MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 252



CCLII. Il ritorno da Tiro. Miracoli e parabola della vite e dell’olmo.

   13 agosto 1945.

   252.1 La gente di Sicaminom, attirata dalla curiosità di vedere, ha assediato per tutto il giorno la località dei discepoli in attesa del ritorno del Maestro. Ma le discepole, intanto, non hanno perso tempo, lavando le vesti polverose e sudate, e sulla spiaggetta è tutta una allegra esposizione di vesti che asciugano al vento e al sole. Ora che sta per scendere la sera, e con la sera si farebbe sentire l’umido del salmastro, esse si affrettano a raccoglierle ancora un poco umide e a sbatterle e stirarle in tutti i sensi prima di piegarle, perché appaiano ben ordinate ai rispettivi proprietari.
   «Portiamo subito le sue vesti a Maria», dice Maria d’Alfeo.
   E termina: «È stata ben sacrificata ieri ed oggi in quella cameretta senz’aria!…».
   Comprendo così che l’assenza di Gesù è stata di più di un giorno e che in quel tempo Maria di Magdala, padrona di una sola veste, ha dovuto stare nascosta finché la sua d’imprestito non fosse riasciugata.
   Susanna risponde: «Per buona sorte non si lamenta mai! Non la giudicavo così buona».
   «E così umile, devi dire, e riservata. Povera figlia! Era proprio il diavolo che la tormentava! Liberata dal mio Gesù è tornata lei, quale certo era da fanciulla».
   E, parlando fra loro due, tornano in casa a portare le vesti lavate.
   Nella cucina, intanto, Marta si affanna a preparare le vivande, mentre la Vergine pulisce le verdure in una conchetta di rame e poi le mette a lessare per la cena.
   «Ecco. Tutto è asciugato, tutto è pulito e piegato. Ce ne era bisogno. Vai da Maria e dàlle le sue vesti», dice Susanna dando la veste a Marta.
   Le sorelle tornano insieme dopo poco.
   «Grazie a tutte e due. Il sacrificio della veste non mutata da giorni mi era il più penoso», dice Maria di Magdala sorridendo. «Ora mi sembra di essere tutta fresca».
   «Vai a sederti lì fuori, c’è un bel venticello. Ne devi avere bisogno dopo essere stata tanto chiusa», osserva Marta la quale, essendo meno alta della sorella e meno formosa, ha potuto indossare una veste di Susanna o di Maria d’Alfeo mentre le sue erano al bucato.
   «Questa volta è andata così. Ma in avvenire ci faremo il nostro piccolo sacco, come le altre, e non avremo questo disagio», dice la Maddalena.
   «Come? Intendi seguirlo come noi?».
   «Certamente. A meno che Egli non mi ordini il contrario.
   Vado ora sulla riva a vedere se tornano.

   252.2 Torneranno questa sera?».
   «Lo spero», risponde Maria Ss. «Sto in pensiero perché è andato in Fenicia. Ma penso che è con gli apostoli e penso anche che i fenici forse sono meglio di tanti altri. Ma vorrei tornasse, anche per la gente che aspetta. Quando sono andata alla fonte mi ha fermata una madre dicendomi: “Sei col Maestro galileo, quello che chiamano Messia? Vieni allora e guarda il mio bambino. È un anno che la febbre lo tormenta”. Sono entrata in una casetta. Povera creatura! Sembra un fiorellino che muoia! Lo dirò a Gesù».
   «Ce ne sono anche altri che chiedono guarigione. Più guarigione che insegnamento», dice Marta.
   «L’uomo difficilmente è tutto spirituale. Sente più forti le voci della carne e i suoi bisogni», risponde la Vergine.
   «Però molti dopo il miracolo nascono alla vita dello spirito».
   «Sì, Marta. Ed è anche per questo che mio Figlio fa tanti miracoli. Per bontà verso l’uomo ma anche per attirarlo, con quel mezzo, alla sua via, che altrimenti da troppi non sarebbe seguita».

