MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 275



CCLXXV. Quattro nuovi discepoli. Discorso sulle opere di misericordia corporale e spirituale.

   8 settembre 1945.
   […]

   275.1 Gesù è nelle pianure di Corozim, lungo la valle dell’alto Giordano, fra il lago di Genezaret e quello di Meron. Una campagna piena di vigneti in cui già si iniziano le vendemmie.
   Deve esservi già da qualche giorno, perché a Lui sono uniti questa mattina i discepoli che erano a Sicaminon, e fra questi è di nuovo Stefano ed Erma, e Isacco si scusa di non aver potuto esserci prima perché, dice, i nuovi venuti e le riflessioni se era bene o meno portarli seco lo hanno ritardato. «Ma», dice ancora, «ho pensato che la via del Cielo è aperta a tutti quelli di buona volontà, e mi sembra che questi, benché allievi di Gamaliele, siano tali».
   «Hai detto e fatto bene. Conducimeli qui». Isacco va e torna con i due.
   «La pace a voi. Tanto vi è sembrata vera la parola apostolica da volervici unire?».
   «Sì. E più la tua. Non ci respingere, Maestro».
   «Perché lo dovrei?».
   «Perché siamo di Gamaliele».
   «E con ciò? Io onoro il grande Gamaliele e lo vorrei con Me perché è degno di esserlo. Non gli manca che questo a fare della sua sapienza una perfezione. Che vi ha detto quando lo avete lasciato? Perché certo lo avrete salutato».
   «Sì. Ci ha detto: “Voi beati che potete credere. Pregate perché io dimentichi per poter ricordare”».
   Gli apostoli, che curiosi sono stretti intorno a Gesù, si guardano l’un l’altro e si chiedono sottovoce: «Che ha voluto dire? Che vuole? Dimenticare per ricordare?».
   Gesù sente questo bisbiglio e spiega: «Vuol dimenticare la sua sapienza per assumere la mia. Vuol dimenticare di essere rabbi Gamaliel per ricordarsi che è un figlio di Israele in attesa del Cristo. Vuol dimenticare se stesso per ricordare la Verità».
   «Non è menzognero Gamaliele, Maestro», scusa Erma.
   «No. Ma è la farragine di povere umane parole che è menzognera. Le parole sostituite alla Parola. Bisogna dimenticarle, spogliarsene, venire nudo e vergine alla Verità per essere rivestito e fecondato. Questo richiede umiltà. Lo scoglio…».
   «Allora noi pure dobbiamo dimenticare?».
   «Senza dubbio. Dimenticare tutto quanto è cosa d’uomo.
   Ricordare tutto quanto è cosa di Dio. Venite. Voi potete farlo».
   «Noi vogliamo farlo», assicura Erma.
   «Avete già vissuto la vita dei discepoli?».
   «Sì. Dal giorno che seppimo ucciso il Battista. La notizia venne a Gerusalemme molto rapida, portata dai cortigiani e capi di Erode. La sua morte ci trasse dal torpore», risponde Stefano.
   «Il sangue dei martiri è sempre vita ai torpidi, Stefano. Ricordalo».
   «Sì, Maestro.

   275.2 Parlerai oggi? Io ho fame della tua parola».
   «Ho parlato già. Ma parlerò ancora, molto, a voi discepoli. I vostri compagni, gli apostoli, hanno già iniziato la missione dopo attiva preparazione. Ma non bastano ai bisogni del mondo. E bisogna aver tutto fatto, in tempo giusto. Io sono come uno che ha una scadenza e deve aver fatto tutto entro quel tempo. Vi chiedo, a tutti, aiuto, e in nome di Dio vi prometto aiuto ed un futuro di gloria».
   L’occhio acuto di Gesù scopre un uomo tutto avvolto in un mantello di lino: «Non sei tu il sacerdote Giovanni?».
   «Sì, Maestro. Più arido del vallone maledetto è il cuore dei giudei. Sono fuggito alla tua ricerca».
   «E il sacerdozio?».
   «La lebbra mi aveva espulso da esso per la prima volta. Gli uomini per la seconda, perché io ti amo. La tua Grazia mi aspira a sé: a Te. Essa pure mi espelle da un luogo profanato per portarmi a luogo puro. Tu mi hai purificato, Maestro, nel corpo e nello spirito. E cosa pura non può, non deve accostarsi a cosa impura. Sarebbe offesa a chi ha purificato».
   «Hai un giudizio severo. Ma non è ingiusto».
   «Maestro, le brutture di famiglia sono note a chi vive in famiglia e vanno dette solo a chi è di animo retto. Tu lo sei. E, del resto, Tu sai. Ad altri non lo direi. Qui siamo Tu, i tuoi apostoli, e due che sanno come Te e come me. Perciò…».
   «Va bene. Ma… Oh! tu pure?! La pace sia a te! Venuto per dare altro cibo?».
   «No, per avere io del tuo cibo».
   «Ti si sono sciupati i raccolti?».
   «Oh! no. Mai tanto belli. Ma, Maestro mio, io cerco un altro pane e un altro raccolto: il tuo. E con me ho il lebbroso che Tu hai guarito nelle mie terre. È tornato al padrone. Ma lui ed io abbiamo ora un padrone da seguire e servire: Te».
   «Venite. Uno, due, tre, quattro… Buona raccolta! Ma avete riflettuto la vostra posizione presso il Tempio? Voi sapete, ed Io so… e altro non dico…».
   «Sono uomo libero e vado con chi voglio», dice il sacerdote Giovanni.
   «E io pure», dice l’ultimo venuto, lo scriba Giovanni, che è quello che dette cibo[80] il sabato ai piedi del monte delle Beatitudini.
   «E noi pure», dicono Erma e Stefano. E Stefano aggiunge:
   «Parlaci, Signore. Noi ignoriamo cosa sia di preciso la nostra missione. Dàcci il minimo per poterti servire subito. Il resto verrà seguendoti».
   «Sì. Sul monte parlasti delle beatitudini. E questa era lezione per noi. Ma noi, presso gli altri, nel secondo amore, quello del prossimo, che dobbiamo fare?», chiede lo scriba Giovanni.

