza e va da Giovanni.
   «Egli non osa perché straniero».
   «Non ci sono stranieri per Me. E i tuoi compagni? Non eravate in molti?… Non ti turbare. Tu solo hai saputo perseverare. Ma anche per te solo Io sono felice. Vieni con Me».
   Gesù torna al suo posto con la nuova conquista. «Questo sì che lo daremo a Giovanni di Endor», dice all’Iscariota.

   251.6 E poi parla a tutti.
   «Un gruppo di scavatori scesero in una miniera dove sapevano esservi dei tesori, molto nascosti nelle viscere del suolo però. E iniziarono lo scavo. Ma il terreno era duro e faticoso il lavoro. Molti si stancarono e gettarono i picconi andandosene. Altri si burlarono del capo squadra quasi trattandolo da stolto. Altri imprecarono alla loro sorte, al lavoro, alla terra, al metallo, e con ira percossero le viscere della terra spezzando il filone in briciole inutili, e poi, visto di avere fatto rovine e non guadagni, se ne andarono essi pure.
   Rimase solo il più perseverante. Con dolcezza trattò gli strati di terra tenace per perforarla senza guastare, fece saggi, approfondì, scavò. Uno splendido filone prezioso è finalmente messo allo scoperto. La perseveranza del minatore è stata premiata, e con il metallo purissimo che ha scoperto egli può ottenere molti lavori e acquistare molta gloria e molti clienti, perché tutti vogliono di quel metallo che solo la perseveranza ha saputo trovare là dove gli altri, infingardi o iracondi, non avevano nulla ottenuto.
   Ma l’oro trovato, per essere bello al punto di servire per l’orafo, deve a sua volta perseverare nella volontà di farsi lavorare. Se l’oro, dopo il primo lavoro di escavazione, più non volesse patire pene, rimarrebbe un metallo grezzo e non lavorabile. Voi vedete dunque che non basta il primo entusiasmo per riuscire, né come apostoli, né come discepoli, né come fedeli. Occorre perseverare.
   Erano molti i compagni di Ermasteo, e nel primo entusiasmo avevano promesso di venire tutti. Lui solo è venuto. Molti sono i miei discepoli e più saranno. Ma la terza parte della metà soltanto sapranno esserlo fino alla fine. Perseverare. È la grande parola. Per tutte le cose buone.
   Voi, quando gettate il tramaglio per strappare le conchiglie delle porpore, lo fate forse una volta sola? No. Ma una dopo l’altra e per ore, per giorni, per mesi, pronti a tornare sul posto l’anno seguente, perché questo dà pane e agiatezza, a voi e alle famiglie vostre. E vorreste fare diverso per le cose più grandi quali sono gli interessi di Dio e delle anime vostre, se fedeli; vostre e dei fratelli, se discepoli? In verità vi dico che per estrarre la porpora delle vesti eterne occorre perseverare fino alla fine.

   251.7 Ed ora stiamo da buoni amici finché è l’ora del ritorno. Così ci conosceremo meglio e sarà facile il ravvisarci fra di noi…».
   E si spargono nel piccolo seno scoglioso, cuocendo mitili e granchi rapiti agli scogli e pesci presi con piccole reti, dormendo su un letto d’alghe disseccate dentro caverne aperte da terremoti o da onde nella costa rocciosa, mentre cielo e mare sono un abbacinante azzurro che si bacia all’orizzonte, e i gabbiani fanno un continuo carosello di voli dal mare ai nidi, con stridi e sbatacchio di ali, uniche voci che insieme allo sciabordio dell’onda parlino in queste ore di afa estiva.

[40] sulla riva. Segue il disegno che riproduciamo nella stessa posizione in cui si presenta sul quaderno autografo. Bisogna capovolgerlo per leggerne le scritte: città sulla rivaistmoParte di città sul mare.
[41] Si legge… L’episodio della vedova di Sarepta, accennato già in 106.3, è narrato in 1 Re 17 e non sarà più annotato. Della storia del profeta Elia è uno degli episodi più citati insieme con quello del rapimento, narrato in 2 Re 2, 1-13 e ricordato in Siracide 48, 9. Quest’ultimo episodio, già annotato in 41.3 e 192.1, sarà menzionato ancora in 256.1, 507.3, 648.4 e 651.6. Altri riferimenti ad Elia e al suo successore Eliseo sono in: 63.3 - 140.2 (citazione introvabile) - 253.2 - 258.7.9 266.12 (Elia identificato con Giovanni Battista) - 322.2 - 349.8 - 380.3 - 381.9 454.5 - 483.8 - 554.6.7.