MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VI CAPITOLO 408



CDVIII. Nelle campagne di Giuseppe d'Arimatea. Moltiplicazione del grano e potenza della fede.

   31 marzo 1946.

   408.1Anche qui ferve l’opera dei mietitori. Anzi, è meglio detto, è stata fervida l’opera dei mietitori. Ormai le falci sono inutili perché non c’è più ritta una spiga, in questi campi ancor più prossimi alla sponda mediterranea di quelli di Nicodemo. Perché Gesù non è andato ad Arimatea, ma nei poderi che Giuseppe ha nel piano, verso il mare e che, avanti la mietitura, dovevano essere un altro piccolo mare di spighe, tanto sono estesi.
   Una casa bassa, larga, bianca, è là, al centro dei campi spogli. Una casa di campagna, ma ben tenuta. Le sue quattro aie stanno riempiendosi di covoni e covoni, messi a fasci come fanno i soldati con le salmerie durante le soste al campo. Carri e carri portano quel tesoro dai campi alle aie, e uomini e uomini scaricano e ammucchiano, e Giuseppe gira da un’aia all’altra e sorveglia che tutto sia fatto, e fatto bene.
   Un contadino, dall’alto del mucchio affastellato su un carro, annuncia: «Abbiamo finito, padrone. Tutto il grano è sulle tue aie. Questo è l’ultimo carro dell’ultimo podere».
   «Sta bene. Scarica e poi stacca i bovi e conducili alle vasche e alle stalle. Hanno ben lavorato e meritano riposo. E anche voi tutti avete ben lavorato e meritate riposo. Ma l’ultima fatica sarà lieve, perché ai cuori buoni è sollievo la gioia altrui.

   408.2Ora faremo venire i figli di Dio e daremo loro il dono del Padre. Abramo, va’ a chiamarli», dice poi volgendosi ad un patriarcale contadino, che forse è il primo dei servi contadini di questa tenuta di Giuseppe. Lo penso perché vedo che il rispetto degli altri servi è molto palese per questo vegliardo, che non lavora ma sorveglia e consiglia aiutando il padrone.
   E il vecchio va… Lo vedo dirigersi ad una vasta e molto bassa costruzione, più simile ad una tettoia che ad una casa, munita di due portoni giganteschi che toccano la grondaia. Penso sia una specie di magazzeno dove stiano ricoverati i carri e gli altri attrezzi agricoli. Entra là dentro e ne esce seguito da una eterogenea e misera folla di tutte le età… e di tutte le miserie… Vi sono esseri macilenti ma senza sventure fisiche e vi sono storpi, ciechi, monchi, malati d’occhi… Molte vedove coi molti orfanelli intorno, o anche delle mogli di qualche malato, tristi, dimesse, scarnite dalle veglie e dai sacrifici per curare il malato.
   Vengono avanti con quell’aspetto particolare dei poveri quan­do vanno ad un luogo in cui saranno beneficati: timidezza di sguardi, ritrosia del povero onesto, eppure un sorriso che affiora sopra la tristezza che giorni di dolore hanno impresso sui volti smunti, eppure una scintilla minima di trionfo, quasi una risposta all’accanirsi del destino in giorni tristi, continui, un dirgli: «Oggi, un giorno c’è anche per noi di festa, oggi è festa, è allegria, è sollievo per noi!».
   I piccoli sgranano gli occhi davanti ai mucchi dei covoni, più alti della casa, e dicono accennandoli alle mamme: «Per noi? Oh! belli!». I vecchi mormorano: «Il Benedetto benedica il pietoso!». I mendichi, storpi, o ciechi, o monchi, o malati d’occhi: «Avremo pane, infine, anche noi, senza sempre dovere stendere la mano!». E i malati ai parenti: «Almeno potremo curarci sapendo che voi non soffrite per noi. Le medicine ci faranno bene, ora». E i parenti ai malati: «Vedete? Ora non direte più che noi digiuniamo per lasciare a voi il boccone. Ora state dunque lieti!…». E le vedove agli orfanelli: «Creature mie, occorrerà benedire molto il Padre dei Cieli che vi fa da padre, e il buon Giuseppe che è il suo amministratore. Ora non vi sentiremo più piangere per fame, o figli che non avete che le vostre mamme a darvi aiuto… le povere mamme che di ricco non hanno che il cuore…». Un coro e uno spettacolo che allietano ma portano anche lacrime agli occhi…

