MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 283



CCLXXXIII. Sintica parla del suo incontro con la Verità.

   22 settembre 1945.

   283.1 Gesù è seduto nel cortile a portici che è nell’interno della casa di Betania, il cortile che ho visto zeppo di discepoli il mattino della Risurrezione di Gesù. Seduto su un sedile marmoreo coperto di cuscini, le spalle addossate al muro della casa, circondato dai padroni di casa e dagli apostoli e dai discepoli Giovanni e Timoneo, più Giuseppe e Nicodemo, e dalle pie donne, ascolta Sintica che, ritta a Lui davanti, pare rispondere a qualche sua domanda. Tutti, più o meno interessati, ascoltano stando in varie pose, chi seduto sui sedili, chi sul pavimento, chi in piedi, chi appoggiato alle colonne o al muro.
   «…era una necessità. Per non sentire tutto il peso della mia condizione. Era non essere, un non voler essere persuasa di esser sola, schiava, esiliata dalla patria. Pensare che la madre ed i fratelli, che il padre e la così tenera e dolce Ismene non erano per sempre perduti. Ma che, anche se tutto il mondo si accaniva a separarci, così come Roma ci aveva divisi e venduti, noi, liberi, come bestie da soma, un luogo ci avrebbe riuniti, oltre la vita. Pensare che non è solo materia il nostro vivere, materia che si incatena. Ma dentro ha una forza libera che nessuna catena tiene se non è quella volontaria del vivere nel disordine morale e nella crapula materiale.
   Voi dite ciò: “peccato”. Colui e coloro che erano le mie luci nel buio della mia notte di schiava definiscono ciò in altro modo. Ma anche essi ammettono che un’anima, inchiodata dalle passioni malvagie e corporali al corpo, non giunge a quello che voi chiamate Regno di Dio e noi convivenza nell’Ade con gli dèi. E perciò occorre astenersi dal cadere nella materialità e sforzarsi di raggiungere la libertà dal corpo, dando a sé retaggio di virtù per avere possesso di immortalità felice e di riunione coi propri amati.
   Pensare che non è impedita l’anima dei morti di assistere l’anima dei vivi, e sentire perciò presso di sé l’anima materna, ritrovare lo sguardo e la voce di lei parlante all’anima della figlia, e poter dire: “Sì, madre. Per venire a te, sì. Per non far turbato il tuo sguardo, sì. Per non mettere lacrime nella tua voce, sì. Per non abbrunarti l’Ade dove sei in pace, sì. Per tutto questo io terrò la mia anima libera. L’unico possesso che ho, e che nessuno mi può levare. E che voglio conservare pura per potere ragionare secondo virtù”.
   Così pensare era libertà e gioia. E così volli pensare. E agire. Perché non è che dimezzata e falsa filosofia pensare e agire, poi, disforme al pensiero. Così pensare era ricostruirsi una patria anche in esilio. Una intima patria nell’io, coi suoi altari, la sua fede, la sua istruzione, i suoi affetti… E una patria grande, misteriosa, eppur non tale, per quel misterioso “che” dell’anima, che sa di non ignorare l’al di là anche se al presente lo conosce solo come un marinaio, da mezzo l’ampio mare, in un mattino brumoso, conosce le particolarità della costa: in confuso, in abbozzo, con appena qualche punto che si delinea netto e che pure basta, oh! basta allo stanco navigante, che le bufere hanno tormentato, per dire: “Ecco, là è il porto, è la pace”. La patria delle anime, il luogo di provenienza… il luogo della Vita. Perché la vita si genera dalla morte…

   283.2 Oh! questo io lo capivo a metà fino a quando non seppi una delle tue parole. Dopo… dopo fu come se un raggio di sole percuotesse il diamante del mio pensiero. Tutto fu luce, ed ho capito fin dove erano giusti i maestri di Grecia e come poi si smarrissero, mancando di un dato, uno solo, per risolvere con equità il teorema della Vita e della Morte. Il dato: il vero Dio, Signore e Creatore di tutto quanto è!
   Posso io nominarlo con queste mie labbra pagane? Sì, che lo posso. Perché da Lui, come tutti, io vengo. Perché Egli ha messo capacità nelle menti degli uomini tutti, e nei più saggi una intelligenza superiore, per cui veramente appaiono semidèi dalla potenza ultra umana. Sì, perché Egli ha fatto loro scrivere quelle verità che già sono religione, se non divina come la tua, morale, e capace di tenere le anime “vive” non per questo spazio di tempo che è la sosta qui, sulla Terra, ma per sempre.
   Dopo ho capito cosa vuol dire: “la vita si genera dalla morte”. Colui che lo disse fu come uno non perfettamente ebbro, ma già dall’intelligenza appesantita. Disse una sublime parola ma per intero non la comprese. Io — perdona, o Signore, l’orgoglio mio — io ho capito più di lui e ne sono da quel momento beata».
   «Che hai capito?».
   «Che questa esistenza non è che il principio embrionale della vita, e che la vera Vita ha inizio quando la morte ci partorisce… all’Ade, come pagana, alla Vita eterna, come in Te credente. Ho detto male?».
   «Bene hai detto, donna», approva Gesù.

