MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VI CAPITOLO 425



CDXXV. A Cesarea Marittima. Romani gaudenti e una parabola sull'uso del tempo e della libertà.

   30 aprile 1946.

   425.1Cesarea ha dei vasti mercati e vi affluiscono derrate fini per le raffinate mense romane; e presso le piazze dei mercati dove, in un caleidoscopio di visi, di colori, di generi, sono le cibarie più umili, si trovano degli empori per le cibarie più ricche, importate da ogni parte, sia dalle diverse colonie romane come dalla lontana Italia, a far meno penosa la lontananza dalla Patria. E gli empori dei vini o delle preziosità culinarie portate d’altrove sono sotto fondi portici, perché i romani non amano essere bruciati dal sole né bagnati dalle piogge mentre procurano alle loro gole raffinate i cibi che consumeranno nei festini. Va bene essere epicurei nel gusto del palato, ma ciò non deve mancare al rispetto per le altre membra… e perciò ombrie di portici freschi, protezioni di archi dalle piogge, conducono dal quartiere romano, quasi tutto riunito intorno al palazzo del Proconsole, stretto fra la via litoranea e la piazza delle caserme e delle gabelle, agli empori dei romani presso i mercati dei giudei.
   Molta gente è sotto questi portici, comodi se non belli in questa loro estrema parte che dà sui mercati. Gente di ogni qualità. Schiavi e liberti, e anche qualche raro gaudente signore circondato da schiavi, il quale, lasciata la sua lettiga nella via, va indolente da un negozio all’altro, facendo acquisti che gli schiavi portano verso casa. I soliti discorsi oziosi quando due signori romani si incontrano: il tempo, la noia del paese che non offre le gioie dell’Italia lontana, rimpianti di spettacoli grandiosi, programmi di festini e discorsi licenziosi.

   425.2Un romano, preceduto da una decina di schiavi carichi di sacche e fagotti, si scontra con due altri suoi pari. Saluti reciproci.
   «Salve, o Ennio!».
   «Salute, o Floro Tullio Cornelio! Salute, o Marco Eracleo Flavio!».
   «Quando tornasti?».
   «Affaticato, all’alba del dì avanti ieri».
   «Tu affaticato? Quando mai sudi?», motteggia il giovane chiamato Floro.
   «Non deridere, Floro Tullio Cornelio. Anche ora sto sudando per gli amici!».
   «Per gli amici? Non ti abbiamo chiesto fatiche», obbietta l’altro, più anziano, chiamato Marco Eracleo Flavio.
   «Ma il mio amore a voi pensa. O crudeli che mi schernite, vedete questa teoria di schiavi carichi di pesi? Altri li hanno preceduti con altri pesi. E tutto per voi. Ad onorarvi».
   «Questo allora è il tuo lavoro? Un banchetto?», «E perché?», gridano rumorosamente i due amici.
   «Ssst! Un simile baccano fra nobili patrizi! Sembrate la plebe di questo paese dove ci logoriamo in…».
   «Orgie e ozio. Ché altro non facciamo noi. Ancor mi chiedo: perché qui siamo? Quali compiti abbiamo?».
   «Morire di noia è uno».
   «Insegnare a vivere a queste prèfiche lamentose è un altro».
   «E… seminare Roma nei sacri bacini delle donne ebree è un altro ancora».
   «E godere, qui come altrove, il nostro censo e la nostra potenza, alla quale tutto è concesso, è un altro».
   I tre si alternano come per una litania e ridono.

   425.3­Però il giovane Floro si arresta e si fa cupo dicendo: «Ma da qualche tempo una caligine incombe sull’allegra corte di Pilato. Le più belle dame sembrano caste vestali ed i mariti le secondano nel capriccio. Ciò leva molto alle usate feste…».
   «Già! Il capriccio per quel rozzo Galileo… Ma passerà presto…».
   «Ti sbagli, o Ennio. So che anche Claudia ne è conquisa, e perciò una… strana morigeratezza di costumi si è insediata nel suo palazzo. Sembra che là riviva l’austera Roma repubblicana…».
   «Uhh!! Che muffa! Ma da quando?».
   «Dal dolce aprile propizio agli amori. Tu non sai… Eri assente. Ma le nostre dame sono tornate funeree come le piangenti delle urne cinerarie, e noi poveri uomini dobbiamo cercare altrove molti sollazzi. Neppure concessi ci sono, in presenza delle pudiche!».
   «Una ragione di più perché io vi soccorra. Questa sera grande cena… e più grande orgia, nella mia casa. A Cintium, dove fui, ho trovato delizie che questi fetenti considerano immonde: pavoni, pernici, e gralle d’ogni specie, e cinghialetti sottratti vivi alla madre uccisa ed allevati per le nostre cene. E vini… Ah! dolci, preziosi vini dei colli romani, delle mie calde coste literniche e delle tue assolate spiagge presso l’Aciri!… E profumati vini di Chio e dell’isola dove Cintium è gemma. E inebbrianti vini di Iberia, propizi ad accendere il senso per il godimento finale. Oh! deve esser gran festa! Per fugare la noia di questo esilio. Per persuaderci che siamo ancora virili…».
   «Anche donne?».
   «Anche… E belle più di rose. D’ogni colore e… sapore. Un tesoro mi è costato l’acquisto di tutte le merci, fra cui le femmine… Ma io sono generoso agli amici!… Ora qui terminavo gli ultimi acquisti. Quelli che nel viaggio potevano guastarsi. Dopo il convito, a noi l’amore!…».
   «Avesti buona navigazione?».
   «Ottima. Venere marina mi fu amica. Del resto a lei dedico il rito di questa notte…».
   I tre ridono grassamente, pregustando le prossime indegne gioie…

