MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME V CAPITOLO 321



CCCXXI. Sbarco a Seleucia e commiato da Nicomede.

   6 novembre 1945.

   321.1In un bellissimo tramonto si delinea la città di Seleucia come un grande ammasso bianco al limite delle acque azzurre del mare, che è placido e ridente, tutto uno scherzar di ondette sotto il cielo che fonde il suo cobalto senza nubi con le porpore del tramonto. La nave a vele spiegate punta veloce sulla città lontana, e pare incendiarsi con fuochi di gioia per la festa del prossimo arrivo, tanto è investita dagli splendori del sole calante.
   Sul ponte, fra i marinai, non più indaffarati e inquieti, sono i passeggeri che vedono avvicinarsi la meta. E seduto presso Giovanni di Endor, ancor più macilento di quando è partito, è il marinaio ferito. Ha ancora la testa fasciata da una lieve benda, è di un pallore d’avorio per il molto sangue perduto. Ma però è sorridente e parla con i suoi salvatori o coi compagni che, passando, si felicitano con lui di rivederlo sul ponte.

   321.2Lo nota anche il cretese e lascia per un poco il suo posto, affidandolo al capo ciurma, per venire a salutare il suo «ottimo Demete», ritornato sul ponte per la prima volta dopo la ferita.
   «E grazie a voi tutti», dice agli apostoli. «Non credevo proprio potesse vivere ancora, colpito come fu dal trave pesante e dal ferro che ancor più pesante lo faceva. Veramente, o Demete, costoro ti hanno ripartorito alla vita, perché tu eri già morto una e una volta. La prima giacendo qual merce sul ponte dove, e per sangue che si sperdeva e per onde che al mare portato ti avrebbero, saresti perito scendendo nel regno di Nettuno tra Nereidi e Tritoni. E la seconda per averti curato con quei meravigliosi unguenti. Fàmmi dunque vedere la ferita!».
   L’uomo si scioglie la benda e mostra la cicatrice ben chiusa, liscia, simile ad un segno rosso dalla tempia alla nuca, al limite dei capelli che appaiono tagliati, forse da Sintica, perché non entrassero nella ferita.
   Nicomede sfiora leggermente quel segno: «Anche l’osso è saldato! Ti amò Venere marina! E non volle averti che alla superficie del mare e sulle sponde di Grecia. Ti sia dunque propizio Eros, ora che a terra scendiamo, e giovi a levarti il ricordo della sciagura e il terrore di Tanatos nelle cui strette già eri».
   Il viso di Pietro è un panorama di impressioni, mentre sente tutte queste frange mitologiche. Appoggiato ad un albero di vela, con le mani dietro la schiena, non parla, ma tutto in lui parla per applicare un epiteto salato al pagano Nicomede e al suo paganesimo, e per significare il suo schifo per tutto ciò che è gentilesimo.
   Anche gli altri non sono da meno… Giuda d’Alfeo ha il viso chiuso dei momenti peggiori, suo fratello si gira su se stesso mostrando un grande interesse al mare. Giacomo di Zebedeo e Andrea pensano bene di lasciare in asso tutti e di scendere a prendere le sacche e il telaio, Matteo giocherella con la sua cintura e lo Zelote lo imita occupandosi a dismisura dei suoi sandali come fossero una cosa nuova, e Giovanni di Zebedeo si ipnotizza guardando il mare.
   Tanto manifesto lo sprezzo e la noia degli otto — e non lo è meno il mutismo dei due discepoli seduti presso il ferito — che il cretese se ne accorge e si scusa: «È la nostra religione, sapete? Come voi credete alla vostra, io e noi tutti crediamo alla nostra…».
   Nessuno risponde

   321.3e il cretese pensa bene di lasciare in pace i suoi dèi e scendere dall’Olimpo sulla Terra, anzi sul mare, sulla sua nave, invitando gli apostoli a venire a prua per vedere bene la città che si avvicina. «Ecco, vedete? Ci siete mai stati qui?».
   «Io, una volta. Ma venendo per via di terra», dice lo Zelote serio e reciso.
   «Ah! bene! Ma allora almeno sai che il vero porto di Antiochia è Seleucia, sul mare, alle foci dell’Oronte, che graziosamente si presta esso pure ad accogliere i navigli e, nei tempi di acque fonde, può essere risalito da barche leggere fino ad Antiochia. Quella che voi vedete è Seleucia, la più grande. L’altra, verso il mezzogiorno, non è città, ma rovine di un posto devastato. Illudono, ma è paese morto. Quella catena è il Pierio, che fa chiamare la città Seleucia Pieria. Quel picco più in dentro, oltre la pianura, è il monte Casio, che sovrasta come un gigante la pianura d’Antiochia. L’altra catena a settentrione è quella dell’Amano. Oh! vedrete che lavori in Seleucia e in Antiochia hanno fatto i romani! Di più grandi non potevano. Un porto a tre bacini che è uno dei migliori, e canali, e gettate, e dighe. Tanto non c’è in Palestina. Ma la Siria è più buona di altre province dell’Impero…».
   Le sue parole cadono in un silenzio glaciale. Anche Sintica, che per essere greca è meno schifiltosa degli altri, serra le labbra, e il suo viso prende più che mai l’incisività di un volto scolpito su una medaglia o un bassorilievo: un volto da dèa, sdegnosa dei contatti terreni.
   Il cretese se ne accorge e si scusa: «Che volete! In fondo io guadagno coi romani!…».
   La risposta di Sintica è netta come una sciabolata: «E l’oro leva il filo alla spada dell’onor nazionale e della libertà», e lo dice in maniera tale e con un latino così puro che l’altro resta di stucco…
   Poi osa chiedere: «Ma non sei greca?».
   «Greca sono. Ma tu ami i romani. Ti parlo con la lingua dei tuoi padroni, non con la mia, quella della Patria martire».
   Il cretese è confuso e gli apostoli sono mutamente entusiasti per la lezione data all’elogiatore di Roma.