   283.3 Nicodemo interrompe: «Ma come hai potuto sapere delle parole del Maestro?».
   «Chi ha fame cerca il cibo, signore. Io cercavo il mio cibo. Lettrice, perché colta e di bella voce e pronuncia, potevo molto leggere nelle biblioteche dei miei padroni. Ma non ero sazia ancora. Sentivo che c’era dell’altro oltre le pareti istoriate di scienza umana, e come prigioniera in carcere d’oro io battevo le nocche, sforzavo le porte per uscire, per trovare… Venendo in Palestina con l’ultimo padrone ho temuto di cadere nelle tenebre… invece andavo verso la Luce. Le parole dei servi di Cesarea erano come tanti colpi di piccone, che sgretolavano le pareti aprendovi fori sempre più grandi dai quali entrava la tua Parola. E io le raccoglievo, queste parole e notizie. E, come un bambino infila delle perle, me le allineavo e me ne adornavo, traendone forza per sempre più essere purificata per ricevere la Verità. Nella catarsi io sentivo che avrei trovato. E fin dalla Terra. A costo della vita volli esser pura per l’incontro con la Verità, con la Sapienza, con la Divinità. Signore, io dico folli parole. Questi mi guardano stupiti. Ma Tu me le hai chieste…».
   «Parla, parla. È necessario».
   «Con fortezza e temperanza ho resistito alle pressioni esterne. Avrei potuto esser libera e felice, secondo il mondo, sol che avessi voluto. Non ho voluto barattare il sapere col piacere. Perché senza sapienza non serve avere le altre virtù. Egli, il filosofo, lo ha detto: “Giustizia, temperanza e fortezza, scompagnate dal sapere, sono simili ad uno scenario dipinto, virtù realmente da schiavi senza nulla di saldo e reale”. Io volevo avere cose reali. Il padrone, stolto, parlava di Te in mia presenza. Allora fu come se le pareti divenissero velo. Bastava volere per lacerare il velo e unirsi alla Verità. L’ho fatto».

   283.4 «Tu non sapevi che ci avresti trovato», dice l’Iscariota.
   «Sapevo credere che il dio premia la virtù. Io non volevo oro, né onori, né libertà fisica, neppur questa. Ma volevo la Verità. A Dio chiedevo questo o di morire. Volevo che mi fosse risparmiato l’avvilimento di divenire un “oggetto” e, più ancora, di acconsentire ad esserlo. Rinunciando a tutto quanto è corporale nel cercarti, o Signore — perché le ricerche per mezzo del senso sono sempre imperfette, e Tu lo hai veduto quando, per averti visto, io sono fuggita, tratta in inganno dagli occhi — io mi sono abbandonata al Dio che è su noi e in noi e che di Sé informa l’anima. E ti ho trovato perché l’anima mi ha condotta a Te».
   «La tua è un’anima pagana», dice ancora l’Iscariota.
   «Ma l’anima ha sempre in sé del divino, specie quando, con sforzo, si è preservata dall’errore. E perciò tende alle cose della sua stessa natura».
   «Ti paragoni a Dio, tu?».
   «No».
   «E allora perché dici questo?».
   «Come? E tu, discepolo del Maestro, me lo chiedi? A me, greca e da poco libera? Quando Egli parla non odi? O in te il fermento del corpo è tale che ti ottunde? Non dice Egli sempre che noi siamo figli di Dio? Dunque dèi siamo se siamo figli del Padre, di quel suo e nostro Padre di cui Egli parla sempre. Tu mi potrai rimproverare di non essere umile, ma non di essere incredula e disattenta».
   «Sicché ti credi da più di me? Credi aver tutto appreso dai libri della tua Grecia?».
   «No. Né questo né quello. Ma i libri dei saggi, di dove che siano, mi hanno dato il minimo per reggermi. Non dubito che un israelita sia da più di me. Ma io sto felice nella mia sorte che da Dio mi viene. Che posso di più desiderare?