   252.3 Ritorna a casa Giovanni di Endor, che non era andato con Gesù, e con lui molti discepoli diretti alle casette che abitano.
   Quasi contemporaneamente torna la Maddalena dicendo:
   «Stanno arrivando. Sono le cinque barche partite all’alba di ieri. Le ho riconosciute molto bene».
   «Saranno stanchi e assetati. Vado a prendere altra acqua. La fonte è molto fresca», e Maria d’Alfeo esce con le brocche.
   «Andiamo incontro a Gesù. Venite», dice la Vergine. Ed esce con la Maddalena e con Giovanni di Endor, perché Marta e Susanna rimangono ai fornelli, rosse e molto occupate di ul timare la cena.
   Costeggiando la riva giungono ad un moletto dove altre barche da pesca sono rientrate e stanno in riposo. Dalla punta di esso si vede bene tutto il golfo e la città che gli dà nome, e si vedono anche le cinque barche che filano leste, un poco piegate dalla corsa, con la vela ben tesa da un venticello di borea, ad esse propizio e di sollievo agli uomini affaticati dal calore.
   «Guarda come Simone e gli altri si destreggiano bene. Seguono la barca del pilota a meraviglia. Ecco che hanno superato il frangente; ora prendono il largo per girare la corrente che è forte in quel punto. Ecco… Adesso va tutto bene. Fra poco sono qui», dice Giovanni di Endor.
   Infatti le barche si avvicinano sempre più e già sono visibili i loro ospiti.

   252.4 Gesù è sulla prima, insieme a Isacco. Si è alzato in piedi e la sua alta statura appare in tutta la sua imponenza finché la vela, ammainandosi, non la nasconde per qualche minuto. Poiché la barca, virando, passa da prua di fianco per entrare al riparo del moletto, passando davanti alle donne che sono proprio in cima al moletto. Gesù sorride per salutarle, mentre esse si danno a camminare svelte per giungere al punto di approdo contemporaneamente alla barca.
   «Dio ti benedica, Figlio mio!», dice Maria salutando Gesù che scende sulla banchina.
   «Dio ti benedica, Mamma. Sei stata in pensiero? A Sidone non c’era chi cercavamo. Siamo andati fino a Tiro. E là abbiamo trovato. Vieni, Ermasteo… Ecco, Giovanni. Questo giovane vuole essere ammaestrato. Te lo affido».
   «Non ti deluderò nell’ammaestrarlo sulla tua parola. Grazie, Maestro! Ci sono molti che ti attendono», risponde Giovanni di Endor.
   «Vi è anche un povero bambino malato, Figlio mio, e la madre ti desidera».
   «Vado subito da lei».
   «So chi è, Maestro. Ti ci accompagno. Vieni anche tu, Ermasteo. Comincia a conoscere la bontà infinita del nostro Signore», dice l’uomo di Endor.
   Scendono dalla seconda barca Pietro, dalla terza Giacomo, dalla quarta Andrea, dalla quinta Giovanni, i quattro piloti, seguiti dagli altri apostoli o discepoli che erano con loro e che si affollano intorno a Gesù e a Maria.
   «Andate a casa. Vengo subito Io pure. Preparate intanto per la cena e dite a chi attende che sul finire del vespero parlerò».
   «E se ci sono dei malati?».
   «Li sanerò per prima cosa. Anche prima di cena, perché possano tornare a casa felici».
   Si separano, Gesù andando con l’uomo di Endor ed Ermasteo verso la città, gli altri rifacendo il cammino sulla spiaggia ghiaiosa, narrando tutto quanto hanno visto e udito, contenti come bambini che tornano dalla mamma.