   321.4Il quale pensa bene di girare il discorso chiedendo con che mezzo andranno da Seleucia ad Antiochia.
   «Con le gambe, uomo», risponde Pietro.
   «Ma è sera. Sarà notte quando sbarcherete…».
   «Ci sarà dove dormire».
   «Oh! certo. Ma potreste dormire anche qui fino a domani».
   Giuda Taddeo, che ha visto portare già tutto l’occorrente per un sacrificio agli dèi, forse da farsi all’arrivo in porto, dice:
   «Non occorre. Ti siamo grati della tua bontà, ma preferiamo scendere. Non è vero, Simone?».
   «Sì, sì. Anche noi dobbiamo fare le nostre preghiere e… o tu e i tuoi dèi, o noi e il nostro Dio».
   «Fate come credete. Avevo piacere fare cosa grata al figlio di Teofilo».
   «Anche noi al Figlio di Dio facendoti persuaso che vi è un solo Dio. Ma tu sei scoglio che non si smuove. Come vedi, siamo pari. Ma chissà che un giorno non ci si ritrovi e che tu sia meno tenace…», dice serio lo Zelote.
   Nicomede fa un atto come dire: «Chissà quando!». Un atto di noncuranza ironica circa l’invito a riconoscere il Dio vero e ad abbandonare il falso. Poi va al suo posto di pilota, perché ormai il porto è vicino.
   «Scendiamo a prendere i cofani. Facciamo da noi. Non vedo l’ora di allontanarmi da questo puzzo pagano», dice Pietro. E, meno Sintica e Giovanni, se ne vanno tutti abbasso.

   321.5Loro, i due esiliati, sono vicini e guardano le dighe che si avvicinano sempre più.
   «Sintica, un altro passo verso l’ignoto, un altro strappo dal dolce passato, un’altra agonia, Sintica… Non ce la faccio più…».
   Sintica gli prende la mano. È pallida molto, addolorata. Ma è sempre la forte donna che sa dare forza.
   «Sì, Giovanni, un altro strappo, un’altra agonia. Ma non dire: un altro passo verso l’ignoto… Non è giusto. Noi sappiamo la nostra missione qui. Gesù l’ha detta. Dunque noi non andiamo all’ignoto, ma anzi sempre più ci fondiamo con ciò che sappiamo, con la volontà di Dio. Non è neppur giusto dire: “un altro strappo”. Noi ci uniamo alla sua volontà. Lo strappo separa. Noi ci uniamo. Perciò non ci strappiamo. Ci liberiamo unicamente da tutte le delizie sensibili del nostro amore per Lui, il Maestro nostro, riserbandoci le delizie soprasensibili, trasportando l’amore e il dovere ad un piano ultraterreno. Ne sei persuaso che è così? Sì? E allora non devi dire neppure: “un’altra agonia”. Agonia presuppone prossima morte. Ma noi, raggiungendo i piani spirituali per nostra dimora, aura e cibo, non moriamo ma “viviamo”. Perché lo spirituale è eterno. Perciò noi saliamo ad una vita più viva, anticipo della grande vita dei Cieli. Su, dunque! Dimentica di essere l’uomo-Giovanni e ricordati di essere il destinato al Cielo. Ragiona, agisci, pensa e spera solo da cittadino di questa Patria immortale…».

   321.6Tornano gli altri con i loro carichi proprio mentre la nave entra maestosa nell’ampio porto di Seleucia.
   «E ora filiamo, al più presto, al primo albergo che vediamo.
   Certo ve ne sono di vicini, e domani… o per barca o per carro andremo a destino».
   Fra fischi secchi di comando la nave attracca e viene calata la passerella. Nicomede si fa vicino ai partenti.
   «Addio, uomo. E grazie», dice per tutti Pietro.
   «Salve, ebrei. E grazie anche da me. Se farete quella via, subito troverete alloggio. Addio».
   Gli apostoli scendono di qua, lui si allontana di là verso il suo altare e, mentre Pietro con gli altri, carichi come facchini, vanno al riposo, il pagano inizia il suo inutile rito…