MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VI CAPITOLO 423



CDXXIII. Partenza dell'Iscariota, che provoca la lezione sull'amore e sul perdono senza limiti.­

   25 aprile 1946.

   423.1Sono ormai sull’altra sponda, avendo alla destra il monte Tabor e il piccolo Hermon, alla sinistra i monti della Samaria, alle spalle il Giordano, di fronte, oltre la pianura nella quale si trovano, i colli davanti ai quali è Mageddo (se ricordo bene questo nome, udito in una visione ormai lontana[134], quella in cui Gesù si riunisce a Giuda di Keriot e Tommaso, dopo la separazione causata dalla necessità di tenere occulta la partenza di
   Sintica e Giovanni di Endor).
   Devono avere riposato tutto il giorno in qualche casa ospitale, perché è di nuovo sera ed è palese che sono riposati. Fa ancora caldo, ma la guazza già comincia a scendere molcendo l’ardore. E scendono le ombre violacee del crepuscolo, succedendo agli ultimi rossori di un tramonto di fuoco.
 

   «Qui si cammina bene», osserva contento Matteo.
   «Sì. Andando così bene saremo prima del gallicinio a Mageddo», gli risponde lo Zelote.
   «E all’alba oltre i colli, in vista della piana di Saron», termina Giovanni.
   «E del tuo mare, eh?», lo stuzzica il fratello.
   «Sì. Del mio mare…», risponde sorridendo Giovanni.

   423.2«E tu partirai con lo spirito per una delle tue peregrinazioni spirituali», gli dice Pietro stringendogli un braccio con affetto rude e bonario. E termina: «Insegna anche a me come si fa a tirar fuori certi pensieri così… da angelo, dalla vista delle cose. Io l’acqua l’ho guardata tante volte… l’ho amata… ma… non mi ha mai servito altro che a navigare e a pescare. Cosa ci vedi tu?…».
   «Acqua vedo, Simone. Come te e come tutti. Così come adesso vedo campi e frutteti… Ma poi, oltre gli occhi del capo, ho come altri occhi qui dentro e vedo non più l’erba e l’acqua, ma parole di sapienza uscire da quelle cose materiali. Non sono io che penso. Non ne sarei capace. È un altro che pensa in me».
   «Sei tu forse profeta?», interroga l’Iscariota un poco ironico.
   «Oh! no! Non sono profeta…».
   «E allora? Credi di possedere Dio?».
   «Meno ancora…».
   «Allora farnetichi».
   «Potrebbe anche essere, tanto io sono piccolo e debole. Ma se così è, è ben dolce farneticare e mi porta a Dio. La mia malattia diviene allora un dono e ne benedico il Signore».
   «Ah! Ah! Ah!», ride fragorosamente e falsamente Giuda.
   Gesù, che ha ascoltato, dice: «Non è malato, non è profeta. Ma l’anima pura possiede la sapienza. Essa è che parla nel cuore dell’uomo giusto».
   «Allora io non ci arriverò mai, perché non sono sempre stato buono…», dice sconfortato Pietro.
   «E io, allora?», gli risponde Matteo.
   «Amici, pochi, troppo pochi sarebbero quelli che potrebbero possedere la sapienza perché sono puri da sempre. Ma il pentimento e la buona volontà fanno l’uomo, prima colpevole e imperfetto, giusto, e allora la coscienza si rinverginizza nel lavacro dell’umiltà, della contrizione e dell’amore e, rinverginizzata così, può emulare coloro che sono mondi».
   «Grazie, Signore», dice Matteo curvandosi a baciare la mano del Maestro.

