MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME V CAPITOLO 345



CCCXLV. Miracolo al castello di Cesarea Paneade.

   29 novembre 1945.

   345.1Sono finite le mense nella casa ospitale. E Gesù esce con i dodici, i discepoli e il vecchio padrone di casa. Ritornano alla “grande sorgente”. Ma non si fermano lì. Continuano la strada salendo sempre in direzione nord.
   La strada presa, per quanto parecchio in salita, è comoda, perché è una vera strada, atta anche a carri e cavalcature. In cima ad essa, sulla vetta del monte, è un massiccio castello, o fortezza che sia, che stupisce per la sua forma singolare. Sembrano due costruzioni messe a un dislivello di qualche metro l’una dall’altra, di modo che la più arretrata, e la più guerresca, è sopraelevata sull’altra e la domina e difende. Un alto e largo muro, su cui sono tozze e quadrate torri, è fra l’una e l’altra costruzione, che pure è un’unica costruzione, perché è cinta da un’unica cinta di muraglie a pietroni bugnati, diritte oppure un poco oblique alla base, per sostenere meglio il peso del bastione. Non vedo il lato di ovest. Ma i due lati nord e sud scendono a picco, tutt’uno col monte che è isolato e che scoscende a picco da quei due lati. E credo che anche il lato ovest sia nelle stesse condizioni.
   Il vecchio Beniamino, per l’orgoglietto proprio di ogni cittadino verso la sua città, illustra il castello del Tetrarca, che è, oltre che castello, luogo di difesa della città, e ne enumera la bellezza e la potenza, la solidità, le comodità di cisterne e vasche, di spazio, di ampio raggio di visione, di posizione, ecc. ecc.
   «Anche i romani lo dicono bello. E loro se ne intendono!…», termina il vecchio. E aggiunge: «Io conosco l’intendente. Per questo posso entrare. Vi farò vedere il più ampio e bel panorama della Palestina».
   Gesù ascolta benignamente. Gli altri un poco sorridono, loro che hanno visto tanti panorami… ma il vecchio è così buono che non hanno cuore di mortificarlo e lo secondano nel suo desiderio di mostrare cose belle a Gesù.

   345.2Giungono alla vetta. La vista è veramente bella anche dalla piazzuola che è davanti al ferrato portone di accesso. Ma il vecchio dice: «Venite, venite!… Dentro è più bello. Andremo sulla torre più alta della cittadella. Vedrete…».
   E penetrano nell’androne oscuro scavato nella muraglia larga molti metri, fino ad un cortile nel quale sono ad attenderli l’intendente con la famiglia. I due amici si salutano e il vecchio spiega lo scopo della visita.
   «Il Rabbi d’Israele?! Peccato che Filippo sia assente. Desiderava vederlo perché ne è giunta fama. Egli ama i rabbi veri, perché sono gli unici che hanno difeso il suo diritto e anche per fare dispetto all’Antipa, che non li ama. Venite, venite!…». L’uomo ha sbirciato Gesù sul principio, poi ha pensato bene di onorarlo con un inchino degno di un re.
   Passano un altro androne, ecco un secondo cortile e una nuova pustierla ferrata che immette in un terzo cortile, oltre il quale è un fondo fossato e il muraglione turrito della cittadella. Visi curiosi di armigeri e di attendenti alle case si affacciano per ogni dove. Penetrano nella cittadella e poi, per una scaletta, salgono sul bastione e da questo a una torre. Nella torre entrano solo Gesù con l’intendente, Beniamino e i dodici. Di più non potrebbero, perché vi stanno già stipati come acciughe. Gli altri restano sul bastione.
   Ma che vista quando dalla torre Gesù e chi è con Lui escono sulla terrazzetta che corona la torre e sporgono tutti il viso dall’alto parapetto di macigni! Sporgendosi verso l’abisso che è su questo lato ovest, il più alto del castello, si vede tutta Cesarea stesa ai piedi di questo monte, e la si vede bene, essendo a sua volta non piatta ma su delle dolci pendici. Oltre Cesarea si stende tutta la fertile pianura che precede il lago di Meron. E sembra un piccolo mare di un verde tenero, con uno sfaccettio d’acque di turchesi chiare, brillanti nella distesa verdolina come brandelli di cielo sereno. E poi vaghi colli, messi come collane di smeraldo scuro, striato dell’argento degli ulivi, sparsi qua e là ai confini della pianura. E pennacchi aerei di alberi in fiore, oppure palle compatte di alberi fioriti… Ma guardando verso nord e oriente ecco il Libano potente, l’Ermon che brilla al sole con le sue nevi perlate e i monti dell’Iturea; e la valle del Giordano, per la cuna chiusa fra i colli del mar di Tiberiade e i monti della Gaulanite, appare in un ardito scorcio, perdendosi in lontananze di sogno.
   «Bello! Bello! Molto bello!», esclama Gesù ammirando, e pare benedica o che voglia abbracciare questi luoghi tanto belli col suo aprire di braccia e sorridere di viso. E risponde agli apostoli che chiedono questa o quella spiegazione, indicando i luoghi dove furono, ossia le regioni e le direzioni in cui esse sono.
   «Ma io non lo vedo il Giordano», dice Bartolomeo.
   «Non lo vedi, ma è là, presso quella vastità fra due catene di monti. Subito dopo quella di ponente è il fiume. Noi scenderemo di là, ché la Perea e la Decapoli ancora aspettano l’Evangelizzatore».