   275.3 «Dove è Giovanni di Endor?», chiede per tutta risposta Gesù.
   «Là, Maestro, con quei guariti».
   «Che venga qui».
   Giovanni di Endor accorre. Gesù gli posa la mano sulla spalla con particolare saluto e dice: «Ecco. Ora Io parlerò. Voglio avere davanti voi dal nome santo. Tu, mio apostolo; tu, sacerdote; tu, scriba; tu, Giovanni del Battista; e tu, infine, a chiudere la corona di grazie fatte da Dio. E se ultimo ti nomino, sai che ultimo non sei nel mio cuore. Te l’ho promesso un giorno questo discorso. Abbilo».
   E Gesù, come solitamente fa, sale su un piccolo argine perché tutti possano vederlo, avendo di fronte, in prima fila, i cinque Giovanni. Dietro è la folla dei discepoli mescolata a quella degli accorsi da ogni parte della Palestina per bisogno di salute o di parola.

   275.4 «La pace a tutti voi e la sapienza su voi.
   Udite. Mi è stato chiesto, un giorno lontano, da uno, se e fino a che punto Dio è misericordioso verso i peccatori. Chi chiedeva ciò era un peccatore perdonato che non riusciva a persuadersi dell’assoluto perdono di Dio. E Io con parabole lo calmai, lo rassicurai e promisi che per lui avrei sempre parlato di misericordia, perché il suo cuore pentito, che simile ad un fanciullo smarrito gli piangeva dentro, si sentisse sicuro di essere già nei possessi del Padre suo dei Cieli.
   Dio è Misericordia perché Dio è Amore. Il servo di Dio deve essere misericordioso per imitare Iddio.
   Dio si serve della misericordia come di un mezzo per attirare a Sé i figli sviati. Il servo di Dio deve servirsi della misericordia come di un mezzo per portare a Dio i figli sviati.
   Il precetto dell’amore è obbligatorio a tutti. Ma deve essere tre volte tale nei servi di Dio. Non si conquista il Cielo se non si ama. Ma questo basta dirlo ai credenti. Ai servi di Dio Io dico: “Non si fa conquistare il Cielo ai credenti se non si amano con perfezione”.
   E voi che siete? Voi che vi pigiate qui intorno? Per la più parte siete creature che tendete a vita perfetta, alla vita benedetta, faticosa, luminosa del servo di Dio, del ministro del Cristo. E che doveri avete in questa vita di servo e ministro? Un amore totale a Dio, un amore totale al prossimo. Il vostro scopo: servire. Come? Rendendo a Dio coloro che il mondo, la carne, il demonio hanno rapito a Dio. In che modo? Con l’amore. L’amore che ha mille forme per esplicarsi e un unico fine: far amare.

   275.5 Pensiamo al nostro bel Giordano. Come è imponente a Gerico! Ma così era alla sorgente? No. Era un filo di acqua, e tale sarebbe rimasto se fosse stato sempre solo. Invece, ecco che da monti e colli, dell’una e l’altra sponda della sua valle, scendono mille e mille affluenti, quali soli, quali già fatti di cento rivi, e tutti si riversano nel suo letto che cresce, cresce, cresce, fino a divenire, dal dolce ruscello di argento azzurro che ride e scherza nella sua fanciullezza di fiume, il largo, solenne, placido fiume che innesta un nastro di azzurro celeste fra le ubertose sponde di smeraldo.
   Così è l’amore. Un filo iniziale negli infanti della via della Vita, che sanno appena salvarsi dal peccato grave per timore della punizione; e poi, proseguendo nella via della perfezione, ecco che dalle montagne dell’umanità, scabre, aride, superbe, dure, si esprimono, per volontà d’amore, rivi e rivi di questa principale virtù, e tutto serve a farli sorgere e sgorgare: i dolori e le gioie; così come sui monti servono a far rio le nevi gelate e il sole che le discioglie. Tutto serve ad aprire loro la via: l’umiltà come il pentimento. Tutto serve a convogliarle al fiume iniziale. Perché l’anima, spinta per quella via, ama le discese nell’annichilimento dell’io, aspirando a risalire, attirata dal Sole-Iddio, dopo esser divenuta fiume potente, bello, benefattore.
   I rii che nutrono l’embrionale rio dell’amore di temenza sono, oltre le virtù, le opere che le virtù insegnano a compiere. Le opere che, appunto per essere rii d’amore, sono opere di misericordia. Vediamole insieme. Alcune erano già note ad Israele, altre ve le rendo note Io perché la mia legge è perfezione d’amore.