   252.5 È contento anche Giuda di Keriot. Mostra tutti gli oboli che i pescatori di porpora hanno voluto dargli e soprattutto mostra un bel fagottello della preziosa materia. «Questo per il Maestro. Se non la porta Lui, chi mai la può portare? Mi hanno chiamato in disparte dicendo: “Abbiamo delle preziose madrepore nella barca e abbiamo anche una perla. Pensa! Un tesoro. Non so come ci sia toccata tanta fortuna. Ma te le diamo volentieri per il Maestro. Vieni a vederle”. Sono andato per accontentarli mentre il Maestro si era ritirato in una grotta a pregare. Erano bellissimi coralli e una perla, non grossa ma bella. Ho detto loro: “Non vi private di queste cose. Il Maestro non porta nessun gioiello. Piuttosto datemi un poco di quella porpora per farne ornamento alla sua veste”. Ne avevano questo mucchietto. Me l’hanno voluta dare tutta, ad ogni costo. Tieni, Madre, fanne un bel lavoro, come tu sai, per il nostro Signore. Ma fallo, sai? Se Lui se ne avvede, vuole che la si venda per i poveri. E a noi piace vederlo vestito come si merita. Non è vero?».
   «Oh! sì davvero! Io ci soffro quando lo vedo così semplice in mezzo ad altri, Lui Re, essi peggio che schiavi e tutti infiocchettati e lustri. E lo guardano come un povero indegno di loro!», dice Pietro.
   «Hai visto, eh? che risate quei signori di Tiro mentre prendevamo congedo dai pescatori?!», gli risponde suo fratello.
   «Io ho detto: “Vergognatevi, cani che siete! Vale più un filo della sua veste bianca di tutti i vostri fronzoli”», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Io vorrei, poiché Giuda ha potuto avere questa cosa, che tu la preparassi per i Tabernacoli», dice l’altro Giuda, il Taddeo.
   «Non ho mai filato con la porpora. Ma mi proverò…», dice Maria Ss. toccando il serico stame lieve, soffice, di splendido colore.
   «La mia nutrice è esperta in questo. A Cesarea la troveremo.
   Ti farà vedere. Imparerai subito, perché tu sai fare tutto bene. Io farei un gallone al collo, alle maniche e al basso della veste: porpora su lino bianchissimo o lana bianchissima, a palme e rosoni come sono sui marmi del Santo, e col nodo di Davide al centro. Starebbe molto bene», dice la Maddalena, esperta di bellezze in genere.
   Marta dice: «Nostra madre fece quel disegno, per la sua bellezza, sulla veste che Lazzaro ebbe per il suo viaggio nelle terre di Siria quando ne prese possesso. L’ho conservato perché fu l’ultimo lavoro di nostra madre. Te lo manderò».
   «Lo farò pregando per la madre vostra».

   252.6 Le case sono raggiunte. Gli apostoli si spargono per radunare quelli che vogliono il Maestro, specie i malati…
   E torna Gesù con Giovanni di Endor ed Ermasteo. E passa salutando fra quelli che si pigiano davanti alle casette. Il suo sorriso è una benedizione.
   Gli presentano l’immancabile malato di occhi, quasi acciecato dalle oftalmie ulcerose, e lo risana. Poi è la volta di uno, certo malarico, consunto e giallo come un cinese, e lo risana.
   Poi è una donna che gli chiede un miracolo singolare: il latte per il suo petto privo di latte, e mostra un bambino di pochi giorni, denutrito e tutto rosso come per riscaldo. Piange: «Tu vedi. Abbiamo il comando di ubbidire all’uomo e di procreare. Ma che giova se poi vediamo languire i figli? È il terzo che genero e due li ho coricati nel sepolcro, per questo petto cieco. Questo già muore perché nato nei calori, gli altri vissero l’uno dieci lune, l’altro sei, per farmi piangere più ancora quando morirono per malattia di visceri. Avessi il mio latte, non accadrebbe…».
   Gesù la guarda e dice: «Il tuo bambino vivrà. Abbi fede. Va’ a casa tua e, come sarai giunta, offri la mammella al pargolo. Abbi fede».
   La donna se ne va ubbidiente col miserello, che si lagna come un gattino, stretto sul cuore.
   «Ma le verrà il latte?».
   «Certo che verrà».
   «Io dico che le camperà il bambino, ma che il latte non verrà e sarà già miracolo se campa. È morto quasi di stenti».
   «Invece io dico che le viene il latte».
   «Sì».
   «No».
   I pareri sono vari come le persone.