   423.3­Un silenzio. Poi Giuda Iscariota esclama: «Sono stanco! Non so se ce la farò a camminare tutta la notte».
   «Sfido io! Oggi hai voluto andare in giro come un moscone mentre noi si dormiva!», gli risponde Giacomo di Zebedeo.
   «Volevo vedere se incontravo dei discepoli…».
   «E che ti premeva? Il Maestro non lo ha detto. Dunque…».
   «Ebbene, io l’ho fatto. E, se il Maestro me lo permette, sosto a Mageddo. Credo vi sia un amico nostro che va in giù ogni anno di questi tempi, dopo il raccolto delle biade. Vorrei parlargli di mia madre e…».
   «Fa’ pure ciò che credi. Finita la tua incombenza, ti dirigerai a Nazaret. Là ti raggiungeremo. Avviserai così mia Madre e Maria d’Alfeo che presto saremo a casa».
   «Io pure ti dico come Matteo: “Grazie, Signore”».
   Gesù non risponde nulla e accoglie il bacio sulla mano come accolse quello di Matteo. Non è possibile vedere le espressioni, perché è quel momento della sera nel quale la luce diurna è totalmente scomparsa, né vi è ancora la luce delle stelle. Tanto è buio che a fatica procedono nella via e, per eliminare ogni inconveniente, Pietro e Tommaso si decidono ad accendere dei rami colti alle siepi, che bruciano crepitando… Ma la luce, prima assente, poi mobile e fumosa, non permette di vedere bene le espressioni dei visi.
   I colli si approssimano, intanto. I loro dossi scuri si delineano con un nero più nero di quello dei campi segati e biancastri di stoppie nel nero della notte, e sempre più si delineano per la vicinanza e per il chiarore delle prime stelle…
   «Io ti lascerei qui, perché il mio amico sta un po’ fuori di Mageddo. Sono tanto stanco…».
   «Va’ pure. Il Signore vegli sui tuoi passi».
   «Grazie, Maestro. Addio, amici».
   «Addio, addio», dicono gli altri senza dare molta importanza al saluto.
   Gesù ripete: «Il Signore vegli sulle tue azioni».
   Giuda se ne va lesto.

   423.4­«Umh! Non pare più tanto stanco», osserva Pietro.
   «Già! Qui trascinava i sandali. Là corre come una gazzella…», dice Natanaele.
   «Il tuo commiato è stato santo, Fratello. Ma, a meno che il Signore non l’opprima con la sua volontà, non gioverà l’assistenza di Dio a fargli fare buoni passi e azioni giuste».
   «Giuda, non perché mi sei fratello sei esente da rimproveri! Ti rimprovero perciò di essere acre e inesorabile al tuo compagno. Egli ha le sue colpe. Ma tu pure hai le tue. E la prima è di non sapermi aiutare nel formare quell’anima. Tu lo esasperi con le tue parole. Non è con la violenza che si piegano i cuori. Credi di averne diritto di censurare ogni sua azione? Ti senti tanto perfetto da poterlo fare? Ti ricordo che Io, tuo Maestro, non lo faccio, perché amo quell’anima informe. È quella che mi fa pietà più di ogni altra… perché appunto è informe. Credi che egli goda del suo stato? E come potrai domani essere maestro di spiriti se non ti eserciti su un compagno ad usare l’infinita carità che redime i peccatori?».
   Giuda d’Alfeo china il capo sino dalle prime parole. Ma alla fine si inginocchia fino al suolo dicendo: «Perdonami. Sono un peccatore. E rimproverami quando sono in colpa, perché la correzione è amore, e unicamente lo stolto non comprende la grazia di essere corretto dal saggio».
   «Tu vedi che lo faccio, per il tuo bene. Ma al rimprovero è congiunto perdono, perché so capire la ragione del tuo rigore e perché l’umiltà del corretto disarma colui che corregge. Alzati, Giuda, e non peccare più», e se lo tiene al fianco con Giovanni.

