MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 231



CCXXXI. A Cafarnao, Marta parla con Gesù della crisi che tormenta Maria di Magdala.

   27 luglio 1945.

   231.1 Accaldato e polveroso, Gesù, con Pietro e Giovanni, rientra nella casa di Cafarnao.
   Ha appena messo piede nell’orto, diretto alla cucina, quando il padrone di casa lo chiama famigliarmente dicendogli:
   «Gesù, è tornata quella dama di cui ti ho parlato a Betsaida, è tornata a cercarti. Le ho detto di aspettarti e l’ho condotta di sopra, nella stanza alta».
   «Grazie, Tommaso, vado subito. Se vengono gli altri trattienili qui». E Gesù sale lesto la scala senza neppure levarsi il mantello.
   Sulla terrazza dove la scala immette vi è ferma Marcella, l’ancella di Marta. «Oh! Maestro nostro! La mia padrona è là dentro. Ti aspetta da tanti giorni», dice la donna inginocchiandosi a venerare Gesù.
   «Lo immaginavo. Vado subito da lei. Dio ti benedica, Marcella».
   Gesù alza la tenda messa a fare da riparo alla luce ancora violenta, nonostante che il tramonto sia avanzato e faccia di fuoco l’aria e pare accenda le case bianche di Cafarnao con il riverbero rosso di un enorme braciere. Nella stanza, tutta velata e avvolta in un mantello, seduta presso una finestra, è Marta. Forse guarda uno scorcio di lago in cui si tuffa il muso di un colle boscoso. Forse non guarda che i suoi pensieri. Certo è molto assorta, tanto da non sentire il lieve scalpiccio di Gesù che le si avvicina. E ha un sussulto quando Egli la chiama.
   «Oh! Maestro!», grida. E scivola in ginocchio a braccia tese, come invocando aiuto, e poi si curva fino a toccare con la fronte il pavimento e piange.

   231.2 «Ma perché? Su, alzati! Perché questo grande pianto? Hai qualche sventura da dirmi? Sì? Quale dunque? Sono stato a Betania, lo sai? Sì? E là ho saputo che c’erano buone notizie. Ora tu piangi… Che cosa è avvenuto?», e la forza ad alzarsi facendola sedere sul sedile messo contro la parete e sedendosi di fronte a lei. «Andiamo, levati il velo e il mantello, come faccio Io. Devi soffocare lì sotto. E poi voglio vedere il viso di questa Marta turbata, per cacciare tutte le nuvole che l’oscurano».
   Marta ubbidisce piangendo sempre, e appare il suo viso arrossato, dagli occhi gonfi.
   «Dunque? Ti aiuterò Io. Maria ti ha mandato a chiamare.
   Ha pianto molto, ha voluto sapere molto di Me, e tu hai pensato che ciò fosse buon segno, tanto che per compiere il miracolo hai desiderato Me. E Io sono venuto. E ora?…».
   «Ora più nulla, Maestro! Mi sono sbagliata. È la troppo viva speranza che fa vedere ciò che non c’è… Ti ho fatto venire per nulla… Maria è peggio di prima… No! Che dico! Calunnio, mento. Non è peggio, perché non vuole più uomini d’intorno. È diversa, ma è sempre tanto cattiva. Mi sembra pazza… Io non la capisco più. Prima, almeno, la capivo. Ma ora! Ora chi la capisce più?», e Marta piange desolatamente.
   «Su, mettiti calma e dimmi cosa fa. Perché è cattiva? Uomini, dunque, non ne vuole più intorno. Suppongo perciò che viva ritirata in casa. È così? Sì? Bene. Ciò è molto bene. L’averti desiderata vicina come per essere difesa dalla tentazione — sono le tue parole — e lo schivare la tentazione inibendosi le colpevoli relazioni, o anche semplicemente ciò che potrebbe indurre a colpevoli relazioni, è segno di volontà buona».
   «Dici di sì, Maestro? Proprio lo credi che è così?».
   «Ma certo. In che allora ti sembra cattiva?