   252.7 Intanto Gesù si ritira a mangiare. Quando esce per predicare di nuovo, la gente è ancora di più, perché la notizia del miracolo del bambino malato di febbri, compiuto da Gesù appena sbarcato, si è sparsa per la città.
   «Vi do la mia pace perché vi prepari lo spirito all’intendere.
   Nella tempesta non può giungere la voce del Signore. Ogni turbamento nuoce alla Sapienza perché essa è pacifica, venendo da Dio. Il turbamento invece non viene da Dio, perché le sollecitudini, le ansie, i dubbi, sono opere del Maligno per turbare i figli dell’uomo e separarli da Dio.
   Vi propongo questa parabola perché meglio intendiate l’insegnamento.
   Un agricoltore aveva molti alberi, nei suoi campi, e viti che davano molto frutto, fra le quali una di qualità pregiata di cui era molto orgoglioso. Un anno questa vite fece molte fronde e pochi grappoli. Un amico disse all’agricoltore: “È perché l’hai troppo poco potata”. L’anno di poi l’uomo la potò molto. La vite fece pochi tralci, ancor meno grappoli. Un altro amico disse: “È perché l’hai troppo potata”. Il terzo anno l’uomo la lasciò stare. La vite non fece neppure un grappolo e mise ben poche foglie, magre, accartocciate e sparse di ruggine. Un terzo amico sentenziò: “Muore perché il terreno non è buono. Bruciala”. “Ma perché, se è lo stesso terreno che hanno le altre e se la curo come le altre? Prima faceva bene!”. L’amico si strinse nelle spalle e se ne andò.
   Passò un ignoto viandante e si fermò ad osservare l’agricoltore tristamente appoggiato al tronco della povera vite. “Che hai?”, gli chiese. “Morti in casa?”.
   “No. Ma mi muore questa vite che amavo tanto. Non ha più succo per fare frutto. Un anno poco, l’altro meno, questo niente. Ho fatto quanto mi hanno detto, ma non è giovato”.
   L’ignoto viandante entrò nel campo e si accostò alla vite.
   Toccò le foglie, prese in mano una zolla di terra, l’annusò, la sbriciolò fra le dita, alzò lo sguardo al tronco di un albero che sorreggeva la vite. “Devi levare quel tronco. Questa è sterilita da quello”.
   “Ma se è il suo appoggio da anni?!”.
   “Rispondimi, uomo: quando tu mettesti questa vite a dimora, come era essa, e come era esso?”.
   “Oh! essa era un bel magliolo di tre anni. L’avevo ricavato da un’altra mia pianta e per portarlo qui avevo fatto una profonda buca, onde non offendere le radici nel levarlo dalla zolla natia. Anche qui avevo fatto una buca uguale, anzi ancor più vasta, perché fosse subito a suo agio, e prima avevo zappettato tutta la terra all’intorno perché fosse morbida per le radici, che potessero espandersi subito, senza fatica. Con ogni cura l’ho sistemata, mettendo sul fondo allettante concime. Le radici, tu lo sai, si fanno forti se trovano subito ciò che le nutre. Meno mi occupai dell’olmo. Era un alberello destinato solo a sorreggere il magliolo. Perciò lo misi quasi superficialmente presso il magliolo, lo rincalzai e me ne andai. Attecchirono tutti e due, perché la terra è buona. Ma la vite cresceva di anno in anno, amata, potata, sarchiata. L’olmo invece stentava. Ma per quello che valeva!… Poi si è fatto robusto. Lo vedi ora come è bello? Quando torno da lontano ne vedo la cima svettare alta come una torre, e mi pare l’insegna del mio piccolo regno. Prima la vite lo ricopriva e non si vedeva la sua bella fronda. Ma ora guarda come è bella là in alto, nel sole! E che tronco! Diritto, forte. Poteva sorreggere questa vite per anni ed anni, anche fosse divenuta uguale a quelle prese sul torrente del Grappolo dagli esploratori d’Israele. Invece…”.
   “Invece te l’ha uccisa. L’ha soverchiata. Tutto era buono per il suo vivere: il terreno, la posizione, la luce, il sole, le cure che le davi. Ma questo l’ha uccisa. È divenuto troppo forte. Le ha legate le radici fino a strozzarle, le ha levato ogni succo del suolo, le ha messo un bavaglio al suo respiro, al suo bisogno di luce. Sega subito questa inutile e poderosa pianta, e la tua vite risorgerà. E meglio ancora risorgerà se tu, con pazienza, scaverai il suolo per mettere a nudo le radici dell’olmo e per segarle, onde essere sicuro che non gettino polloni. Marciranno nel suolo colle loro ultime ramificazioni, e da morte diverranno vita perché diverranno concime, degno castigo al loro egoismo. Il tronco lo brucerai e ti darà utile così. Non serve che al fuoco una pianta inutile e nociva, e va levata perché ogni bene vada alla pianta buona e utile. Abbi fede in ciò che io dico e sarai contento”.
   “Ma tu chi sei? Dimmelo perché io possa aver fede”.
   “Io sono il Sapiente. Chi crede in me sarà sicuro”, e se ne andò.

