MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME V CAPITOLO 323



CCCXXIII. La visita ad Antigonio.

   7 novembre 1945.

   323.1«Mio figlio Tolmai è venuto per i mercati. Oggi a sesta torna ad Antigonio. Tiepido è il giorno. Volete andare, secondo che desideravate?», chiede il vecchio Filippo mentre serve agli ospiti del latte fumante.
   «Andremo senza fallo. Quando hai detto?».
   «A sesta. Potrete tornare domani, se volete, oppure la sera avanti il sabato, se più vi piace. Allora tutti i servi ebrei, o entrati nella fede, vengono per le funzioni del sabato».
   «Così faremo.

   323.2E non è detto che non sia scelto quel luogo per dimora di questi».
   «Ne avrò sempre piacere, anche se li perdo. Perché è luogo salubre. E molto bene potreste fare fra i servi che, alcuni, sono ancora i servi lasciati dal padrone. E alcuni sono bontà della padrona benedetta che li ha riscattati da padroni crudeli. Perciò non tutti sono israeliti. Ma ormai non sono più neppure pagani. Parlo delle donne. Gli uomini sono tutti circoncisi. Non ne abbiate ribrezzo… Ma sono molto lontani ancora dalla giustizia d’Israele. I santi del Tempio se ne scandalizzerebbero, loro che perfetti sono…».
   «Eh! già! già! già!… Bene! Ora potranno progredire aspirando sapienza e bontà dai messi del Signore… Sentite quanto avete da fare?», termina Pietro rivolgendosi ai due.
   «Lo faremo. Non deluderemo il Maestro», promette Sintica. Ed esce per preparare ciò che crede opportuno.
   Giovanni di Endor chiede a Filippo: «Credi che ad Antigonio potrei fare un poco di bene anche ad altri, insegnando come pedagogo?».
   «Molto bene. Il vecchio Plauto è morto da tre lune e i fanciulli gentili non hanno scuola. Quanto agli ebrei non c’è maestro, perché tutti i nostri fuggono da quel luogo prossimo a Dafne. Ci vuole uno che sia… che sia… come era Teofilo… senza rigidezze per… per…».
   «Sì, insomma, senza fariseismo, vuoi dire», termina Pietro spicciativo.
   «Ecco… sì… Non voglio criticare… Ma penso… Maledire non serve. Meglio sarebbe aiutare… Come faceva la padrona che col suo sorriso portava alla Legge più e meglio di un rabbi».

   323.3«Ecco perché mi ha mandato qui il Maestro! Io sono proprio l’uomo che ha i requisiti giusti… Oh! farò la sua volontà. Fino all’ultimo respiro. Ora credo, credo proprio che non è altro che una missione di predilezione la mia. Lo vado a dire a Sintica. Vedrete che ci fermiamo là… Vado, vado a dirglielo», ed esce, animato come da tempo non era.
   «Altissimo Signore, io ti ringrazio e benedico! Soffrirà ancora, ma non come prima… Ah! che sollievo!», esclama Pietro. E poi sente il dovere di spiegare a Filippo un poco, e come lo può fare, il perché della sua gioia: «Devi sapere che Giovanni è stato preso di mira dai… “rigidi” di Israele. Tu li chiami: “rigidi”…».
   «Ah! comprendo! Perseguitato politico come… come…», e guarda lo Zelote.
   «Sì, come me e più, per altro ancora. Perché, oltre che per la casta diversa, egli li eccita con il suo essere del Messia. Onde, e sia detto una volta per tutte, alla tua fedeltà sono affidati lui e lei… Comprendi?».
   «Comprendo. E mi saprò regolare».
   «Come li chiamerai presso gli altri?».
   «Due pedagoghi raccomandati da Lazzaro di Teofilo, lui per i fanciulli, ella per le bambine. Vedo che ha ricami e telai… Molti lavori donneschi si fanno e si vendono ad Antiochia, da gente straniera. Ma sono lavori rozzi e pesanti. Ieri le ho visto un lavoro che mi ha ricordato la buona padrona mia… Saranno molto ricercati…».
   «E una volta di più sia lodato il Signore», dice Pietro.
   «Sì. Ciò diminuisce in noi il dolore della prossima partenza».
   «Già volete partire?».
   «Dobbiamo. Ci ha ritardato la tempesta. Ai primi di scebat dobbiamo essere col Maestro. Ci attende già, ché in ritardo siamo», spiega il Taddeo.

