MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME V CAPITOLO 322



CCCXXII. Partenza da Seleucia su un carro e arrivo ad Antiochia.

   [senza data]

   322.1«Sui mercati troverete certo un carretto. Ma se volete il carro mio ve lo do, in ricordo di Teofilo. Se sono un uomo tranquillo, a lui lo devo. Mi difese perché era giusto. E certe cose non si dimenticano», dice il vecchio albergatore, ritto davanti agli apostoli nel primo sole del mattino.
   «È che il tuo carro te lo terremmo via per dei giorni… E poi chi lo conduce? Io arrivo all’asino… Ma i cavalli…».
   «Ma è uguale, uomo! Non ti darò un puledro indomito, ma un prudente cavallo da tiro, buono come un agnello. Ma farete presto e senza fatica. A nona sarete ad Antiochia, molto più che il cavallo ben conosce la strada e va da sé. Me lo renderai quando vorrai, senza interesse da parte mia, eccettuato quello di far cosa grata al figlio di Teofilo, al quale direte che ancora io sono debitore di tanto, e lo ricordo, e servo suo mi sento».
   «Che facciamo?», chiede Pietro ai compagni.
   «Quello che credi meglio. Tu giudica e noi ubbidiamo…».
   «Tentiamo il cavallo? Per Giovanni lo dico… e anche per fare presto… Mi sembra di condurre uno a morte e non vedo l’ora che sia tutto passato…».
   «Hai ragione», dicono tutti.
   «Allora, uomo, accetto».
   «Ed io con gioia dono. Vado ad apparecchiare il veicolo».

   322.2L’albergatore se ne va. Pietro sfoga il suo pensiero per intero: «Io ho consumato metà del tempo vitale che avevo in questi pochi giorni. Una pena! Una pena! Avrei voluto avere il carro[36] di Elia, il manto preso da Eliseo, tutto ciò che è rapido per fare presto… e soprattutto avrei voluto, a costo di soffrire la morte, dare un che, che consolasse quei poverini, li smemorasse, li… Non so, ecco!! Qualcosa, insomma, che non li facesse soffrire tanto… Ma se riesco a sapere chi è la causa principale di questo dolore, non sono più Simone di Giona se non lo torco come un panno da strizzare. Non già dico di ucciderlo, ohibò! Ma spremerlo come lui ha spremuto gioia e vita a quei due poverini…».
   «Hai ragione. È una grande pena. Ma Gesù dice che si deve perdonare le offese…», dice Giacomo d’Alfeo.
   «Le avessero fatte a me, dovrei perdonare. E potrei. Io sono sano e forte, e se qualcuno mi offende ho forza da reagire anche al dolore. Ma quel povero Giovanni! No, non posso perdonare l’offesa fatta al redento del Signore, ad uno che muore afflitto così…».
   «Io penso all’ora in cui lo lasceremo del tutto…», sospira Andrea.
   «Io pure. È un pensiero fisso e che cresce più si avvicina il momento…», mormora Matteo.
   «Facciamolo presto, per pietà», dice Pietro.
   «No, Simone. Perdona se ti faccio considerare che hai torto a volerlo. Il tuo sta divenendo un amor di prossimo deviato, e non deve in te, sempre retto, avvenire tal cosa», dice pacato lo Zelote mettendo una mano sulla spalla di Pietro.
   «Perché, Simone? Tu sei colto e buono. Mostrami il mio torto ed io, se lo vedo tale, ti dirò: hai ragione».
   «Il tuo amore sta divenendo malsano perché sta per cangiarsi in egoismo».
   «Come? Mi affliggo per loro e sono egoista?».
   «Sì, fratello, perché tu per eccesso di amore — ogni eccesso è disordine, e perciò induce al peccato — divieni vile. Vuoi non soffrire tu di veder soffrire. Ciò è egoismo, fratello nel nome del Signore».
   «È vero! Hai ragione. E ti ringrazio di avermi avvertito. Così va fatto fra buoni compagni. Bene. Allora non avrò più fretta… Ma però, dite il vero, non è una pietà?».
   «Lo è, lo è…», dicono tutti.