   231.3 Raccontami cosa fa…».
   «Ecco». Marta, un poco rianimata dalla certezza di Gesù, parla con più ordine. «Ecco. Maria da quando sono venuta non è più uscita dalla casa e dal giardino, neppure per andare sul lago con la barca. E mi ha detto la sua nutrice che anche prima non usciva quasi più. Dalla Pasqua pare che abbia avuto inizio questo mutamento. Però prima della mia venuta ancora venivano persone a trovarla e non sempre lei le respingeva. Delle volte dava l’ordine che nessuno fosse fatto passare. E pareva un ordine dato per sempre. Poi giungeva a percuotere i servi, presa da un’ira ingiusta se, accorrendo lei verso il vestibolo per avere sentito le voci dei visitatori, li trovava già partiti. Da quando sono venuta io, non lo ha fatto più. Mi ha detto la prima notte, e per questo io ho tanto sperato: “Tienimi, legami magari. Ma non mi lasciare più uscire, non lasciare più che io veda altri che te e la nutrice. Perché io sono una malata e voglio guarire. Ma quelli che vengono da me, o che vogliono che io vada da loro, sono come degli stagni di febbre. Mi fanno sempre più ammalare. Ma sono tanto belli, all’apparenza, sono tanto fioriti e pieni di canti, con frutta d’aspetto piacevole, che io non so resistere perché sono una disgraziata, una disgraziata sono. La tua sorella è una debole, Marta. E c’è chi si approfitta della sua debolezza per farle compiere cose infami alle quali un resto di me non consente. L’unico resto che ho ancora della mamma, della povera mamma mia…”, e piangeva, piangeva. E io l’ho fatto questo. Con dolcezza nelle ore che lei è più ragionevole; con fermezza nelle ore che mi sembra una fiera in gabbia. Non si è mai ribellata a me. Anzi, passati i momenti di maggiore tentazione, viene a piangere ai miei piedi, col capo sul grembo, e dice: “Perdonami, perdonami!”; e se io le chiedo:
   “Ma di che, sorella? Tu non mi hai dato dolore”, lei mi risponde: “Perché poco fa, o ieri sera, quando tu mi hai detto: ‘Tu non vai fuori di qui’, io nel mio cuore ti ho odiata, maledetta, e ti ho desiderato la morte”. Non fa pena, Signore? Ma è pazza forse? Il suo vizio l’ha resa pazza? Penso che qualche amante le abbia dato un filtro per rendersela schiava nella lussuria e ciò le sia salito al cervello…».
   «No. Niente filtro. Niente pazzia. È un’altra cosa.