   408.3E Giuseppe, avuti davanti questi infelici, si dà a scorrere le file, a chiamare uno per uno, domandando quanti sono in famiglia, da quanto tempo vedove, o da quanto malati, e così via… e prende appunto. E per ogni caso ordina ai servi contadini: «Dài dieci. Dài trenta».
   «Dài sessanta», dice dopo avere ascoltato un vegliardo semicieco che gli viene davanti con diciassette nipoti, tutti sotto i dodici anni, figli di due suoi figli, morti uno nella mietitura dell’anno prima, l’altra di parto… e dice il vecchio: «lo sposo s’è consolato e ad altre nozze è andato dopo un anno, rimandandomi i cinque figli, dicendo che ci avrebbe pensato. Mai un denaro, invece!… Ora mi è morta anche la donna e sono solo… con questi…».
   «Dài sessanta al vecchio padre. E tu, padre, resta, ché dopo ti darò vesti per i piccoli».
   Il servo fa notare che, se si va a sessanta covoni per volta, non basterà il grano per tutti…
   «E dove è la tua fede? Per me accumulo forse i covoni e li spartisco? No. Per i figli più cari al Signore. Il Signore stesso provvederà a che basti per tutti», risponde Giuseppe al servo.
   «Sì, padrone. Ma il numero è numero…».
   «Ma la fede è fede. Ed io, per mostrarti che la fede può tutto, ordino che sia raddoppiata la misura già data ai primi. Chi ebbe dieci abbia altri dieci, e chi venti altri venti, e centoventi siano dati al vecchio. Fa’! Fate!».
   I servi si stringono nelle spalle ed eseguiscono. E la distribuzione continua fra lo stupore gioioso dei beneficati, che si vedono dare una misura al disopra di tutte le loro più folli speranze. E Giuseppe ne sorride, carezzando i piccoli che si affannano ad aiutare le mamme, o aiuta gli storpi che fanno il loro piccolo mucchio, aiuta i vecchi troppo cadenti per farlo, o le donne troppo macilente, e fa mettere da un lato due malati per beneficarli con altri aiuti, come ha fatto col vecchio dai diciassette nipoti. I cumuli, alti più della casa, sono ora molto bassi, quasi a terra. Ma tutti hanno avuto il loro e in misura abbondante.
   Giuseppe domanda: «Quanti covoni restano ancora?».
   «Centododici, padrone», dicono i servi dopo avere contato i residui.
   «Bene. Ne prenderete…». Giuseppe scorre la lista dei nomi che ha segnato e poi dice: «Ne prenderete cinquanta. Li riporrete per semente, perché è seme santo. E il resto sia dato, uno per uno, ad ogni capo di famiglia qui presente. Sono esattamente sessantadue capi».
   I servi ubbidiscono. Portano sotto un portico i cinquanta covoni e dànno il resto. Ora le aie non hanno più i grossi mucchi d’oro. Ma per terra sono sessantadue mucchietti di diversa misura, e i loro proprietari si affannano a legarli e a caricarli su primordiali carriole, oppure su stenti asinelli che sono andati a slegare da una staccionata sul dietro della casa.