   323.4Si separano andando ognuno per le sue incombenze, ossia Filippo dove lo chiama una donna, gli apostoli al sole, sull’altana.
   «Potremmo partire il giorno dopo il sabato. Che dite?», chiede Giacomo d’Alfeo.
   «Per me!… Figurati! Tutti i giorni mi alzo col tormento di Gesù solo, senza vesti, senza cure, e tutte le notti mi corico con questo tormento. Ma oggi decideremo».
   «Dite un po’. Ma il Maestro sapeva tutto ciò? Io mi chiedo da giorni come sapeva che avremmo trovato il cretese, come ha preveduto il lavoro di Giovanni e Sintica, come, come… Tante cose, insomma», dice Andrea.
   «Veramente credo che il cretese abbia epoche fisse di sosta a Seleucia. Forse Lazzaro lo disse a Gesù, e Lui perciò ha deciso di partire senza attendere la Pasqua…», spiega lo Zelote.
   «Già! Giusto! E per la Pasqua come farà Giovanni?», chiede Giacomo d’Alfeo.
   «Ma come tutti gli israeliti!…», dice Matteo.
   «No. Sarebbe cadere in bocca al lupo!».
   «Macché! Fra tanta gente, chi lo pesca?».
   «L’Iscar… Oh! che ho detto! Non ci pensate. È uno scherzo della mia mente…». Pietro è rosso, afflitto di avere parlato.
   Giuda d’Alfeo gli mette una mano sulla spalla, sorridendo del suo sorriso severo, e dice: «Va’ là! Pensiamo tutti la stessa cosa… Ma non diciamola a nessuno. E benediciamo l’Eterno che ha deviato da questo pensiero la mente di Giovanni».
   Tacciono tutti, assorti. Ma per loro, veri israeliti, è un pensiero il come potrà fare la Pasqua in Gerusalemme il discepolo esiliato… e tornano a parlare di questo.
   «Io credo che Gesù provvederà. Forse Giovanni lo sa. Non c’è che chiederglielo», dice Matteo.
   «Non lo fate. Non mettete desideri e spine dove appena si rifà pace», supplica Giovanni apostolo.
   «Sì. È meglio chiederlo al Maestro stesso», conferma Giacomo d’Alfeo.
   «Quando lo vedremo? Che dite?», chiede Andrea.
   «Oh! Se partiamo il giorno dopo il sabato, per la fine della luna saremo certo a Tolemaide…», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Se troviamo naviglio…», osserva Giuda Taddeo. E suo fratello aggiunge: «E se non c’è tempesta».
   «Per il naviglio ce ne è sempre in partenza per la Palestina.
   E pagando faremo fare scalo a Tolemaide anche se è nave diretta a Joppe. Ne hai ancora, Simone?», chiede lo Zelote a Pietro.
   «Sì. Per quanto quel ladro del cretese mi abbia pelato a dovere, nonostante le sue proteste di volere fare gentilezza a Lazzaro. Ma ho da pagare la sosta della barca e quella di Antonio… E i denari dati per Giovanni e Sintica non li tocco. Sacri.
   A costo di non mangiare, li lascio intatti».
   «Fai bene. Quell’uomo è molto malato. Lui crede di potere fare il pedagogo. Credo farà solo l’infermo, presto…», giudica lo Zelote.
   «Sì, lo penso io pure. Sintica, più che i lavori, dovrà fare gli unguenti», conferma Giacomo di Zebedeo.
   «Ma quell’unguento, eh? Che prodigio! Sintica mi ha detto che lo vuole rifare e usarlo per poter penetrare in famiglie di qui», dice Giovanni.
   «Buona idea! Uno, malato, che guarisce è sempre un discepolo acquistato, e con lui i suoi», proclama Matteo.
   «Ah! questo no!», esclama Pietro.
   «Come? Vuoi dire che il miracolo non attira al Signore?», gli chiede Andrea e con lui due o tre altri.
   «Oh! pargoletti! Sembra che veniate ora dal Cielo! Ma non vedete come fanno a Gesù? Si è convertito Eli di Cafarnao? E Doras? E Osea di Corozim? E Melchia di Betsaida? E — scusate, voi di Nazaret — e tutta Nazaret per i cinque, sei, dieci miracoli fatti, fino all’ultimo, quello di vostro nipote?», chiede Pietro.
   Nessuno replica perché è l’amara verità…
   «Non abbiamo trovato ancora il soldato romano. Gesù lo aveva fatto capire…», dice Giovanni dopo un poco.
   «Lo diremo a quelli che restano. Anzi sarà uno scopo di più nella loro vita», risponde lo Zelote.