   275.6 Dare da mangiare agli affamati.
   Dovere di riconoscenza e di amore. Dovere di imitazione. I figli sono grati al padre del pane che procura loro e, fatti uomini, lo imitano col procurare pane ai figli loro, e al padre, ormai inabile al lavoro per l’età, procurano il pane col lavoro loro proprio, amorosa restituzione, doverosa restituzione del bene avuto. Il quarto precetto lo dice: “Onora il padre e la madre”. È onorare la loro canizie anche non ridurli a mendicare il pane da altri.
   Ma prima del quarto è il primo precetto: “Ama Dio con tutto te stesso”, e il secondo: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Amare Dio per Se stesso e amarlo nel prossimo è perfezione. Lo si ama dando pane a chi ha fame, in ricordo di quante volte Egli sfamò l’uomo con atti di miracolo.
   Ma, senza guardare solo alla manna e alle quaglie, guardiamo al miracolo continuo del grano che germina per bontà di Dio, che ha dato terra atta a colture e regola venti, piogge, calore, stagioni, perché il seme diventi spiga e la spiga pane. E non è stato miracolo della sua misericordia quello di avere, con luce soprannaturale, insegnato al figlio colpevole che quelle erbe alte e sottili, terminanti in un granire di semi d’oro dal caldo odore di sole, chiusi nella dura fascia di squamme spinose, erano cibo che andava colto, sgusciato, sfarinato, intriso, cotto? Dio ha insegnato tutto questo. E come coglierlo e mondarlo e pestarlo e intriderlo e cuocerlo. Mise le pietre presso le spighe e l’acqua presso le pietre, accese con riflessi d’acqua e di sole il primo fuoco sulla Terra e, sopra al fuoco, il vento portò dei grani che arsero spandendo grato odore, perché l’uomo capisse che più buono di così come è tratto dalla spiga, come sogliono gli uccelli, o bagnato con acqua dopo sfarinato facendone un pastone colloso, è quando il fuoco lo tosta.
   Non vi pensate, voi che ora mangiate il buon pane cotto nel forno famigliare, quanta misericordia indica questo essere giunti a questa perfezione di cottura, quanto cammino è stato fatto fare alla conoscenza umana dalla prima spiga masticata, come lo fa il cavallo, all’attuale pane? E da chi? Dal Datore del pane. E così per ogni sorta di cibo che l’uomo ha saputo, per lume benefico, individuare fra le piante e gli animali di cui il Creatore ha coperto la Terra, luogo di castigo paterno per il figlio colpevole.
   Dare dunque da mangiare agli affamati è preghiera di riconoscenza al Signore e Padre che ci sfama, ed è imitare il Padre, del quale abbiamo somiglianza gratis data e che occorre sempre più aumentare imitando le sue azioni.

   275.7 Dare da bere agli assetati.
   Avete mai pensato che avverrebbe se il Padre non facesse più piovere le acque? Eppure, se Egli dicesse: “Per la vostra durezza verso chi ha sete Io impedirò alle nubi di scendere sulla terra”, potremmo noi protestare e maledire? L’acqua, più ancora del grano, è di Dio. Perché il grano è coltivato dall’uomo, ma solo Dio coltiva i campi delle nubi che scendono come piogge o rugiade, come nebbie o nevi, e nutrono campi e cisterne, e colmano fiumi e laghi, dando ricovero ai pesci che sfamano l’uomo con altri animali. Potete voi dunque dire, a chi vi dice: “Dammi da bere”, “No. Quest’acqua è mia e non te la do”? Bugiardi! Chi di voi ha fatto un sol fiocco di neve o una sola stilla di pioggia? Chi ha evaporato un sol diamante di rugiada col suo calore astrale? Nessuno. È Dio che fa ciò. E, se le acque scendono dal cielo e risalgono, è solo perché Dio regola questa parte di creazione così come regola il resto.
   Date dunque la buona acqua fresca delle vene del suolo, o quella pura del vostro pozzo, o quella che ha empìto le vostre cisterne, a chi ha sete. Sono acque di Dio. E per tutti. Datele a chi ha sete. Per così piccola opera, che non vi costa denaro, che non richiede altra fatica di quella di porgere una tazza o una brocca, Io ve lo dico, avrete compenso in Cielo. Perché non l’acqua ma l’atto di carità è grande agli occhi e al giudizio di Dio.