   408.4­Il vecchio Abramo, che ha confabulato coi principali fra i servi contadini, si avvicina con questi al padrone che li interroga: «Ebbene? Avete visto? Ce ne è stato per tutti! E con avanzo!».
   «Ma padrone! Qui c’è un mistero! I nostri campi non possono aver dato il numero dei covoni che tu hai distribuito. Io sono nato qui e ho settantotto anni. Sego da sessantasei anni. E so. Mio figlio aveva ragione. Senza un mistero non avremmo potuto dare tanto!…».
   «Ma è realtà che abbiamo dato, Abramo. Tu eri al mio fianco. I covoni sono stati dati dai servi. Non c’è sortilegio. Non è irrealtà. I covoni si possono ancora contare. Sono ancora là, sebbene divisi in tante parti».
   «Sì, padrone. Ma… Non è possibile che i campi ne abbiano dati tanti!».
   «E la fede, figli miei? E la fede? Dove mettete la fede? Poteva smentire il Signore il suo servo che prometteva in suo Nome e per santo fine?».
   «Allora tu hai fatto miracolo?!», dicono i servi, pronti già all’osanna.
   «Non sono uomo da miracoli io. Sono un povero uomo. Il Signore lo ha fatto. Mi ha letto nel cuore e vi ha visto due desideri: il primo era quello di portarvi alla mia stessa fede. Il secondo era quello di dare tanto, tanto, tanto a questi miei fratelli infelici. Dio ha annuito ai miei desideri… ed ha fatto. Che Egli ne sia benedetto!», dice Giuseppe con un inchino riverente come fosse davanti ad un altare.
   «E il suo servo con Lui», dice Gesù che è rimasto fino ad allora celato dietro lo spigolo di una casetta cinta da una siepe, non so se forno o frantoio, e che adesso appare apertamente sull’aia dove è Giuseppe.
   «Maestro mio e mio Signore!!», esclama Giuseppe cadendo in ginocchio per venerare Gesù.
   «La pace a te. Sono venuto a benedirti in nome del Padre.
   Per premiare la tua carità e la tua fede.

   408.5Sono tuo ospite per questa sera. Mi vuoi?».
   «Oh! Maestro! Lo chiedi? Soltanto… Soltanto qui non potrò farti onore… Sono fra servi contadini… nella mia casa di campagna… Non ho stoviglie fini, non ho maestri di mensa né servi capaci… Non ho cibi raffinati… Non ho vini scelti… Non ho amici… Sarà una ben povera ospitalità… Ma Tu compatirai… Perché, Signore, non mi hai fatto avvisato? Avrei provveduto… Ma ier l’altro Erma, coi suoi, fu qui… Anzi me ne sono servito per fare avvisati questi ai quali volevo dare, rendere, ciò che è di Dio… Ma non mi ha detto nulla, Erma! Avessi saputo!… Permetti, Maestro, che dia ordini, che cerchi di rimediare… Perché sorridi così?», chiede infine Giuseppe che è tutto sossopra per la gioia improvvisa e per la situazione che egli giudica… disastrosa.
   «Sorrido per le tue inutili pene. Ma, o Giuseppe, che cerchi? Ciò che hai?».
   «Che ho? Non ho nulla».
   «Oh! come sei uomo ora! Perché non sei più lo spirituale Giuseppe di poco fa, quando parlavi da sapiente? Quando promettevi, sicuro, per la fede e per dare la fede?».
   «Oh! hai sentito?».
   «Sentito e visto, Giuseppe. Quella siepe di lauri è molto utile a vedere che ciò che ho seminato non è morto in te. E per questo ti dico che ti dài delle inutili pene. Non hai maestri di tavola né servi capaci? Ma dove si esercita carità là è Dio, e dove è Dio là sono i suoi angeli. E che maestri di casa vuoi avere più capaci di quelli? Non hai cibi né vini prelibati? E quale cibo vuoi darmi e quale bevanda più prelibata dell’amore che hai avuto per costoro e che hai per Me? Non hai amici per farmi onore? E questi? Quali amici più diletti dei poveri e degli infelici per il Maestro che ha nome Gesù? Suvvia, Giuseppe! Neppure se Erode si convertisse e mi aprisse le sue sale per ospitarmi e darmi onore, in una reggia purificata, e con lui fossero i capi di tutte le caste ad onorarmi, Io avrei una corte più scelta di questa alla quale voglio Io pure dire una parola e dare un dono. Permetti?».
   «Oh! Maestro! Ma tutto ciò che Tu vuoi io voglio! Ordina».
   «Di’ loro che si radunino, e così si radunino i servi. Per noi ci sarà sempre un pane… Meglio è che ora ascoltino la mia parola anziché correre qua e là, indaffarati in povere cure».
   La gente si accalca sollecita, stupita…

