MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 255



CCLV. Malumori degli apostoli. Partenza di Marta e Maria con Sintica. Applicazione della legge sullo schiavo.

   17 agosto 1945.

   255.1 E di nuovo in cammino, piegando a oriente, diretti verso la campagna.
   Ora gli apostoli e i due discepoli sono con Maria Cleofe e Susanna dietro di qualche metro a Gesù, che è con sua Madre e le due sorelle di Lazzaro. Gesù parla fitto fitto. Gli apostoli invece non parlano. Sembrano stanchi o sconfortati. Non li attira neppure la bellezza della campagna che è veramente splendida, nelle sue lievi ondulazioni gettate sulla pianura come tanti cuscini verdi sotto i piedi di un re gigante, coi suoi colli di pochi metri messi qua e là a preludere le catene del Carmelo e della Samaria. Sia nel piano, che è il sovrano del luogo, sia sulle decorazioni di questi piccoli colli e onde di terra, è tutto un fiorire di erbe e un maturare di frutta. Deve essere un luogo irriguo nonostante la regione e la stagione, perché è troppo florido per essere senza dovizia d’acque. Comprendo adesso perché la pianura di Saron sia tante volte nominata con entusiasmo nella sacra Scrittura. Ma questo entusiasmo non è per nulla condiviso dagli apostoli, che procedono come un poco imbronciati, unici che abbiano dei bronci in questa giornata serena e in questa plaga ridente.
   La strada consolare, molto ben tenuta, taglia col suo nastro bianco questa campagna fertilissima e, data l’ora mattutina, ancora è facile incontrare contadini carichi di derrate, oppure viaggiatori diretti a Cesarea. Uno, che raggiunge con una fila di asini carichi di sacchi gli apostoli e li costringe a scansarsi per fare posto alla carovana asinina, chiede con arroganza: «Il Kison è qui?».
   «Più indietro», risponde secco Tommaso e brontola fra i denti: «Pezzo di tanghero!».
   «È un samaritano, e basta questo a dire tutto!», risponde Filippo.

   255.2 Ricadono nel silenzio. Dopo qualche metro, così, come terminando un interno discorso, Pietro dice: «Per quello che è giovato! Valeva la pena di fare tanta strada?».
   «Ma già! Perché poi siamo andati a Cesarea se non ha detto una parola? Io credevo volesse fare qualche stupefacente miracolo per persuadere i romani. Invece…», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Ci ha portati alla berlina e basta», commenta Tommaso.
   E l’Iscariota rincara: «E ci ha fatto soffrire. Ma a Lui piacciono le offese e crede che piacciano a noi pure».
   «Veramente chi ha sofferto in questo caso è Maria di Teofilo», osserva pacato lo Zelote.
   «Maria! Maria! È diventata il centro dell’universo Maria?
   Non soffre che lei, non è eroica che lei, non è da formarsi che lei. Se sapevo, divenivo ladrone e omicida per essere poi oggetto di tante premure», scatta l’Iscariota.
   «Veramente, l’altra volta che venimmo a Cesarea e Lui fece miracolo ed evangelizzò, noi lo affliggemmo dei nostri malcontenti per averlo fatto», osserva il cugino del Signore.
   «È che noi non sappiamo ciò che vogliamo… Fa così e brontoliamo, fa l’opposto e brontoliamo. Siamo difettosi», dice serio Giovanni.
   «Oh! ecco l’altro sapiente che parla! Certo è che non si fa nulla di buono da tempo».
   «Nulla, Giuda? Ma quella greca, ma Ermasteo, ma Abele, ma Maria, ma…».
   «Non è con queste nullità che Egli fonderà il Regno», ribatte l’Iscariota, ossessionato dall’idea di un trionfo terreno.
   «Giuda, ti prego di non giudicare le opere di mio Fratello. È una pretesa ridicola. Un bambino che vuole giudicare il maestro, per non dire: una nullità che vuole mettersi in alto», dice il Taddeo che, se ha in comune il nome, ha però una invincibile antipatia per il suo omonimo.
   «Ti ringrazio di esserti limitato a dirmi bambino. Veramente, dopo avere tanto vissuto nel Tempio, credevo di essere giudicato almeno maggiorenne», risponde sarcastico l’Iscariota.