   323.5Ritorna Filippo: «Mio figlio[37] è pronto. Ha fatto presto. È con a madre che prepara regali per i nipoti».
   «È buona tua nuora, non è vero?».
   «Buona. Mi ha consolato della perdita del mio Giuseppe.
   Come una figlia è. Era ancella di Eucheria, educata da lei. Venite a prendere ristoro avanti la partenza. Gli altri lo stanno facendo già»…
   …E preceduti dal carro di Tolmai, nipote di Filippo, trottano verso Antigonio…
   La cittadina è presto raggiunta. Seppellita nell’ubertosità dei suoi giardini, riparata dalle correnti per le catene di monti che ha intorno, abbastanza lontane per non opprimerla ma abbastanza vicine per proteggerla e per versare su di essa gli effluvi dei suoi boschi di piante resinose ed essenziali, tutta piena di sole, rallegra vista e cuore solo a traversarla.

   323.6I giardini di Lazzaro sono al sud della città e sono preceduti da un viale per ora spoglio, lungo il quale sono le case degli addetti ai giardini. Casette basse, ma ben tenute, sulle soglie delle quali si affacciano visi di bimbi e di donne che osservano curiosi e salutano sorridendo. Le razze diverse appaiono nelle diversità dei volti.
   Tolmai, non appena superato il cancello che inizia la proprietà, fa, passando davanti ad ogni casa, uno schiocco di frusta speciale; deve essere come un segno. E gli abitanti di ogni casa, dopo avere osservato, entrano nelle dimore ed escono poi chiudendo le porte e camminando per il viale dietro ai due carri, che camminano al passo e che si fermano poi al centro di una raggiera di sentieri diretti in ogni senso come i raggi di una ruota, fra campi e campi messi ad aiuole, quali spoglie, quali perenni nel loro verde, vegliate da lauri, da acacie o piante simili, da altre piante che da tagli fatti nel tronco esprimono latte odorifero e resine. Un odore misto di aromi balsamici, resinosi, aromatici, è nell’aria. Alveari per ogni dove. E vasche di irrigazione dove bevono colombi bianchissimi. E in speciali zone, dalla terra nuda, zappata di fresco, razzolano gallinelle pure bianche sorvegliate da fanciulle.