   322.3«Come faremo a lasciarli?».
   «Io direi di farlo dopo che Filippo li ha ospitati, restando magari nascosti in Antiochia per qualche tempo, andando a sentire da Filippo come si adattano…», suggerisce Andrea.
   «No. Sarebbe farli soffrire troppo con uno strappo così reciso», dice Giacomo d’Alfeo.
   «Allora, ecco, prendiamo il consiglio di Andrea per metà.
   Rimaniamo ad Antiochia, ma non in casa di Filippo. E per un po’ di giorni si va a trovarli, sempre meno, sempre meno finché… non ci si va più», dice l’altro Giacomo.
   «Dolore sempre rinnovato, e crudele delusione. No. Non va fatto», dice il Taddeo.
   «Che facciamo, Simone?».
   «Ah! per me! Vorrei essere al loro posto piuttosto che dover dire: “vi saluto”», dice Pietro avvilito.
   «Io propongo una cosa. Andiamo con loro da Filippo e vi stiamo. Poi, sempre insieme, andiamo ad Antigonio. È luogo rallegrante… E vi stiamo. Quando essi sono acclimatati, ci ritiriamo, con dolore, ma con virilità. Ciò direi. A meno che Simon-Pietro non abbia ordini diversi dal Maestro», dice Simone Zelote.
   «Io? No. Mi ha detto: “Fa’ tutto bene, con amore, senza pigrizie e senza frette, e nel modo che giudichi il migliore”. Fino ad ora mi pare di averlo fatto. C’è quel che di aver detto che ero pescatore!… Ma se non dicevo così non mi lasciava sul ponte».
   «Non ti fare degli scrupoli stolti, Simone. Sono insidie del demonio per turbarti», conforta il Taddeo.
   «Oh! sì. Proprio così. Credo che ci stia intorno come non mai, creandoci ostacoli e paure per indurci a viltà», dice Giovanni apostolo, e termina sottovoce: «Credo che volesse indurre a disperazione quei due col tenerli in Palestina… ed ora che essi sfuggono alla sua insidia, esso si vendica su di noi… Me lo sento attorno come un serpe nascosto fra l’erbe… E sono mesi che me lo sento intorno così… Ma ecco l’albergatore da un lato e Giovanni con Sintica dall’altro. Vi dirò il resto quando saremo soli, se vi interessa».
   Infatti da un lato del cortile viene avanti il carro robusto al quale è attaccato un robusto cavallo guidato dall’oste, mentre dall’altro lato vengono verso loro i due discepoli.
   «È ora di andare?», chiede Sintica.
   «Sì. È l’ora. Sei coperto bene, Giovanni? Vanno meglio i tuoi dolori?».
   «Sì. Sono avvolto nelle lane e mi ha giovato l’unzione».
   «Allora sali, che ora veniamo noi pure».

   322.4…E, ultimato il carico, saliti tutti, escono dall’ampio portone dopo ripetute assicurazioni dell’oste sulla docilità del cavallo. Traversano una piazza che è stata loro indicata e prendono una strada presso le mura, finché escono da una porta costeggiando prima un fondo canale e poi il fiume stesso. È una bella via ben tenuta, in direzione nord-est, ma seguente le giravolte del fiume. Dall’altro lato sono dei monti molto verdi nelle loro coste, insenature e burroni, e già si vedono sui cespugli del sotto bosco, nei posti più soleggiati, gonfiare le gemme di mille arbusti.
   «Quanti mirti!», esclama Sintica.
   «E lauri!», aggiunge Matteo.
   «Presso Antiochia è un luogo sacro ad Apollo», dice Giovanni di Endor.
   «Forse i venti hanno portato i semi sin qui…».
   «Forse. Ma è tutto un luogo pieno di belle piante questo», dice lo Zelote.
   «Tu che ci sei stato, credi che passeremo presso Dafne?».
   «Per forza. Vedrete una delle valli più belle del mondo. A parte il culto osceno e degenerato in orgie sempre più luride, è una valle di paradiso terrestre, e se vi entrerà la Fede diverrà un paradiso vero. Oh! quanto bene potrete fare qui! Vi auguro fertili i cuori come fertile è il suolo…», dice lo Zelote per suscitare pensieri di consolazione nei due.
   Ma Giovanni china il capo e Sintica sospira.

   322.5Il cavallo trotta cadenzato e Pietro non parla, tutto teso nello sforzo del guidare, benché la bestia vada sicura senza richiedere guida o stimolo. La strada scorre perciò abbastanza rapida, finché sostano presso un ponte per mangiare e per fare riposare il cavallo. Il sole è a mezzogiorno, e il bello della bellissima natura è tutto visibile.
   «Però… preferisco qui che sul mare…», dice Pietro osservando intorno.
   «Ma che tempesta!».
   «Il Signore ha pregato per noi. Io l’ho sentito vicino quando pregavamo sul ponte. Vicino come fosse fra noi…», dice sorridendo Giovanni.
   «Dove sarà mai? Io non ho pace pensando che è senza vesti… Se si bagna? E che mangerà? È capace di digiunare…».
   «Puoi essere certo che lo fa per aiutare noi», dice sicuro Giacomo d’Alfeo.
   «E per altro ancora. Nostro fratello è molto afflitto da qualche tempo. Credo si mortifichi continuamente per vincere il mondo», dice il Taddeo.
   «Vorrai dire: il demonio che è nel mondo», dice Giacomo di Zebedeo.
   «È lo stesso».
   «Ma non vi riuscirà. Io ho il cuore stretto da mille paure…», sospira Andrea.
   «Oh! ora che noi siamo lontani, tutto andrà meglio!», dice un po’ amaro Giovanni di Endor.
   «Non te lo pensare. Tu e lei non eravate nulla rispetto ai “grandi torti” del Messia secondo i grandi d’Israele», dice reciso il Taddeo.
   «Ne sei sicuro? Io, nel mio soffrire, ho anche questo chiodo nel cuore: di essere stato causa di male a Gesù con la mia venuta. Se fossi sicuro che così non è, soffrirei meno», dice Giovanni di Endor.
   «Mi credi veritiero, Giovanni?», domanda il Taddeo.
   «Sì che lo credo!».
   «Ebbene, allora in nome di Dio e mio ti assicuro che tu non hai dato che una pena a Gesù: quella di doverti mandare qui in missione. In tutte le altre sue pene passate, presenti e future, tu non c’entri».
   Il primo sorriso, dopo tanti giorni di malinconia tetra, illumina il volto scavato di Giovanni di Endor, che dice: «Che sollievo mi dai! Mi pare più luminoso il giorno, più leggero il mio male, più consolato il cuore. Grazie, Giuda di Alfeo! Grazie!».