   275.8 Vestire gli ignudi.
   Passano per le strade della Terra miserie nude, vergognose, pietose. Sono vecchi abbandonati, sono invalidi per malattie o per sciagure, sono lebbrosi che tornano alla vita per bontà del Signore, sono vedove cariche di prole, sono colpiti da sventure che li hanno privati di tutto che è agiatezza, sono orfanelli innocenti. Se Io spingo l’occhio sulla vasta Terra, dovunque vedo persone ignude o coperte di cenci che appena riparano decenza e non riparano il freddo, e queste persone guardano con occhio avvilito i ricchi che passano in soffici vesti, coi piedi calzati da morbidi calzari. Avvilito con bontà nei buoni, avvilito con odio nei men buoni. Ma perché non sovvenite quel loro avvilimento, facendoli più buoni se buoni, distruggendo l’odio se men buoni, col vostro amore?
   Non dite: “Ne ho solo per me”. Come è per il pane, vi è sempre qualcosa in più del necessario sulle tavole e negli armadi di chi non è assolutamente derelitto. Fra questi che mi ascoltano c’è più di uno che ha saputo, di una veste smessa per logoramento, trarre la vesticciuola per l’orfano o per il bambino poverello, e da un vecchio lenzuolo fare fasce per un innocente senza fasce; e vi è uno che, mendico, seppe spartire per anni il pane elemosinato a fatica con chi per lebbra non poteva andare stendendo la mano alle soglie dei ricchi. E in verità vi dico che questi misericordiosi non sono da cercarsi fra i possessori di beni ma fra le schiere umili dei poveri, che per essere tali sanno come è penosa povertà.
   Anche qui, come per l’acqua ed il pane, pensate che lana e lino con cui vi vestite vengono da animali e piante che il Padre ha creato non per i ricchi soltanto fra gli uomini, ma per tutti gli uomini. Perché Dio ha dato una sola ricchezza all’uomo: quella sua della Grazia, della salute, dell’intelligenza. Ma non la sporca ricchezza che è l’oro, che elevaste — da metallo non più bello di ogni altro, molto meno utile del ferro con cui si fanno le vanghe e gli aratri, gli erpici e le falci, gli scalpelli, i martelli, le seghe, le pialle, i santi arnesi del santo lavoro — a nobile metallo, che lo elevaste ad una nobiltà inutile, menzognera, per istigazione di Satana che da figli di Dio vi ha resi selvaggi come fiere. La ricchezza di ciò che è santo vi aveva dato a farvi sempre più santi! Non questa omicida ricchezza che tanto sangue e lacrime spreme.
   E date come vi fu dato. Date in nome del Signore, senza temere di restare ignudi. Meglio sarebbe morire di freddo per essersi spogliati in favore del mendico, che far assiderare il cuore, pur sotto le morbide vesti, per mancanza di carità. Il tepore del bene fatto è più dolce di quello di un mantello di purissima lana, e le carni ricoperte del povero parlano a Dio e dicono: “Benedici chi ci ha vestiti”.

   275.9 Se sfamare, dissetare, rivestire, levando a sé per dare ad altri, unisce la santa temperanza alla santissima carità, e vi unisce pure la beata giustizia, per cui si modifica con santità la sorte dei fratelli infelici, dando di ciò di cui abbondiamo, per permesso di Dio, a favore di chi, per malvagità di uomini o di morbi, ne è privo, albergare i pellegrini unisce la carità alla fiducia e al benpensare del prossimo. È anche questa una virtù, sapete? Una virtù che denota, in chi la possiede, oltre che carità, onestà. Perché chi è onesto agisce bene e, dato che come si agisce solitamente si pensa agiscano gli altri, ecco che la fiducia, la semplicità, che credono che le parole altrui siano vere, denotano che colui che le ascolta è uno che dice la verità nelle grandi e piccole cose, non giungendo perciò a diffidenze sui racconti altrui.
   Perché pensare, davanti al pellegrino che vi chiede ricovero: “E poi se è ladro e omicida?”. Tanto tenete alle vostre ricchezze da tremare per esse di ogni estraneo che giunge? Tanto tenete alla vostra vita da sentirvi raggricciare di orrore pensando di poterne essere privati? E che? Pensate che Dio non possa difendervi dai ladroni? E che? Temete nel passante un ladrone e non avete paura dell’ospite tenebroso che vi deruba di ciò che è insostituibile? Quanti ospitano il demonio nel cuore! Potrei dire: tutti ospitano il peccato capitale, eppure nessuno trema per questo. È dunque prezioso solo il bene delle ricchezze e della esistenza? E non sarà più preziosa l’eternità, che vi lasciate rubare e uccidere dal peccato? Povere, povere anime derubate del loro tesoro, messe in mano agli assassini, così, come cose di poco conto, mentre si barricano le case, si mettono chiavistelli, cani e forzieri a difesa delle cose che seconoi non portiamo nell’altra vita!
   Perché voler vedere in ogni pellegrino un ladrone? Fratelli siamo. La casa si apre ai fratelli di passaggio. Non è del nostro sangue il pellegrino? Oh! sì! È sangue di Adamo e di Eva. Non è nostro fratello? E come no?! Il Padre è uno solo: Iddio che ci ha dato un’anima uguale, così come ai figli di un letto solo il padre dà un sangue uguale. È povero? Fate che non sia più povero di lui il vostro spirito privo di amicizia del Signore. Lacera è la sua veste? Fate che non sia più lacerata la vostra anima dal peccato. È fangoso o polveroso il suo piede? Fate che più del suo sandalo sporco per tanto cammino, rotto nel lungo an dare, non sia il vostro io logorato da vizi. È brutto il suo aspetto? Fate che non più brutto sia il vostro agli occhi di Dio. È straniero il suo parlare? Fate di non avere voi il linguaggio del cuore incomprensibile nella città di Dio.
   Vedete nel pellegrino un fratello. Tutti siamo pellegrini in cammino per il Cielo e tutti bussiamo alle porte che sono lungo la via che va al Cielo. E le porte sono i patriarchi e i giusti, gli angeli e gli arcangeli, ai quali ci raccomandiamo per avere aiuto e protezione onde giungere alla mèta senza cadere esausti nel buio della notte, nel rigore del gelo, preda delle insidie dei lupi e sciacalli delle passioni malvagie, e dei demoni. Come vogliamo che angeli e santi ci aprano il loro amore per ospitarci e ridarci lena a proseguire la via, così facciamo noi per i pellegrini della Terra. E per ogni volta che apriremo la casa e le braccia, salutando col dolce nome di fratello un ignoto, pensando a Dio che lo conosce, Io vi dico che saranno percorse molte miglia nel cammino che va ai Cieli.