   323.7Tolmai schiocca la sua frusta ripetutamente, finché tutti i sudditi del piccolo regno sono riuniti intorno ai sopraggiunti. E allora inizia il suo discorsetto:
   «Ecco. Filippo, capo nostro e padre del padre mio, manda e raccomanda questi santi di Israele, qui venuti per volontà del padrone nostro, che Dio sia sempre con lui e la sua casa. Molto ci lamentavamo perché qui mancavano le voci dei rabbi santi. Ecco che la bontà del Signore e del padrone nostro, lontano ma tanto di noi amoroso — gli renda Dio il bene che egli dà ai suoi servi — ci procurano ciò che il cuore nostro sognava. In Israele è sorto il Promesso alle genti. Ce lo avevano detto nelle feste al Tempio e nella casa di Lazzaro. Ma ora realmente è venuto per noi il tempo della grazia, perché il Re d’Israele ha pensato ai minimi suoi servi ed ha mandato i suoi ministri a portarci le sue parole. Questi sono i suoi discepoli, e due di questi vivranno fra noi, qui o in Antiochia, insegnando la sapienza per essere dotti al Cielo e l’altra che necessita per la Terra. Giovanni, pedagogo e discepolo di Cristo, insegnerà ai nostri bambini l’una e l’altra sapienza. Sintica, discepola e maestra d’ago, insegnerà la scienza dell’amor di Dio e l’arte del lavoro donnesco alle fanciulle. Riceveteli come benedizione del Cielo e amateli come li ama Lazzaro di Teofilo ed Eucheria — gloria alle loro anime e pace — e come li amano le figlie di Teofilo, Marta e Maria, nostre amate padrone e discepole di Gesù di Nazaret, il Rabbi d’Israele, il Promesso, il Re».
   Il piccolo popolo di uomini, dalle corte tuniche, dalle mani terrose che sorreggono arnesi di giardinaggio, di donne, di fanciulli d’ogni età, ascolta stupito, poi bisbiglia, infine si inchina profondamente.
   Tolmai inizia le presentazioni: «Simone di Giona, il capo dei messi del Signore; Simone il Cananeo, amico del padrone nostro; Giacomo e Giuda, fratelli del Signore; Giacomo e Giovanni, Andrea e Matteo»; e poi agli apostoli e discepoli: «Anna, mia moglie, della tribù di Giuda, come mia madre d’altronde, perché puri siamo, venuti con Eucheria di Giuda. Giuseppe, il maschio sacro al Signore, e Teocheria, primogenita, che nel nome ha il ricordo dei giusti padroni, saggia figlia e amante di Dio da vera israelita, Nicolai e Dositeo. Nicolai è nazareo; Dosideo, terzogenito, è già sposo (e un grosso sospirone accompagna l’annuncio) da più anni ad Ermione.

   323.8Vieni qui, donna…».
   Si avanza una giovanissima brunetta con un bambino lattante in braccio.
   «Eccola. È figlia di un proselite[38] e di una greca. Mio figlio la vide ad Alessandroscene di Fenicia quando vi fu per commerci… e la volle… e Lazzaro non si oppose, ma anzi mi disse: “Meglio così che al male”. E male non è. Ma volevo un sangue d’Israele io…».
   La povera Ermione sta a testa china come un’accusata. Dositeo freme e soffre. Anna, la madre e suocera, guarda con occhi dolenti…
   Giovanni, per quanto più giovane di tutti, sente la necessità di rialzare gli spiriti umiliati e dice: «Nel Regno del Signore non sono più greci o israeliti, romani o fenici, ma solo figli di Dio. Quando da questi che qui sono venuti conoscerai la Parola di Dio, ti si solleverà il cuore a nuove luci, e costei non sarà più “la straniera” ma la discepola, come te e come tutti, del Signore nostro Gesù».
   Ermione alza il capo avvilito e sorride con gratitudine a Giovanni, e nel volto di Dositeo e di Anna è la stessa espressione di riconoscenza.
   Tolmai risponde austero: «E così voglia Dio che avvenga, perché, fuor che l’origine, nulla ho da rimproverare alla nuora.