   408.6Gesù parla: «Qui avete già conosciuto che la fede può moltiplicare il grano quando questo desiderio viene da desiderio d’amore. Ma non limitate la vostra fede alle necessità materiali. Dio creò il primo chicco di frumento e d’allora spighisce il frumento per il pane degli uomini. Ma Dio creò anche il Paradiso ed esso attende i suoi cittadini. È stato creato per coloro che vivono nella Legge e restano fedeli nonostante le prove dolorose della vita. Abbiate fede e riuscirete a conservarvi santi con l’aiuto del Signore, così come Giuseppe riuscì ad assegnare il grano in misura doppia per farvi felici due volte e confermare nella fede i suoi servi. In verità, in verità vi dico che se l’uomo avesse fede nel Signore, e per un giusto motivo, neppur le montagne, confitte con le loro viscere di roccia nel suolo, potrebbero resistere, e al comando di chi ha fede nel Signore si sposterebbero. Avete voi fede in Dio?», chiede rivolgendosi a tutti.
   «Sì, o Signore!».
   «Chi è Dio per voi?».
   «Il Padre Ss., come i discepoli del Cristo insegnano».
   «E il Cristo chi è per voi?».
   «Il Salvatore. Il Maestro. Il Santo!».
   «Questo solo?».
   «Il Figlio di Dio. Ma non bisogna dirlo, perché i farisei ci perseguitano se lo diciamo».
   «Ma voi credete che Egli lo sia?».
   «Sì, o Signore».
   «Orbene, crescete nella vostra fede. Anche se voi tacerete, le pietre, le piante, le stelle, il suolo, tutte le cose proclameranno che il Cristo è il vero Redentore e Re. Lo proclameranno nell’o­ra della sua assunzione, quando Egli sarà nella porpora santissima e col serto di Redenzione. Beati quelli che sapranno credere questo fin da ora, e più ancora lo crederanno allora, e avranno fede nel Cristo e vita eterna perciò. L’avete voi questa fede incrollabile in Cristo?».
   «Sì, o Signore. Insegnaci dove Egli è, e noi lo pregheremo di aumentare la nostra fede per essere beati così». E l’ultima parte di preghiera la fanno non solo i poveri, ma anche i servi, gli apostoli e Giuseppe.
   «Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa e questa fede, perla preziosa, terrete nel cuore senza farvela rapire da nessuna cosa umana, o soprumana e malvagia, potrete tutti anche dire a quel gelso potente che ombreggia il pozzo di Giuseppe: “Sbarbati di lì e trapiantati fra le onde del mare”».

   408.7«Ma Cristo dove è? Noi lo attendiamo per essere guariti. I discepoli non ci hanno guariti, ma ci hanno detto: “Egli lo può”. Vorremmo guarire per lavorare, noi», dicono degli uomini malati o inabili.
   «E credete che Cristo lo possa?», dice Gesù facendo cenno a Giuseppe di non dire che il Cristo è Lui.
   «Lo crediamo. Egli è il Figlio di Dio. Tutto può».
   «Sì. Tutto può… e tutto vuole!», grida Gesù stendendo con impero il braccio destro e abbassandolo come per giurare. E termina con un grido potente: «E così sia fatto, a gloria di Dio!».
   E fa per volgersi verso la casa. Ma i guariti, una ventina, urlano, accorrono e lo serrano in un groviglio di mani stese a toccare, a benedire, a cercare le sue mani, le sue vesti, per baciare, per carezzare. Lo isolano da Giuseppe, da tutti…
   E Gesù sorride, carezza, benedice… Si libera lentamente e, ancora inseguito, scompare nella casa, mentre gli osanna salgono nel cielo che si fa violaceo nel primo crepuscolo.