   345.3Ma intanto si volge, interrogando quasi l’aria, per un lamento lungo, soffocato, che non per la prima volta ferisce il suo orecchio. E guarda l’intendente come per chiedergli che avviene.
   «È una delle donne del castello. Una sposa. Sta per avere un bambino. Il primo e l’ultimo, perché lo sposo è morto alle calende di casleu. Non so se camperà neppure, perché la donna da quando è vedova non fa che struggersi in pianto. È un’ombra. Senti? Neppure ha forza di gridare… Certo… Vedova a diciassette anni… E si amavano molto. Mia moglie e la suocera le dicono: “Nel figlio ritroverai Tobia”. Ma sono parole…».
   Scendono dalla torre e fanno il giro dei bastioni, sempre ammirando il luogo e il panorama. Poi l’intendente vuole offrire per forza delle bibite e delle frutta ai visitatori ed entrano in una vasta camera del castello anteriore, dove i servi portano le cose ordinate.
   Il lamento è più straziante e vicino, e l’intendente se ne scusa anche perché il fatto trattiene sua moglie lontana dal Maestro. Ma un grido ancor più penoso del lamento di prima succede a questo e fa rimanere a mezz’aria le mani che portano le frutta o i calici alle bocche.
   «Vado a vedere che è avvenuto», dice l’intendente. Ed esce mentre la cacofonia di grida e pianti entra ancora più forte dalla porta socchiusa.

   345.4Ritorna l’intendente: «Le è morto il bambino appena nato… Che strazio! Cerca di rianimarlo con le fuggenti forze… Ma non respira più. È nero!…», e scrolla il capo terminando:
   «Povera Dorca!».
   «Portami il bambino».
   «Ma è morto, Signore».
   «Portami il bambino, dico. Così come è. E di’ alla madre che abbia fede».
   L’intendente corre via. Torna: «Non vuole. Dice che non lo dà a nessuno. Sembra pazza. Dice che facciamo così per levarglielo».
   «Conducimi sulla soglia della sua stanza. Che mi veda».
   «Ma…».
   «Lascia andare! Mi purificherò dopo, se mai…».
   Vanno lesti per un corridoio oscuro fino ad una porta chiusa. Gesù stesso la apre rimanendo sulla soglia di fronte al letto, su cui una diafana creatura stringe al cuore un esserino che non dà segno di vita.
   «La pace a te, Dorca. Guardami. Non piangere. Sono il Salvatore. Dàmmi il tuo piccino…».
   Cosa ci sia nella voce di Gesù non so. So che la disperata, che al primo vederlo si era ferocemente stretto il neonato al cuore, lo guarda, e il suo occhio straziato e folle si apre ad una luce dolorosa ma piena di speranza. Cede l’esserino avvolto in lini sottili alla moglie dell’intendente… e resta là, a mani tese, la vita, la fede negli occhi dilatati, sorda alle preghiere della suocera che la vorrebbe adagiare sui guanciali.

   345.5Gesù prende il fagottino di carni semifredde e di tele, e tiene il piccino ritto per le ascelle, e appoggia la sua bocca alle labbruzze socchiuse, stando curvo perché la testolina spenzola indietro. Soffia forte nelle fauci inerti… Sta colle labbra appoggiate alla bocchina per un attimo, poi si stacca… e un pigolio da uccellino trema nell’aria immota… un secondo più forte… un terzo… e infine un vero vagito in un tentennare di testolina, in un annaspare di manine, di piedini, mentre, nel lungo, trionfale pianto del neonato, si colora la testolina pelata, la faccetta minuscola… e gli risponde il grido della madre: «Figlio mio! Il mio amore! Il seme del mio Tobia! Sul cuore! Sul cuore della mamma… che muoia felice…», dice in un sussurro che si spegne in un bacio e in un abbandono di reazione comprensibile.
   «Ella muore!», gridano le donne.
   «No. Entra in un giusto riposo. Quando si sveglia ditele di chiamare il fanciullo: Jesai-Tobia. La rivedrò al Tempio il giorno della sua purificazione. Addio. La pace sia con voi».
   Richiude lentamente e si volge per tornare dove era, dai suoi discepoli. Ma essi sono tutti lì, mucchio commosso che ha visto e che lo guarda ammirato.
   Tornano insieme nel cortile. Salutano l’intendente sbalordito, che non fa che ripetere: «Come se ne dispiacerà il Tetrarca di non esserci stato!», e riprendono la discesa per tornare in città.
   Gesù posa la mano sulla spalla del vecchio Beniamino dicendo: «Io ti ringrazio per ciò che ci hai mostrato e per essere stato la ragione di un miracolo»…