   252.8 L’uomo stette un poco in forse. Poi si decise e mise mano alla sega. Anzi chiamò gli amici per esserne aiutato.
   “Ma sei stolto?”. “Perderari l’olmo oltre che la vite”. “Io mi limiterei a potarne la cima per dare aria alla vite. Non di più”. “Dovrà pure avere un sostegno. Fai un lavoro inutile”. “Chissà chi era! Forse uno che ti odia a tua insaputa”. “Oppure un pazzo”, e via e via.
   “Io faccio ciò che mi ha detto. Ho fede in lui”, e segò l’olmo presso la radice e, non contento, per un largo raggio mise a nudo le radici delle due piante, con pazienza segò quelle dell’olmo, badando di non ferire quelle della vite, ricoprì la gran buca e alla vite, rimasta senza un sostegno, mise accosto un robusto paletto di ferro con la parola “Fede”, scritta sopra una tavola legata in cima al palo.
   Gli altri se ne andarono crollando il capo.
   Passò l’autunno e l’inverno. Venne la primavera. I tralci attorcigliati alla penzana si ornarono di gemme e gemme, prima serrate come in un astuccio di velluto argentato e poi socchiuse sullo smeraldo delle nascenti fogliette, e poi aperte, e poi allunganti dal tronco nuovi tralci robusti, tutti un fiorettar di fioretti e poi tutto un legar di acinelli. Più grappoli che foglie, e queste ampie, verdi, robuste al pari dei penzoli di due, tre e più grappoli ancora. E ogni grappolo un fitto di acini carnosi, succosi, splendidi.
   “Ed ora che dite? Era o non era l’albero la ragione per cui la mia vite moriva? Aveva o non aveva detto bene il Sapiente? Ho avuto o non ho avuto ragione a scrivere su quella tavola la parola ‘Fede’?”, disse l’uomo agli amici increduli.
   “Hai avuto ragione. Te beato che hai saputo aver fede ed essere capace di distruggere il passato e ciò che ti fu detto nocivo”.
   Questa la parabola.

   252.9 Per il fatto della donna dal petto secco, ecco la risposta. Guardate verso la città».
   Tutti si volgono verso la città e vedono la donna di prima che corre e, pur correndo, non si stacca il figliolino dalla mammella piena, ben piena di latte, che il piccolo affamato succhia con una voracità tale che quasi si affoga. E la donna non si ferma altro che quando è ai piedi di Gesù, davanti al quale stacca un momento il bambino dal capezzolo urlando: «Benedici, benedici, perché viva per Te!» Superato questo momento, Gesù riprende:
   «E per le vostre ipotesi sul miracolo, avete avuto risposta.

   252.10 Ma la parabola ha un senso più ampio del piccolo episodio di una fede premiata. Ed è questo.
   Iddio aveva messo la sua vite, il suo popolo, in luogo adatto, fornendolo di tutto quanto gli occorreva per crescere e dare sempre maggiori frutti, appoggiandolo ai maestri perché più facilmente potesse comprendere la Legge e farne sua forza. Ma i maestri vollero superare il Legislatore e crebbero, crebbero, crebbero fino ad imporsi più della eterna parola. E Israele si è sterilito. Il Signore ha mandato allora il Sapiente perché coloro che in Israele, con animo retto, si addolorano di questo sterilire e tentano questo e quel rimedio, secondo i dettami e consigli dei maestri, dotti umanamente ma indotti soprannaturalmente e perciò lontani dal conoscere il necessario da farsi per rendere vita allo spirito di Israele, possano avere un consiglio veramente salutare.
   Or bene, che accade? Perché non riprende forza Israele e torna vigoroso come nei tempi aurei della sua fedeltà al Signore? Perché il consiglio sarebbe: levare tutte le cose parassitarie cresciute a detrimento della Cosa santa — la Legge del Decalogo — quale è stata data, senza compromessi, senza tergiversazioni, senza ipocrisie, levarle per lasciare aria, spazio, nutrimento alla Vite, al Popolo di Dio, dandogli un robusto, diritto, non piegabile sostegno, unico, dal nome solare: la Fede. E questo consiglio non viene accettato. Perciò vi dico che Israele perirà, mentre potrebbe risorgere e possedere il Regno di Dio se sapesse credere e generosamente ravvedersi e mutare sostanzialmente se stesso.
   Andate in pace e il Signore sia con voi».