   283.5 Tutto ho trovato, trovando il Maestro. E penso che ciò fosse destino, perché in vero io vedo su me vegliare una Potenza che mi ha segnato un grande destino che io non ho fatto che secondare, sentendolo buono».
   «Buono? Sei stata schiava, e di padroni crudeli… Se l’ultimo ti avesse ripresa, per esempio, come avresti secondato il destino, tu, tanto saggia?».
   «Ti chiami Giuda tu, vero?».
   «Sì, ebbene?».
   «Ebbene… niente. Voglio ricordare il tuo nome oltre che la tua ironia. Guarda che ironia è sconsigliabile anche nei virtuosi… Come avrei secondato il destino? Mi sarei forse uccisa. Perché realmente in certi casi è meglio morire che vivere, benché il filosofo dica che ciò non è bene, ed empio è procurarsi il bene da sé medesimi, perché solo gli dèi hanno il diritto di chiamare a loro. E questo, di attendere un cenno degli dèi per farlo, è stato quello che mi ha sempre trattenuta di farlo fra le catene della mia triste sorte. Ma ora, nella nuova cattura del padrone laido, avrei visto il cenno supremo. E avrei preferito morire al vivere. Ho una dignità io pure, uomo».
   «E se ti riprendesse ora? Saresti sempre nelle stesse condizioni…».
   «Ora non mi ucciderei più. Ora so che le violenze alla carne non ledono lo spirito che non consente. Ora resisterei fino ad essere piegata con la forza, fino ad essere uccisa dalla violenza. Perché anche questo io prenderei per cenno di Dio, che con tale violenza a Lui mi avrebbe chiamata. E ora morirei tranquilla, sapendo che non starei che per perdere ciò che è peribile».
   «Hai risposto bene, donna», dice Lazzaro, e Nicodemo approva lui pure.
   «Il suicidio non è mai permesso», dice l’Iscariota.
   «Molte sono le cose proibite, e non si rispetta il divieto. Ma tu, Sintica, devi pensare che Dio, come ti ha sempre guidata, così ti avrebbe preservata anche dalla violenza su te stessa.

   283.6 Ora va’. Ti sarei grato che ricercassi il bambino e me lo conducessi», dice Gesù dolcemente.
   La donna si inchina fino a terra e se ne va. Tutti la seguono con lo sguardo.
   Lazzaro mormora: «Ed è sempre così! Io non so capire come mai le cose che in lei sono state “vita” per noi d’Israele sono state “morte”. Se avrai modo di esaminarla ancora, vedrai che proprio l’ellenismo che ha corrotto noi, già possessori di una sapienza, ha salvato lei. Perché?».
   «Perché mirabili sono le vie del Signore. Ed Egli le apre a chi lo merita. Ed ora, amici, Io vi congedo poiché la sera si avanza. Ho piacere che voi tutti abbiate udito parlare la greca. Dalla constatazione come Dio si rivela ai migliori traete la lezione che l’escludere ogni essere che non sia d’Israele dalle schiere di Dio è odioso e pericoloso. Abbiatelo a norma per il futuro… Non borbottare, Giuda di Simone. E tu, Giuseppe, non avere scrupoli fuori posto. Non siete contaminati per nulla, nessuno, per aver avvicinato una greca. Fate, fate, fate di non avvicinare od ospitare il demonio. Addio Giuseppe, addio Nicodemo. Potrò vedervi ancora mentre qui sono? Ecco Marziam… Vieni, bambino, saluta i capi del Sinedrio. Che dici loro?».
   «La pace sia con voi e… ancora dico: nell’ora dell’incenso pregate per me».
   «Tu non ne hai bisogno, fanciullo. Ma perché proprio in quell’ora?».
   «Perché la prima volta che entrai nel Tempio con Gesù, Egli mi parlò[92] della preghiera della sera… Oh! così bello!…».
   «E tu per noi pregherai? Quando?».
   «Pregherò… pregherò mattino e sera. Perché Dio vi preservi dal peccato nel giorno e nella notte».
   «E che dirai, fanciullo?».
   «Dirò: “Signore altissimo, fa’ di Giuseppe e Nicodemo dei veri amici di Gesù”. E basterà, perché chi è amico vero non dà dolore all’amico. E chi non dà dolore a Gesù è certo di possedere il Cielo».
   «Dio ti conservi così, fanciullo!», dicono i due sinedristi accarezzandolo.
   E poi salutano il Maestro, indi la Vergine e Lazzaro in particolare, e tutti gli altri in massa, e se ne vanno.

[92] mi parlò, in 197.5.