   275.10 Visitare gli infermi.
   Oh! che in verità, come sono pellegrini, così gli uomini sono tutti infermi. E le malattie più gravi sono quelle dello spirito, le invisibili e le più letali. Eppure non fanno schifo. Non ripugna la piaga morale. Non nausea il fetore del vizio. Non fa paura la pazzia demoniaca. Non fa ribrezzo la cancrena di un lebbroso di spirito. Non fa fuggire il sepolcro pieno di marciume di un uomo dall’animo morto e putrefatto. Non è anatema accostarsi ad una di queste impurità. Povero, ristretto pensiero dell’uomo!
   Ma dite: ha più valore lo spirito o la carne e il sangue? Ha potere il materiale di corrompere l’incorporeo per vicinanza? No. Io vi dico di no. Ha un infinito valore lo spirito rispetto alla carne e al sangue, questo sì; ma non ha maggior potere la carne dello spirito. E lo spirito può essere corrotto non da cose materiali ma da cose spirituali. Se anche uno cura un lebbroso, non si fa lebbroso il suo spirito, ma anzi, per la carità esercitata eroicamente fino a segregarsi in valli di morte per pietà del fratello, cade da lui ogni macchia di peccato. Perché la carità è assoluzione dal peccato e la prima delle purificazioni.
   Partite sempre dal pensiero: “Che vorrei fatto a me, se fossi come è costui?”. E come vorreste vi fosse fatto, fate.
   Ora ancora Israele ha le sue antiche leggi. Ma un giorno verrà, e la sua aurora non è più molto lontana, quando si venererà come simbolo di assoluta bellezza l’immagine di Uno in cui sarà ripetuto materialmente l’Uomo dei dolori di Isaia e il Torturato del salmo davidico, Colui che per essersi fatto simile a lebbroso diverrà il Redentore del genere umano, e alle sue piaghe accorreranno, come cervi alle sorgenti, tutti gli assetati, i malati, gli esausti, i piangenti della Terra, ed Egli li disseterà, li guarirà, li ristorerà, li farà consolati nello spirito e nella carne, e sarà anelito dei migliori di divenire simili a Lui, coperti di ferite, svenati, percossi, coronati di spine, crocifissi, per amore degli uomini da redimere, continuando l’opera del Re dei re e Redentore del mondo. Voi che ancora siete Israele, ma già spuntate le ali per volare nel Regno dei Cieli, iniziate fin da ora questa concezione e valutazione nuova delle infermità e, benedicendo Iddio che vi mantiene sani, curvatevi su chi soffre e muore.
   Un mio apostolo ha detto un giorno a un suo fratello: “Non temere di toccare i lebbrosi. Nessun male si apprenderà a noi per volontà di Dio”. Ha detto bene. Dio tutela i suoi servi. Ma, anche foste contagiati curando gli infermi, nel ruolo dei martiri dell’amore sareste messi nell’altra vita.