   425.4Ma Floro domanda: «Perché questa straordinaria festa? Un motivo per essa?…».
   «Tre motivi: il mio diletto nipote riveste in questi giorni la toga virile. Devo solennizzare l’evento. Un’ubbidienza al presagio che mi diceva che Cesarea si mutava in affliggente dimora, e occorreva sfatare la sorte con un rito a Venere. Il terzo… piano piano ve lo dico: sono di nozze…».
   «Tu? Bugiardo!».
   «Son di nozze. È “nozze” ogni qualvolta uno deliba il primo sorso ad un’anfora chiusa. Io questa sera lo farò. Ventimila sesterzi o, se più vi piace, duecento aurei — ché in realtà così ho finito a sborsare fra sensali e… simili — l’ho pagata. Ma neppur se Venere l’avesse partorita in un’aurora d’aprile, e fatta di spume e di raggi d’oro, più bella e pura l’avrei trovata! Un boccio, un boccio serrato… Ah! E io ne sono il padrone!».
   «Profanatore!», dice celiando Marco Eracleo.
   «Non fare il censore, che mi equivali!… Partito Valeriano, qui si languiva di noia. Ma io gli subentro… I tesori degli antenati ci sono per questo. Né sarò come lui stolto da attendere che la più bionda del miele Galla Ciprina — l’ho chiamata così — sia corrotta dalle mestizie e dalle filosofie degli evirati che non sanno godere la vita…».
   «Bravo!!! Ma però… la schiava di Valeriano era dotta e…».
   «…e folle col suo leggere i filosofi… Macché anima! Macché seconda vita! Macché virtù!… Vivere è godere! E qui si vive. Ieri ho dato al rogo ogni rotolo funesto e, pena la morte, ho comandato agli schiavi di non ricordare miserie di filosofi e di galilei. E la fanciulla conoscerà me soltanto…».
   «Ma dove l’hai trovata?».
   «Eh! ci fu chi fu sagace e acquistò schiavi dopo le guerre galliche e non li usò che come riproduttori, tenendoli bene, solo soggetti a procreare per dare fiori novelli di bellezza… E Galla è un di questi. Ora è pubere, e il padrone l’ha venduta… e io l’ho comperata… ah! ah! ah!».
   «Libidinoso!».
   «Se non ero io, era un altro… Perciò… Non doveva nascere femmina…».
   «Se ti udisse…

   425.5­Oh! eccolo!».
   «Chi?».
   «Il Nazareno che ha stregato le nostre dame. È alle tue spalle…».
   Ennio si volta come avesse alle spalle un aspide. Guarda Gesù che avanza lentamente fra la gente che gli si accalca intorno, povera gente del popolo e anche schiavi di romani, e ghigna: «Quello straccione?! Le donne sono delle depravate. Ma fuggiamo, che non streghi noi pure! Voi», dice finalmente ai poveri suoi schiavi, rimasti tutto il tempo sotto i loro carichi, simili a cariatidi per le quali non c’è pietà, «voi andate a casa e lesti, ché avete perso tempo fino ad ora e i preparatori attendono le spezie, i profumi. Di corsa! E ricordate che c’è la sferza se tutto non è pronto al tramonto».
   Gli schiavi vanno via di corsa, e più lentamente li segue il romano coi due amici…

   425.6Gesù si avanza. Mesto, perché ha sentito la finale della conversazione di Ennio, e dall’alto della sua statura guarda con infinita compassione gli schiavi correnti sotto il loro peso. Si volge intorno, cerca altri volti di schiavi di romani… Ne vede alcuni, trepidanti fra la paura di esser sorpresi dagli intendenti o scacciati dagli ebrei, mescolati fra la turba che lo stringe, e dice fermandosi: «Non vi è alcuno di quella casa fra voi?».
   «No, Signore. Ma li conosciamo», rispondono gli schiavi presenti.
   «Matteo, da’ loro abbondante obolo. Lo spartiranno coi compagni perché sappiano che c’è chi li ama. E voi sappiate, e ditelo agli altri, che con la vita cessa soltanto il dolore per quelli che furono buoni e onesti nelle loro catene, e col dolore la differenza fra ricchi e poveri, fra liberi e schiavi. Dopo c’è un unico e giusto Iddio per tutti, il Quale, senza tener conto di censo o di catene, darà premio ai buoni e castigo ai non buoni. Ricordatevelo».
   «Sì, o Signore. Ma noi delle case di Claudia e Plautina siamo abbastanza felici, come quelli di Livia e Valeria, e ti benediciamo perché Tu ci hai migliorato la sorte», dice un vecchio che da tutti è ascoltato come un capo.
   «Per mostrarmi che mi avete gratitudine, siate sempre più buoni, e avrete il vero Dio a vostro eterno Amico».
   E Gesù alza la mano come per licenziare e benedire, e poi si addossa ad una colonna e inizia a parlare fra l’attento silenzio della folla. Né già gli schiavi si allontanano, ma restano, ascoltando le parole uscenti dalla bocca divina.