   423.5Gli altri apostoli commentano fra di loro, prima bisbigliando, poi più forte, per l’abitudine che hanno di parlare a voce alta. E così sento che fanno il parallelo fra i due Giuda.
   «Se era Giuda di Keriot a sentire quel rimprovero! Chissà che rivolte! Tuo fratello è buono», dice Tommaso a Giacomo.
   «Però… ecco… Non si può dire che parlasse male. Ha detto una verità su Giuda di Keriot. Ci credi tu all’amico che va in Giudea? Io no», dice schietto Matteo.
   «Saranno… affari di vigne come al mercato di Gerico», dice Pietro ricordando la scena[135] che non può dimenticare. Ridono tutti.
   «Certo è che ci vuole il Maestro per compatirlo tanto…», osserva Filippo.
   «Tanto? Sempre, devi dire», gli ribatte Giacomo di Zebedeo.
   «Se fossi io, non sarei così paziente», dice Natanaele.
   «E neppure io. La scena di ieri è stata disgustosa», conferma Matteo.
   «L’uomo non deve essere in tutto a posto di mente», concilia lo Zelote.
   «Però i suoi affari li sa sempre fare bene. Fin troppo bene. Ci scommetterei la mia barca, le mie reti, anche la casa, sicuro di non perderci nulla, che lui sta andando da qualche fariseo in accatto di protezioni…», dice Pietro.
   «È vero! Ismael! C’è Ismael a Mageddo! Come non ci abbiamo pensato?! Ma bisogna dirlo al Maestro!», esclama Tommaso dandosi una gran manata sulla fronte.
   «Non serve. Il Maestro lo scuserebbe ancora e ci rimprovererebbe», dice lo Zelote.
   «Ebbene… proviamo. Va’ tu, Giacomo. Ti ama, sei suo parente…».
   «Per Lui siamo tutti uguali. Qui, in noi, Egli non vede i parenti o gli amici, vede soltanto gli apostoli ed è imparziale. Ma per farvi contenti andrò», dice Giacomo d’Alfeo. E affretta il passo per staccarsi dai compagni e raggiungere Gesù.

   423.6«Voi pensate che sia andato da un fariseo. Questo o quello, poco importa… Ma io penso che lo abbia fatto per non venire a Cesarea. Non ci viene volentieri…», dice Andrea.
   «Pare abbia ribrezzo delle romane da qualche tempo», nota Tommaso.
   «Eppure… mentre voi andavate a Engaddi ed io con lui da Lazzaro, fu tutto felice di parlare con Claudia…», osserva lo Zelote.
   «Sì… ma… Credo che proprio allora abbia fatto qualcosa di male. E penso che Giovanna lo sappia e per questo abbia chiamato Gesù e… e… tante cose macino qui dentro da quando Giuda si infuriò così a Betsur…», mastica Pietro fra i denti.
   «Dici che?…», chiede curioso Matteo.
   «Ma… Non so… Idee… Vedremo…».
   «Oh! non pensiamo del male! Il Maestro non vuole. E noi non abbiamo nulla prova che egli abbia fatto del male», prega Andrea.
   «Non mi vorrai dire che fa bene ad addolorare il Maestro, a mancargli di rispetto, a mettere dei malumori, a…».
   «Buono, Simone! Ti assicuro che egli è un poco matto…», dice lo Zelote.
   «Bene. Sarà. Ma è un peccatore contro la bontà del Signore nostro. Io, anche se mi sputasse in volto, se mi schiaffeggiasse, lo sopporterei per offrire ciò a Dio per la sua redenzione. Mi sono messo nel capo di fare ogni sacrificio per questo e mi mordo la lingua, mi conficco le unghie nei palmi quando fa il matto, per dominarmi. Ma quello che non posso perdonare è che sia cattivo col nostro Maestro. Il peccato che fa contro di Lui è come lo facesse a me, e non lo perdono. Poi… fosse raro! Ma è sempre dietro! Non riesco a farmi passare il rovello che mi bolle dentro per qualche sua scena, che ecco che lui ne fa un’altra! Una, due, tre… C’è un limite!». Pietro parla quasi urlando e gestendo con tutta irruenza.