   275.11 Visitare i carcerati.
   Credete voi che nelle galere siano solo i delinquenti? La giustizia umana ha un occhio cieco e l’altro è turbato da disturbi visivi, per cui vede cammelli dove sono nuvole o scambia un serpente per un ramo fiorito. Giudica male. Più male ancora perché sovente chi la conduce di proposito crea nebbie di fumo, perché essa veda anche più male. Ma, anche se i carcerati fossero tutti ladroni e omicidi, non è giusto farsi noi ladroni ed omicidi, levando loro speranza di perdono col nostro disprezzo.
   Poveri prigionieri! Non osano alzare gli occhi a Dio, carichi come sono del loro delitto. Le catene, in verità, sono più sullo spirito che al piede. Ma guai se disperano di Dio! Al delitto verso il prossimo uniscono quello della disperazione del perdono. La galera è espiazione, come lo è la morte sul patibolo. Ma non basta pagare la parte che va dovuta alla società umana per il delitto fatto. Bisogna pagare anche e soprattutto la parte che va pagata a Dio, per espiare, per avere la vita eterna. E chi è ribelle e disperato non espia che verso la società. Al condannato o al prigioniero vada l’amore dei fratelli. Sarà una luce nelle tenebre. Sarà una voce. Sarà una mano che indica l’alto mentre la voce dice: “Il mio amore ti dica che anche Dio ti ama, Egli che mi ha messo in cuore questo amore per te, fratello sventurato”, e la luce permette di intravedere Dio, pietoso Padre.
   La vostra carità vada con più ragione a consolare i martiri dell’ingiustizia umana. Quelli incolpevoli affatto, o quelli che una forza crudele ha portato ad uccidere. Non giudicate voi pure là dove già è stato giudicato. Voi non sapete perché l’uomo poté uccidere. Non sapete che molte volte non è che un morto quello che uccide, un automa privo di ragione, perché un assassinio incruento ha levato a lui ragione con la vigliaccheria di un tradimento crudele. Dio sa. E basta. Nell’altra vita si vedranno molti delle galere, molti che uccisero e rubarono, in Cielo, e si vedranno molti, che parvero derubati e uccisi, all’Inferno, perché in realtà i veri ladri dell’altrui pace, onestà, fiducia, i veri assassini di un cuore, furono essi: le pseudovittime. Vittime solo perché furono in ultimo colpite, ma dopo che per anni, silenziosamente, colpirono. L’omicidio e il furto sono peccati. Ma fra chi uccide e ruba perché portato a ciò da altri, e poi se ne pente, e chi induce altri al peccato, e non se ne pente, sarà punito di più colui che porta al peccato senza sentirne rimorso.
   Perciò, non giudicando mai, siate pietosi ai carcerati. Pensate sempre che, se dovessero venire puniti tutti gli omicidi e i furti dell’uomo, pochi uomini e poche donne non morirebbero nelle galere o sul patibolo.
   Quelle madri che concepiscono e che poi non vogliono portare alla luce il loro frutto, come si chiameranno? Oh! non facciamo giuochi di parole! Diciamo sinceramente ad esse il loro nome: “Assassine”. Quegli uomini che rubano reputazioni e posti, che li diremo? Ma semplicemente ciò che sono: “Ladri”. Quegli uomini e donne che, essendo adulteri o tormentatori famigliari dei loro congiunti, li spingono all’omicidio o al suicidio, e così quelli che, essendo i grandi della Terra, portano a disperazione i soggetti, e con la disperazione alla violenza, che nome hanno? Eccolo: “Omicidi”. Ebbene? Nessuno fugge? Voi vedete che fra questi galeotti evasi alla giustizia, che empiono case e città e si strusciano a noi per le strade, e dormono negli alberghi con noi, e con noi dividono la mensa, si vive senza pensarci. Eppure, chi è senza peccato?
   Se il dito di Dio scrivesse sulla parete della stanza dove convitano i pensieri dell’uomo — sulla fronte — le parole accusatrici di ciò che foste, siete o sarete, poche fronti porterebbero scritta, in carattere di luce, la parola “innocente”. Le altre fronti, a caratteri verdi come l’invidia, o neri come il tradimento, o rossi come il delitto, porterebbero le parole di “adulteri”, “assassine”, “ladri”, “omicidi”.
   Senza superbia siate dunque misericordiosi ai fratelli meno fortunati, umanamente, che sono nelle galere, espiando ciò che voi non espiate, per la stessa colpa. Ne avvantaggerà la vostra umiltà.