   322.6Rimontano sul carro e passando sul ponte prendono l’altra riva del fiume, l’altra strada che va diritta verso Antiochia, attraverso una zona fertilissima.
   «Ecco là! In quella valle poetica è Dafne col suo tempio e i suoi boschetti. E là, in quella pianura, ecco Antiochia e le sue torri sulle mura. Entreremo per la porta che è presso il fiume. La casa di Lazzaro non è molto lontana dalle mura. Le più belle case sono state vendute. Resta questa, un tempo luogo di sosta dei servi e clienti di Teofilo, con molte scuderie e granai. Ora ci vive Filippo. Un buon vecchio. Un fedele di Lazzaro. Vi troverete bene. E insieme andremo ad Antigonio, dove era la casa abitata da Eucheria e dai suoi figli, allora bambini…».
   «Molto fortificata questa città, eh?», chiede Pietro, che ripiglia fiato ora che vede che il suo primo saggio di auriga è andato bene.
   «Molto. Muraglie di altezza e larghezza grandiosa, oltre cento torri che, le vedete, sembrano giganti diritti sulle mura, e fossati invalicabili al loro piede. Anche il Silpio ha messo le sue cime ad aiuto della difesa e a contrafforte delle mura nella parte più delicata… Ecco la porta. Meglio è che tu fermi ed entri tenendo al morso. Io ti conduco perché so la via»…
   Passano la porta, guardata da romani.
   Giovanni apostolo dice: «Chissà se è qui quel soldato della porta dei Pesci… Gesù avrebbe gioia di saperlo…».
   «Lo cercheremo. Ma ora cammina lesto», ordina Pietro, turbato all’idea di andare in una casa sconosciuta.
   Giovanni ubbidisce senza parlare; solo guarda attentamente ogni milite che vede.

   322.7Una breve via, poi una robusta e semplice casa, ossia un alto muro senza finestre. Solo un portone al centro del muro.
   «Ecco. Ferma», dice lo Zelote.
   «Oh! Simone! Sii buono! Parla tu, ora».
   «Ma sì, se ti deve fare piacere parlerò io», e lo Zelote bussa al pesante portone.
   Si fa riconoscere per un messo di Lazzaro. Entra solo. Esce con un vecchio alto e dignitoso, che si sprofonda in inchini e che dà ordine ad un servo di aprire il portone per lasciare entrare il carro. E si scusa di farli passare tutti di lì anziché dalla porta di casa.
   Il carro si arresta in un ampio cortile porticato, ben tenuto, con quattro grossi platani ai quattro angoli e due al centro, a difesa di un pozzo e di una vasca per abbeverare i cavalli.
   «Provvedi al cavallo», ordina l’intendente al servo. E poi, agli ospiti: «Vi prego, venite e sia benedetto il Signore che mi manda servi suoi e amici del padrone mio. Ordinate, che il vostro servo vi ascolta».
   Pietro si fa rosso, perché specie a lui sono rivolte quelle parole e quegli inchini, e non sa che dire…
   Lo soccorre lo Zelote. «I discepoli del Messia d’Israele, di cui ti parla Lazzaro di Teofilo, che d’ora in poi abiteranno la tua casa per servire il Signore, non necessitano che di riposo.
   Vuoi mostrarci dove possono abitare?».
   «Oh! sono sempre pronte stanze per pellegrini, come era uso della padrona mia. Venite, venite…».
   E seguito da tutti prende un corridoio, poi un piccolo cortile in fondo al quale è la vera casa. Apre la porta, va per un andito, piega a destra. Ecco una scala. Salgono. Un nuovo corridoio con stanze ai due lati.
   «Ecco. E dolce vi sia la dimora. Ora vado a ordinare acqua e biancherie. Dio sia con voi», dice il vecchio e se ne va.
   Aprono le imposte delle camere che scelgono. Le mura e i forti di Antiochia sono di fronte a quelle di un lato; il quieto cortile decorato di rosai rampicanti, per ora miseri per via della stagione, è visibile dalle altre dell’altro lato.
   E, dopo tanto andare, ecco finalmente una casa, una stanza, un letto… La sosta per alcuni, la mèta per gli altri…

[36] il carro, come in: 2 Re 2, 11; il manto, come in: 2 Re 2, 14.