   323.9Quello che è nelle sue braccia è Alfeo, l’ultimo nato, che dal padre di lei, proselite, ha preso il nome. La piccola dagli occhi di cielo sotto i ricci d’ebano è Mirtica, dal nome della madre d’Ermione, e questo, il primogenito, è Lazzaro, perché il padrone così volle, e l’altro è Erma».
   «Il quinto si deve chiamare Tolmai e la sesta Anna, per dire al Signore e al mondo che il tuo cuore si è aperto a nuove comprensioni», dice ancora Giovanni.
   Tolmai si inchina senza parlare. Poi riprende le presentazioni: «Questi sono due fratelli di Israele: Miriam e Silviano, della tribù di Neftali. E questi sono Elbonide Danita e Simeone giudeo. Poi ecco i proseliti, già romani, o almeno di romani, carità di Eucheria fatta opera, da lei strappati al giogo e al gentilesimo: Lucio, Marcello, Solone figlio di Elateo».
   «Nome greco», osserva Sintica.
   «Di Tessalonica. Schiavo di un servo di Roma», e lo sprezzo è palese nel dire “servo di Roma”. «Eucheria lo prese insieme col padre morente, in un’ora torbida, e se il padre morì pagano, Solone proselite è… Priscilla, vieni avanti coi figli…».
   Una donna alta e sottile, dal volto aquilino, si fa avanti spingendo una fanciulla e un fanciullo, alle gonne ha due frugoline.
   «Ecco la moglie di Solone, già liberta di una romana ora morta, e Mario, Cornelia, Maria e Martilla, gemelle. Priscilla è esperta in essenze. Amiclea, vieni tu coi figli. Costei è figlia di proseliti. E proseliti sono i due fanciulli Cassio e Teodoro. Tecla, non ti nascondere. È la moglie di Marcello. Il suo dolore è essere sterile. Figlia di proseliti essa pure. Questi i coloni.

   323.10Ora ai giardini. Venite».
   E li conduce per la vasta possessione, seguito dai giardinieri che spiegano le colture e i lavori, mentre le fanciulle tornano alle loro gallinelle che hanno approfittato dell’assenza delle guardiane per sconfinare altrove.
   Tolmai spiega: «Vengono condotte qui per liberare la terra dai bruchi prima della semina delle culture annue».
   Giovanni di Endor sorride alle gallinelle croccolanti e dice:
   «Sembrano le mie di un tempo…», e si curva gettando minuzzoli di pane preso nella sacca, finché è circondato da pollastrelle e ride perché una, petulante, gli strappa il pane dalle dita.
   «Meno male!», esclama Pietro dando di gomito a Matteo e accennando a Giovanni che scherza coi polli e a Sintica, che parla greco con Solone e Ermione.
   Poi tornano verso la casa di Tolmai, che spiega: «Questo è il luogo. Ma se vorrete insegnare vi è modo di fare posto. Rimanete qui o…».
   «Sì, Sintica! Qui! È più bello! Antiochia mi opprime di ricordi…», prega piano Giovanni alla compagna.
   «Ma sì… Come vuoi. Purché tu stia bene. Per me tutto mi è uguale. Non guardo più indietro io… Solo avanti, avanti… Su, Giovanni! Qui staremo bene. Bambini, fiori, colombi e gallinelle per noi, povere creature. E per l’anima nostra la gioia di servire il Signore. Che ne dite voi?», interroga volgendosi agli apostoli.
   «Noi pensiamo come te, donna».
   «Allora è detto così».
   «Molto bene. Partiremo contenti…».
   «Oh! non partite! Non vi vedrò più! Perché così presto? Perché?…». Giovanni ricade nel suo dolore.
   «Ma non andiamo via ora! Stiamo qui fino… fino che tu sei…». Pietro non sa dire cosa sarà Giovanni e, per non far vedere che è gonfio anche lui di lacrime, abbraccia il piangente Giovanni e cerca consolarlo così.

[37] Mio figlio viene chiamato Tolmai dal vecchio Filippo, suo nonno, padre di suo padre Giuseppe. Gli ebrei chiamavano figlio anche il nipote, così come chiamavano padre e madre anche i nonni; e ai cugini e ai cognati estendevano la qualifica di fratello o sorella. Era “inusato” (così in 100.12) dire zio e zia. Nell’opera valtortiana si trovano entrambi i modi di chiamare i vari gradi di parentela: quello dei tempi di Gesù e quello dei nostri tempi (in specie “zia” in 95.5/6).
[38] proselite era il pagano convertito alla religione giudaica e circonciso. Ricorrente nell’opera valtortiana, la figura del proselite trova una particolare accentuazione nel contesto del presente capitolo.