   231.4 Ma continua».
   «Dunque con me è rispettosa e ubbidiente. Anche i servi non li ha più maltrattati. Ma però, dopo la prima sera, non ha più chiesto di sapere nulla di Te. Anzi, se io ne parlo, devia il discorso. Salvo poi stare a ore e ore sullo scoglio dove è il belvedere a guardare il lago, fino ad esserne abbacinata, e a chiedermi, ad ogni barca che vede passare: “Ti pare quella dei pescatori galilei?”. Non dice mai il tuo Nome, né quello degli apostoli. Ma io so che pensa a loro e a Te nella barca di Pietro. E anche capisco che pensa a Te perché delle volte alla sera, mentre passeggiamo nel giardino oppure attendiamo l’ora del riposo, io cucendo, lei stando con le mani in mano, mi dice: “Così dunque bisogna vivere secondo la dottrina che segui?”. E delle volte piange, altre ride con una risata sarcastica, da pazza o da demonio. Altre volte invece si scioglie i capelli, sempre così artisticamente acconciati, e ne fa due trecce, e si mette una delle mie vesti e mi viene davanti con le trecce giù per le spalle o portate sul davanti, tutta accollata, pudica, fatta giovanetta dall’abito, dalle trecce e dall’espressione del volto, e dice ancora: “Così dunque dovrebbe divenire Maria?”, e anche lì delle volte piange baciandosi le sue splendide trecce grosse come braccia, lunghe fino ai ginocchi, tutto quell’oro vivo che era la gloria di mia madre, e alle volte invece fa quell’orrenda risata oppure mi dice: “Ma piuttosto, guarda, faccio così, e mi levo di mezzo”, e si annoda le trecce alla gola e stringe fino a divenire paonazza come per volersi strozzare. Altre volte, si capisce quando più forte sente la sua… la sua carne, ella si compassiona oppure si malmena. L’ho trovata che si percuoteva ferocemente il seno, il grembo, e si graffiava la faccia, picchiava la testa contro il muro, e se io le chiedevo: “Ma perché fai così?”, mi si voltava stravolta, feroce, dicendo: “Per spez zarmi. Me, le mie viscere e la mia testa. Le cose nocive, maledette, vanno distrutte. Mi distruggo”. E se io le parlo della misericordia divina, di Te — perché io ne parlo lo stesso di Te, come se lei fosse la più fedele delle tue discepole, e ti giuro che delle volte ho ribrezzo di parlarne davanti a lei — lei mi risponde: “Per me non ci può essere misericordia. Ho passato la misura”. E allora le prende una furia di disperazione, e grida, percuotendosi a sangue: “Ma perché? Perché a me questo mostro che mi dilania? Che non mi dà pace. Che mi porta al male con voci di canto e poi mi ci unisce le voci maledicenti del padre, della mamma, di voi, perché anche tu e Lazzaro mi maledite, e mi maledice Israele, me le porta per farmi impazzire…”. Io allora, quando così dice, rispondo: “Perché pensi a Israele, un popolo sempre, e non a Dio? Ma posto che non hai pensato prima a calpestare tutto, pensa ora a superare tutto, e a non curarti altro che di quello che non è mondo, ossia di Dio, del padre, della madre. Ed essi non ti maledicono se tu cambi vita, ma ti aprono le braccia…”. E lei mi ascolta, pensierosa, stupita come io dicessi una favola impossibile, e poi piange… Ma non risponde. Delle volte invece ordina ai servi vini e droghe, e beve e mangia questi cibi artificiosi e spiega: “Per non pensare”. Ora, da quando sa che Tu sei sul lago, dice a me, tutte le volte che si accorge che vengo: “Qualche volta vengo anche io” e, ridendo di quel riso che è un insulto a se stessa, termina: “Così almeno l’occhio di Dio cadrà anche sul letame”. Ma io non voglio che venga. E ora aspetto a venire quando lei, stanca di ira, di vini, di pianto, di tutto, dorme spossata. Anche oggi sono fuggita così, in modo da tornare a notte, prima che lei si ridesti. Questa è la mia vita… e io non spero più…»; e il pianto, non più frenato dal pensiero di dire tutto con ordine, riprende più forte di prima.

   231.5 «Ti ricordi, Marta, cosa ti ho detto una volta? “Maria è una malata”. Tu non lo volevi credere. Ora lo vedi. Tu la chiami pazza. Lei stessa si dice malata di febbri peccaminose. Io dico: inferma per possesso demoniaco. È sempre una malattia. E queste incoerenze, queste furie, questi pianti, e desolazioni, e aneliti a Me sono le fasi del suo male che, giunto al momento della guarigione, ha le più violente crisi. Tu fai bene a essere buona con lei. Fai bene ad essere paziente. Fai bene a parlarle di Me. Non averne ribrezzo a dire il mio Nome in sua presenza. Povera anima della mia Maria! È pure essa uscita dal Padre Creatore, non dissimile dalle altre, dalla tua, da quella di Lazzaro, da quelle degli apostoli e discepoli. Pure essa è stata inclusa e contemplata fra le anime per cui Io mi sono fatto carne per essere Redentore. Anzi per lei più che per te, per Lazzaro, apostoli e discepoli, Io sono venuto. Povera, cara anima che soffre, della mia Maria! Della mia Maria avvelenata con sette veleni oltre che col veleno primogenito e universale! Della mia Maria prigioniera! Ma lascia che venga a Me! Lascia che respiri il mio respiro, che senta la mia voce, che incontri il mio sguardo!… Si dice “letame”… Oh! povera cara, che dei sette demoni ha in sé meno forte quello della superbia! Ma solo per questo si salverà!».