   255.3 «Oh! come sono pesanti queste dispute!», sospira Andrea.
   «Davvero! Invece di fonderci, più si vive insieme, ci si separa. E pensare che a Sicaminom Egli ha detto che noi bisogna essere uniti al gregge. Come lo saremo, se fra pastori non lo siamo?», osserva Matteo.
   «Non si deve allora parlare? Mai dire il nostro pensiero?
   Non siamo schiavi, credo».
   «No, Giuda. Non siamo schiavi. Ma siamo degli indegni di seguirlo perché non lo comprendiamo», dice calmo lo Zelote.
   «Io lo comprendo benissimo».
   «No. Non lo comprendi, e con te non lo comprendono, più o meno, tutti quelli che lo criticano. Comprendere è ubbidire senza discutere perché si è persuasi della santità di chi guida», dice ancora lo Zelote.
   «Ah! ma tu alludi a comprendere la sua santità! Io dicevo le sue parole. La santità è indiscussa e indiscutibile», si affretta a dire l’Iscariota.
   «E puoi scindere questa da quelle? Un santo avrà sempre a possesso la Sapienza, e le sue parole saranno sapienti».
   «È vero. Ma fa degli atti nocivi. Certo per troppa santità. Lo concedo. Ma il mondo non è santo, e Lui si crea delle noie.

   255.4 Ora, per esempio, questo filisteo e questa greca credi tu che ci giovino?».
   «Ma se io devo nuocere mi ritiro», dice mortificato Ermasteo. «Io ero venuto con l’idea di dargli onore e di fare cosa giusta».
   «Gli daresti un dolore andandotene per questo motivo», gli risponde Giacomo d’Alfeo.
   «Lascerò credere che ho cambiato idea. Ora lo saluterò e… me ne andrò».
   «No davvero! Tu non te ne vai. Non è giusto che per i nervosismi altrui il Maestro perda un discepolo buono», scatta Pietro.
   «Ma se se ne vuole andare così per poco, è segno che non è sicuro della sua volontà. Lascialo perciò andare», risponde l’Iscariota.
   Pietro perde la pazienza: «Ho promesso a Lui, quando mi ha dato Marziam, di diventare paterno con tutti, e mi dispiace di mancare alla promessa. Ma tu mi ci porti. Ermasteo è qui e qui resta. Sai cosa ti devo dire? Che sei tu quello che turbi le volontà degli altri e le fai incerte. Sei uno che separa e disordina. Ecco quello che sei. E vergognatene».
   «Cosa sei? Il protettore dei…».
   «Sissignore. Hai detto bene. So ciò che vuoi dire. Protettore della Velata, protettore di Giovanni di Endor, protettore di Ermasteo, protettore di quella schiava, protettore di quanti altri sono trovati da Gesù e non sono gli splendidi esemplari pavoneschi del Tempio, i fabbricati con la sacra calcina e le ragnatele del Tempio, gli stoppini fragranti di morchia dei lumi del Tempio, i come te, insomma, per rendere più chiara la parabola, perché se il Tempio è molto, a men che io non sia divenuto scemo, il Maestro è da più del Tempio e tu gli manchi…».

   255.5 Urla tanto che Gesù si ferma e si volta e accenna a tornare indietro, lasciando le donne.
   «Ha sentito! Ora sarà afflitto!», dice l’apostolo Giovanni.
   «No, Maestro. Non venire. Discutevamo… per ingannare la noia del cammino», dice pronto Tommaso.
   Ma Gesù sta fermo in modo da essere raggiunto.
   «Che discutevate? Ancora una volta devo dirvi che le donne vi superano?».
   Il dolce rimprovero tocca il cuore di tutti. Tacciono abbassando il capo.
   «Amici, amici! Non siate oggetto di scandalo a coloro che solo ora nascono alla Luce! Non sapete che nuoce più un’imperfezione in voi che tutti gli errori che sono nel paganesimo, alla redenzione di un pagano o di un peccatore?».
   Nessuno risponde perché non sanno cosa dire per giustificarsi o per non accusare.