   275.12 Seppellire i morti.
   La contemplazione della morte è scuola della vita. Io vorrei potervi portare tutti di fronte alla morte e dire: “Sappiate vivere da santi per non avere che questa morte — separazione temporanea del corpo dallo spirito — per poi risorgere trionfalmente in eterno, riuniti, beati”.
   Tutti nasciamo nudi. Tutti moriamo divenendo spoglia destinata a corruzione. Re o pezzenti, così si nasce, così si muore. E se il fasto dei re permette una più lunga preservazione del cadavere, è sempre il disfacimento la sorte di ciò che è carne morta. Le stesse mummie che sono? Carne? No. Materia fossilizzata dalle resine, legnificata. Non preda dei vermi perché svuotata e arsa dalle essenze, ma preda dei tarli come un legno vecchio.
   Ma la polvere torna polvere perché così Dio ha detto. Eppure, solo perché questa polvere ha fasciato lo spirito e ne è stata vivificata, ecco che, come cosa che ha toccato una gloria di Dio — tale è l’anima dell’uomo — occorre pensare che è polvere santificata non diversamente degli oggetti che sono stati a contatto col Tabernacolo. Almeno un momento fu che l’anima fu perfetta: mentre il Creatore la creava. E se poi la Macchia la deturpò, levandole perfezione, solo per la sua Origine comunica bellezza alla materia, e per quel bello che viene da Dio il corpo si abbella e merita rispetto. Noi siamo templi e come tali meritiamo onore, così come sempre sono onorati i luoghi dove sostò il Tabernacolo.
   Date dunque ai morti la carità del riposo onorato in attesa della risurrezione, vedendo nelle mirabili armonie del corpo umano la mente e il pollice divino che lo ideò e modellò con perfezione, e venerando anche nella spoglia l’opera del Signore.

   275.13 Ma l’uomo non è solo carne e sangue. È anche anima e pensiero. Anche questi soffrono e vanno misericordiosamente sovvenuti.
   Vi sono ignoranti che fanno il male solo perché non conoscono il bene. Quanti che non sanno o sanno male le cose di Dio e anche le leggi morali! Come affamati languono perché non c’è chi li sfami, e cadono in marasma per mancanza di nutrienti verità. Andate ad istruirli, perché per questo Io vi raccolgo e vi mando. Date il pane dello spirito alla fame degli spiriti.
   Istruire gli ignoranti corrisponde, nello spirituale, a sfamare gli affamati; e se premio è dato per un pane offerto al corpo languente onde per quel giorno non muoia, che premio sarà dato a colui che sfama uno spirito di verità eterne, dandogli eterna vita? Non siate avari di ciò che sapete. Vi fu dato senza spesa e senza misura. Datelo senza avarizia, perché è cosa di Dio come l’acqua del cielo, e va data come ci viene data. Non siate avari e non superbi di ciò che sapete. Ma date con umile generosità.

   275.14 E date il refrigerio limpido e benefico della preghiera ai vivi e ai morti che hanno sete di grazie. Non si deve rifiutare l’acqua alle fauci assetate. Che allora ai cuori dei vivi angosciati, e che agli spiriti penanti dei morti? Preghiere, preghiere, feconde perché attive di amore e di spirito di sacrificio.
   La preghiera deve essere vera, non meccanica come suono di ruota sulla via. È il suono o la ruota quella che fa procedere il carro? È la ruota che si logora per portare oltre il carro. Lo stesso è della preghiera vocale e meccanica e della preghiera attiva. La prima: suono, nulla più. La seconda: opera, in cui si logorano le forze e cresce sofferenza, ma si ottiene lo scopo. Pregate più col sacrificio che con le labbra e darete refrigerio ai vivi e ai morti, facendo la seconda opera di spirituale misericordia. Il mondo sarà più salvato dalle preghiere di coloro che sanno pregare, che dalle fragorose, inutili, micidiali battaglie.

   275.15 Molte persone del mondo sanno. Ma non sanno credere con fermezza. Come fossero presi fra due canapi opposti, tentennano, tentennano, senza procedere d’un solo passo, e si affaticano le forze senza riuscire a nulla. Sono i dubbiosi. Sono quelli dei “ma”, dei “se”, degli “e poi”. Quelli delle domande: “Sarà poi così?”, “E se non fosse?”, “E io potrò?”, “E se non riesco?”, e così via. Sono i vilucchi che, se non trovano dove aggrapparsi, non salgono e, anche trovando, spenzolano di qua e di là, e non solo bisogna dar loro sostegno, ma guidarli su di esso ad ogni nuova svolta della giornata. Oh! che veramente fanno esercitare pazienza e carità più di un pargolo tardivo!
   Ma, in nome del Signore, non li abbandonate! Date tutta la fede luminosa, la fortezza ardente a questi prigionieri di loro stessi, della loro malattia nebbiosa. Guidateli al sole e all’alto. Siate maestri e padri per questi incerti. Senza stanchezze e senza impazienze. Fanno cascare le braccia? Benissimo. Anche voi le fate cascare tante volte a Me, e ancor di più al Padre che è nei Cieli, che deve spesso pensare che inutilmente sembra essersi fatta Carne la Parola, posto che l’uomo è ancora dubbioso, anche ora che sente parlare il Verbo di Dio. Non vorrete già presumere che voi siete da più di Dio e di Me!
   Dunque, aprite le carceri a questi prigionieri dei “ma” e dei “se”. Scioglieteli dalle catene dei “potrò?”, “se non riesco?”. Fateli persuasi che basta fare tutto il meglio che si può e Dio è contento. E se li vedete scivolare giù dall’appoggio, non passate oltre, ma rialzateli di nuovo. Come fanno le mamme che non passano oltre se il loro piccolo cade, ma si fermano, lo rialzano, lo puliscono, lo consolano, lo sorreggono, finché a lui è passata la paura di una nuova caduta. E fanno così per mesi e anni se il bambino è di gambe deboli.