   423.7Gesù, che è avanti di una decina di metri, si volge, ombra bianca nella notte, e dice:
   «Non c’è limite per l’amore e il perdono. Non c’è. Né in Dio né nei veri figli di Dio. Finché c’è vita, non c’è limite. L’unica barriera alla discesa del perdono e dell’amore è la resistenza impenitente del peccatore. Ma, se egli si pente, va sempre perdonato. Peccasse anche non una, due, tre volte al dì, ma molte di più.
   Voi pure peccate e volete perdono da Dio e a Lui andate dicendo: “Ho peccato! Perdonami”. E vi è dolce il perdono, così come a Dio è dolce il perdonare. E voi non siete degli dèi. Perciò meno grave è l’offesa che un vostro simile vi fa, di quella che fa a Colui che non è simile a nessun altro. Non vi pare? Eppure Dio perdona. Fate anche voi il simigliante. Badate a voi! Badate che la vostra intransigenza non vi si muti a danno, provocando intransigenza di Dio verso voi. Già l’ho detto, ma lo ripeto ancora. Siate misericordiosi per ottenere misericordia. Nessuno è tanto senza peccato da poter essere inesorabile verso il peccatore. Guardate i vostri pesi prima di quelli che gravano sul cuore altrui. Levate prima i vostri dal vostro spirito e poi rivolgetevi a quelli degli altri, per mostrare agli altri non rigore che condanna ma amore che ammaestra e aiuta ad essere liberati dal male.
   Per poter dire, e non essere messo a silenzio dal peccatore, per poter dire: “Tu hai peccato verso Dio e verso il prossimo”, occorre non aver peccato, o almeno aver riparato al peccato. Per poter dire a colui che è avvilito dall’aver peccato: “Abbi fede che Dio perdona a chi si pente”, come servi di questo Dio che perdona a chi si pente, dovete mostrare tanta misericordia nel perdonare. Allora potrete dire: “Vedi, o peccatore pentito? Io perdono le tue colpe sette e sette volte, perché sono servo di Colui che perdona volte senza numero a chi altrettante volte si pente dei suoi peccati. Pensa allora come ti perdona il Perfetto se io, solo perché lo servo, so perdonare. Abbi fede!”. Così dovete poter dire. E dire con l’azione, non con le parole. Dire perdonando.

   423.8Perciò, se il vostro fratello pecca, riprendetelo con amore, e se si pente perdonategli. E se in capo al giorno avrà peccato sette volte e sette volte vi dice: “Me ne pento”, altrettante volte perdonategli. Avete inteso? Mi promettete di farlo? Mentre egli è lontano, mi promettete di compatirlo? Di aiutarmi a guarirlo col sacrificio del vostro contenervi quando egli sbaglia? Non volete aiutarmi a salvarlo? È un vostro fratello di spirito venendo da un unico Padre, di razza venendo da un unico popolo, di missione essendo apostolo come voi. Tre volte lo dovete amare, perciò. Se nella vostra famiglia aveste un fratello che dà dolore al padre e fa dire di sé, non cerchereste di correggerlo perché il padre non soffra più e il popolo non sparli della vostra famiglia? E allora? Non è la vostra una più grande e santa famiglia il cui Padre è Dio, il cui Primogenito Io sono? Perché allora non volete consolare il Padre e Me, e aiutarci a fare buono il povero fratello che, credetelo, non è felice per essere così?…».
   Gesù è affannosamente implorante per l’apostolo così pieno di mancamenti… E termina: «Io sono il grande Mendico. E vi chiedo l’obolo più prezioso: anime vi chiedo. Io le vado cercando. Ma voi mi dovete aiutare… Saziate la fame del mio Cuore, che cerca amore e non lo trova che in troppo pochi. Perché quelli che non tendono alla perfezione mi sono come tanti pani levati alla mia fame spirituale. Date anime al vostro Maestro, afflitto di essere disamato e incompreso…».

   423.9­Gli apostoli sono commossi… Tanto vorrebbero dire. E ogni parola pare loro troppo meschina… Si stringono al Maestro, tutti lo vogliono accarezzare per fargli sentire che lo amano.
   Infine è il mite Andrea che dice: «Sì, Signore. Con pazienza e silenzio e sacrificio, le armi che convertono, noi ti daremo anime. Anche quella… se Dio ci aiuterà…».
   «Sì, Signore. E Tu aiutaci col tuo orare».
   «Sì, amici. E intanto preghiamo insieme per il compagno che se ne è andato. “Padre nostro che sei nei Cieli…”».
   La voce perfetta di Gesù dice le parole del Pater scandendole lentamente. Gli altri gli fanno coro sommesso. E pregando si dilungano nella notte.

[134] visione ormai lontana, di cinque mesi prima, in 334.7.
[135] scena, che è in 112.2.