   255.6 Presso un ponte su un torrente secco è fermo il carro delle sorelle di Lazzaro. I due cavalli pasturano coll’erba folta delle rive del torrente, forse secco da poco e perciò con sponde ben nutrite di erba. Il servo di Marta e uno, forse il conducente, sono pure sul greto, mentre le donne sono chiuse nel carro, che è tutto coperto da una pesante coperta fatta di pelli conciate che scendono a modo di cortine pesanti fino sul piano del carro.
   Le donne discepole si affrettano ad esso e il servo che le vede per primo dà l’allarme alla nutrice, mentre l’altro si affretta a condurre i cavalli alle stanghe. Il servo intanto corre dalle padrone inchinandosi fino a terra.
   La anziana nutrice, una bella donna di colorito olivastro, ma piacente, scende lesta e va dalle sue padrone. Ma Maria di Magdala le dice qualche cosa e lei si dirige subito alla Vergine dicendo: «Perdona… Ma è tanta la gioia di vederla che non vedo che lei. Vieni, benedetta. Il sole brucia. Sul carro è ombra».
   E salgono tutte in attesa degli uomini rimasti molto indietro. Mentre attendono e mentre Sintica, rivestita della veste che ieri aveva la Maddalena, bacia i piedi delle sue padrone — come si ostina a dirle lei, nonostante che esse le dicano che non è per loro né serva né schiava, ma solo ospite in nome di Gesù — la Vergine mostra il prezioso fagottello della porpora, chiedendo come si può filare quella cortissima barbetta il cui stame rifiuta umidore e torcitura.
   «Non si usa così, Donna. Va ridotta in polvere e usata come qualunque altra tintura. Questa è la bava della conchiglia, non è un capello né un pelo. Vedi come è friabile ora che è secca? Tu la riduci in polvere fina, la setacci perché non rimanga nessun pezzo lungo che macchierebbe il filato o la stoffa. Meglio se tingi il filato in matasse. Quando sei sicura che è tutta in polvere, la sciogli come si fa con la cocciniglia, o lo zafferano, o la polvere dell’indaco, o altre di altre cortecce, o radici, o frutti, e la usi. Ferma la tinta con dell’aceto forte per ultima sciacquatura».
   «Grazie, Noemi. Farò come tu insegni. Ho ricamato con fili porporini, ma me li avevano dati già pronti all’uso…

   255.7 Ecco Gesù ormai vicino. È ora di salutarci, figlie. Vi benedico tutte nel nome del Signore. Andate in pace portando pace e gioia a Lazzaro. Addio, Maria. Ricordati che hai pianto sul mio petto il tuo primo felice pianto. Perciò ti sono madre, perché una creatura piange il suo primo pianto sul petto della sua mamma. Ti sono madre e tale ti sarò sempre. Quello che ti può pesare di dire anche alla più dolce delle sorelle, alla più amorosa delle nutrici, vieni a dirlo a me. Ti comprenderò sempre. Quello che non oseresti dire al mio Gesù perché ancora intriso di una umanità che Egli in te non vuole, vieni a dirlo a me. Ti compatirò sempre. E se poi vorrai dirmi anche i tuoi trionfi — ma questi preferisco tu li dia a Lui, come fragranti fiori, perché Lui e non io è il tuo Salvatore — io giubilerò con te. Addio, Marta. Ora tu te ne vai felice, e in questa felicità soprannaturale perdurerai. Non hai dunque altro bisogno fuor di quello di progredire nella giustizia fra mezzo alla pace che nulla più turba in te. Fàllo per amor di Gesù, che ti ha amata tanto da amare questa che tu ami completamente. Addio, Noemi. Va’ col tuo tesoro ritrovato. Come per il latte con cui la sfamavi, ora sfamati tu alle parole che essa e Marta ti diranno, e giungi a vedere nel Figlio mio molto più dell’esorcista che libera i cuori dal Male. Addio, Sintica, fiore di Grecia, che hai saputo sentire da te sola che c’è qualcosa più della carne. Ora fiorisci in Dio e sii la prima dei nuovi fiori della Grecia di Cristo. Io sono molto contenta di lasciarvi unite così. Vi benedico con amore».
   Lo scalpiccio dei passi è ormai vicino. Alzano la tenda pesante e vedono che Gesù è a un due metri dal carro. Scendono sotto al sole cocente che invade la via.
   Maria di Magdala si inginocchia ai piedi di Gesù dicendo:
   «Io ti ringrazio, di tutto. E anche molto di avermi fatto fare questo pellegrinaggio. Tu solo hai sapienza. Ora parto spogliata dei resti della Maria di un tempo. Benedicimi, Signore, per fortificarmi sempre più».
   «Sì. Ti benedico. Godi dei fratelli, e coi fratelli sempre più fórmati in Me. Addio, Maria. Addio, Marta. Dirai a Lazzaro che Io lo benedico. Vi affido questa donna. Non ve la dono. È mia discepola. Ma voglio che voi le diate un minimo di capacità di intendere la mia dottrina. Poi verrò Io. Noemi, ti benedico, e anche voi due».
   Marta e Maria hanno le lacrime agli occhi. Lo Zelote le saluta in particolare dando loro uno scritto per il suo servo. Gli altri hanno un saluto comulativo. Poi il carro si mette in moto.