   275.16 Vestite gli ignudi dello spirito col perdono a chi vi offende.
   L’offesa è anticarità. L’anticarità spoglia di Dio. Perciò chi offende diviene nudo, e solo il perdono dell’offeso rimette vesti su quella nudità. Perché le riporta Dio. Dio attende a perdonare che l’offeso abbia perdonato. Perdonare tanto l’offeso dall’uomo come l’offensore dell’uomo e di Dio. Perché, via!, nessuno è senza offese al suo Signore. Ma Dio perdona a noi se noi perdoniamo al prossimo, e perdona al prossimo se l’offeso da un suo prossimo perdona. Vi sarà fatto come fate.
   Perdonate perciò se volete perdono e gioirete in Cielo, per la carità che avete dato, come di un manto di stelle messo sulle vostre spalle sante.

   275.17 Siate misericordiosi con coloro che piangono. Sono i feriti della vita, i malati del cuore coi suoi affetti.
   Non vi chiudete nella vostra serenità come in una fortezza. Sappiate piangere con chi piange, consolare chi è afflitto, empire il vuoto di chi è orbato dalla morte di un parente. Padri con gli orfani, figli coi genitori, fratelli gli uni agli altri.
   Amate. Perché amare solo i felici? Essi hanno già la loro parte di sole. Amate i piangenti. Sono i meno amabili per il mondo. Ma il mondo non sa il valore delle lacrime. Voi lo sapete. Amate dunque chi piange. Amateli se nel loro pianto sono rassegnati. Amateli, e più ancora, se sono ribelli nel dolore. Non rimprovero ma dolcezza per persuaderli della verità del dolore e sul dolore. Possono, fra il velo del pianto, vedere sformato il volto di Dio, ridotto ad una espressione di vendicativo prepotere. No. Non vi scandalizzate! Non è che allucinazione data dalla febbre del dolore. Soccorreteli acciò la febbre cada. La vostra fresca fede sia come ghiaccio dato al delirante.
   E quando la febbre più acuta cade, e subentra l’abbattimento e l’ebetimento stuporoso del risorgente da un trauma, allora, come a bambini che una malattia ha arretrato nel sapere, ritornate a parlare di Dio come di cosa nuova, dolcemente, pazientemente… Oh! una bella favola, detta per svagare l’eterno fanciullo che è l’uomo! E poi tacete. Non imponete… L’anima lavora da sé. Aiutatela con le carezze e la preghiera. E quando essa dice: “Allora non fu Dio?”, dite: “No. Egli non ti voleva far male perché ti ama anche per chi non ti ama più per morte o altro”. E quando l’anima dice: “Ma io l’ho accusato”, dite: “Egli lo ha dimenticato perché era febbre”. E quando dice: “Allora io lo vorrei”, dite: “Eccolo! È alla porta del tuo cuore ad attendere che tu gli apra”.

   217.18 Sopportate le persone moleste. Esse entrano a turbare la piccola casa del nostro io, così come i pellegrini entrano a turbare la casa che abitiamo. Ma, come vi ho detto di accogliere quelli, così vi dico di accogliere questi.
   Vi sono moleste? Ma se voi non le amate, per il disturbo che vi dànno, esse, più o meno bene, vi amano. Per questo amore accoglietele. E anche venissero indagando, odiando, insultando, esercitate pazienza e carità. Potete migliorarle con la vostra pazienza. Potete scandalizzarle con la vostra anticarità. Vi dolga che esse pecchino, di loro; ma più vi dolga di farle peccare, e di peccare voi stessi. Ricevetele in nome mio se non le potete ricevere per amor vostro. E Dio vi compenserà venendo Lui, dopo, a restituire la visita e a cancellare il ricordo spiacevole con le sue soprannaturali carezze.

   217.19 Infine vedete di seppellire i peccatori per preparare il ritorno alla Vita della Grazia.
   Sapete quando lo fate? Quando ammonite gli stessi con paterna, paziente, amorosa insistenza. È come se voi seppelliste mano mano le brutture del corpo prima di consegnare lo stesso al sepolcro in attesa del comando di Dio: “Sorgi e vieni a Me”.
   Non purifichiamo i morti, noi ebrei, per rispetto al corpo che dovrà risorgere? Ammonire i peccatori è come un purificarli nelle membra, prima operazione del seppellimento. Il resto lo farà la Grazia del Signore. Purificateli con carità, lacrime e sacrifici. Siate eroici per strappare uno spirito alla corruzione. Siate eroici!
   Questo non resterà senza premio. Perché, se è dato premio per un calice d’acqua dato ad un assetato corporale, che sarà dato per chi leva dalla sete infernale uno spirito?
   Ho detto. Queste le opere di misericordia del corpo e dello spirito che aumentano l’amore. Andate e fate. E la pace di Dio e mia sia con voi ora e sempre».

[80] dette cibo, come si narra in 175.4/5.