   231.6 «Ma se poi uscendo trova qualcuno che la devia di nuovo verso il vizio? Lei stessa lo teme…».
   «E sempre lo temerà, ora che è giunta ad avere nausea del vizio. Ma non temere. Quando un’anima ha già questo desiderio di venire al Bene, e ne è trattenuta solo dal Nemico diabolico, che sa di perdere la preda, e dal nemico personale dell’io, che ragiona ancora umanamente e giudica se stesso umanamente, applicando a Dio il suo giudizio per impedire allo spirito di dominare l’io umano, allora quell’anima è già forte contro gli assalti del vizio e dei viziosi. Ha trovato la Stella Polare e non devia più. E ugualmente non dirle più: “E non hai pensato a Dio e invece pensi a Israele?”. È un rimprovero implicito. Non lo fare. È una uscita dalle fiamme. È tutta una piaga. Non la sfiorare altro che con balsami di dolcezza, di perdono, di speranza… Lasciala libera di venire. Anzi devi dirle quando conti di venire, ma non dirle: “Vieni con me”. Anzi, se riesci a capire che viene, tu non venire. Torna indietro. Attendila a casa. Ti verrà, spezzata dalla Misericordia. Perché Io le devo levare la malvagia forza che ora la tiene, e per qualche ora sarà come una svenata, una a cui un medico ha levato le ossa. Ma poi starà meglio. Sarà sbalordita. Avrà un grande bisogno di carezze e di silenzio. Assistila come fossi il suo secondo angelo custode: senza farti sentire. E se la vedrai piangere, lasciala piangere. E se la udrai farsi domande, lasciala fare. E se la vedrai sorridere, e poi farsi seria, e poi sorridere con un sorriso mutato, con un occhio mutato, con un volto mutato, non farle domande, non metterla in soggezione. Soffre più ora, nell’ascendere, che quando discese. E deve fare da sé, come da sé ha fatto quando è discesa. Non ha sopportato allora i vostri sguardi sulla sua discesa, perché nei vostri occhi era il rimprovero. Ma ora non può, nella sua vergogna finalmente risvegliata, sopportare il vostro sguardo. Allora era forte perché aveva in sé Satana, che era il padrone e la mala forza che la reggeva e poteva sfidare il mondo, eppure non ha potuto essere vista da voi nel suo peccare. Ora non ha più Satana per padrone. Egli è ospite in lei, ancora, ma è già tenuto alla gola dal volere di Maria. E non ha ancora Me. Perciò è troppo debole. Non può sostenere neppure la carezza dei tuoi occhi fraterni sulla sua confessione al suo Salvatore. Tutta la sua energia è volta e consumata a tenere alla gola il settemplice demone. Per tutto il resto ella è indifesa, nuda. Ma Io la rivestirò e la fortificherò.

   231.7 Va’ in pace, Marta. E domani, con tatto, dille che Io parlerò presso il torrente della Fonte, qui a Cafarnao, dopo il vespero. Va’ in pace! Va’ in pace! Ti benedico».
   Marta è perplessa ancora. «Non cadere in incredulità, Marta», le dice Gesù che l’osserva.
   «No, Signore. Ma penso… Oh! dàmmi qualche cosa che io possa dare a Maria, per darle un poco di forza… Soffre tanto…
   e io ho tanta paura che non riesca a trionfare sul demonio!».
   «Sei una bambina! Ha Me e te, Maria. Può mai non riuscire? Però vieni e tieni. Dàmmi questa mano che non ha mai peccato, che ha saputo essere dolce, misericordiosa, attiva, pia. Ha sempre fatto gesti di amore e di preghiera. Non si è impoltrita nell’ozio. Non si è corrotta mai. Ecco, la tengo fra le mie per farla più santa ancora. Alzala contro il demonio ed esso non la sopporterà. E prendi questa mia cintura. Non te ne separare mai. E tutte le volte che la vedrai di’ a te stessa: “Più forte di questa cintura di Gesù è il potere di Gesù, e con esso tutto si vince: demoni e mostri. Non devo temere”. Sei contenta ora?
   La mia pace sia con te. Va’ tranquilla».
   Marta lo venera ed esce. Gesù sorride mentre la vede riprendere posto nel carro, che Marcella ha fatto venire alla porta, e andare verso Magdala.