   255.8 «E ora andiamo in cerca di ombra. Dio le accompagni…
   Tanto ti spiace, Maria, che esse se ne siano andate?», chiede a Maria d’Alfeo che piange zitta zitta.
   «Sì. Erano molto buone…».
   «Le ritroveremo presto. E accresciute di numero. Avrai molte sorelle… o figlie, se più ti piace. È tutto amore, sia il materno che il fraterno», la conforta Gesù.
   «Purché ciò non crei delle noie…», mormora l’Iscariota.
   «Noie l’amarsi?».
   «No. Noie avere persone di altra razza e di altra appartenenza».
   «Sintica, vuoi dire?».
   «Sì, Maestro. Infine essa era oggetto del romano e appropiarsene è male. Lo inquieterà verso di noi e ci attireremo addosso Ponzio Pilato coi suoi rigori».
   «Ma cosa vuoi che gli prema a Pilato se un suo dipendente perde una schiava? Lo conoscerà quello che vale! E se è un poco onesto, come si dice lo sia, in famiglia almeno, dirà che quella donna ha fatto bene a fuggire. Se poi è un disonesto dirà: “Ti sta bene. Così forse la trovo io”. I disonesti non sono sensibili ai dolori altrui. E poi! Oh! povero Ponzio! Con tutti i fastidi che gli diamo, ha ben altro che perder tempo per le querimonie di uno che si fa scappare una schiava!», dice Pietro. E gli dànno ragione in molti, deridendo le rabbie del lubrico romano.

   255.9 Ma Gesù porta la questione su un piano più alto. «Giuda, lo conosci il Deuteronomio?».
   «Certamente, Maestro. E, non esito a dirlo, come pochi lo sanno».
   «Come lo giudichi?».
   «Come portavoce di Dio».
   «Portavoce. Dunque ripetente la parola di Dio?».
   «Proprio così».
   «Hai ben giudicato. Ma allora perché non giudichi che è bene fare ciò che esso ordina?».
   «Io non l’ho mai detto questo. Anzi! Io trovo che proprio noi lo trascuriamo troppo seguendo la nuova Legge».
   «La nuova Legge è il frutto dell’antica, ossia è la perfezione raggiunta dall’albero della Fede. Ma nessuno fra noi lo trascura, per quanto mi risulta, perché sono Io il primo a rispettarlo e a impedire che altri lo trascurino». Gesù è molto incisivo nel dire queste parole.
   Riprende: «Il Deuteronomio è intoccabile. Anche quando trionferà il mio Regno, e col mio Regno la nuova Legge coi suoi nuovi codici e paragrafi, esso sarà sempre applicato ai nuovi dettami, così come le pietre squadrate di antiche costruzioni vengono usate per le nuove perché sono pietre perfette che dànno robuste muraglie. Ma ora non c’è ancora il mio Regno, ed Io, da fedele israelita, non faccio offesa né trascuranza al libro mosaico. Esso è base del mio modo di agire e del mio insegnamento. Sopra la base dell’Uomo e del Maestro, il Figlio del Padre mette la celeste costruzione della sua Natura e Sapienza. Nel Deuteronomio è detto[46]: “Non consegnerai al padrone lo schiavo che si è rifugiato presso di te. Egli abiterà con te nel luogo che gli parrà, starà tranquillo in una delle tue città e tu non lo contristerai”. Questo nel caso che uno sia costretto a fuggire da una schiavitù inumana. Nel mio caso, in quello di Sintica, vi è la fuga non verso una libertà limitata, ma verso la libertà illimitata del Figlio di Dio. E vuoi tu che Io, a questa allodola fuggita al laccio dei cacciatori, metta di nuovo il filetto, e la renda alla sua prigione per levarle anche la speranza dopo la libertà? No, mai! Benedico Iddio che, come l’andata ad Endor ha portato questo figlio al Padre, l’andata a Cesarea ha portato questa creatura a Me perché Io la porti al Padre. A Sicaminon vi ho parlato della potenza della Fede. Oggi vi parlerò della luce della Speranza. Ma ora, in questo folto frutteto, sostiamo a mangiare e a riposare. Perché il sole arde come se l’inferno fosse aperto».

[46] è detto, in: Deuteronomio 23, 16-17.