   425.7«Udite. Un padre di molti figli dette ad ognuno di essi, divenuti adulti, due monete di molto valore e disse loro: “Io non intendo più lavorare per ognuno di voi. Ormai siete in età di guadagnarvi la vita. Perciò do ad ognuno uguale misura di denaro, perché la impieghiate come più vi piace e a vostro utile. Io resterò qui in attesa, pronto a consigliarvi, pronto anche ad aiutarvi se per involontaria sciagura perdeste in tutto o in parte il denaro che ora vi do. Però ricordatevi bene che sarò inesorabile per chi lo disperde con malizia volontaria e per i fannulloni che lo consumano o lo lasciano quale è con l’ozio o coi vizi. A tutti ho insegnato il Bene e il Male. Non potete perciò dire che andate ignoranti incontro alla vita. A tutti ho dato esempio di operosità saggia e giusta e di vita onesta. Perciò non potete dire che vi ho corrotto lo spirito col mio mal esempio. Io ho fatto il mio dovere. Ora voi fate il vostro, ché scemi non siete, né impreparati, né analfabeti. Andate”, e li licenziò rimanendo solo, in attesa, nella sua casa.
   I figli si sparsero per il mondo. Avevano tutti le stesse cose: due monete di gran valore, di cui potevano liberamente disporre, e un più grande tesoro di salute, energia, cognizioni ed esempi paterni. Perciò avrebbero dovuto riuscire tutti ad un modo. Ma che avvenne? Che fra i figli, chi bene usò delle monete e si fece presto un grande e onesto tesoro con il lavoro indefesso e onesto e una vita morigerata, regolata sugli insegnamenti paterni; e chi sulle prime fece onestamente fortuna, ma poi la disperse con l’ozio e le crapule; e chi fece denaro con usure o commerci indegni; e chi non fece nulla perché fu inerte, pigro, incerto, e finì le monete di molto valore senza aver ancora potuto trovare un’occupazione qualsiasi.

   425.8­Dopo qualche tempo, il padre di famiglia mandò servi in ogni dove, là dove sapeva essere i suoi figli, e disse ai servi: “Direte ai miei figli di radunarsi nella mia casa. Voglio mi rendano conto di cosa hanno fatto in questo tempo, e rendermi conto da me stesso delle loro condizioni”. E i servi andarono per ogni dove e raggiunsero i figli del loro padrone, fecero l’ambasciata, e ognuno tornò indietro col figlio del padrone che aveva raggiunto.
   Il padre di famiglia li accolse con molta solennità. Da padre, ma anche da giudice. E tutti i parenti della famiglia erano presenti, e coi parenti gli amici, i conoscenti, i servi, i compaesani e quelli dei luoghi limitrofi. Una solenne adunanza. Il padre era sul suo scanno di capo famiglia, intorno a semicerchio tutti i parenti, amici, conoscenti, servi, compaesani e limitrofi. Di fronte, schierati, i figli.
   Anche senza interrogazioni, il loro aspetto diverso dava risposta sulla verità. Coloro che erano stati operosi, onesti, morigerati e avevano fatto santa fortuna, avevano l’aspetto florido, pacifico e benestante di chi ha larghi mezzi, buona salute e serenità di coscienza. Guardavano il padre con un sorriso buono, riconoscente, umile ma insieme trionfante, splendente della gioia di avere onorato il padre e la famiglia e di essere stati buoni figli, buoni cittadini e buoni fedeli. Quelli che avevano sciupato nell’ignavia o nel vizio i loro averi stavano mortificati, mogi, sparuti nell’aspetto e nelle vesti, coi segni delle crapule o della fame chiaramente impressi su tutti loro. Quelli che avevano fatto fortuna con delittuose manovre avevano l’aggressività, la durezza sul volto, lo sguardo crudele e turbato di belve che temono il domatore e che si preparano a reagire…
   Il padre iniziò l’interrogatorio da questi ultimi: “Come mai, voi che eravate di così sereno aspetto quando partiste, ora parete fiere pronte a sbranare? Da dove vi viene quell’aspetto?”.
   “La vita ce lo ha dato. E la tua durezza di mandarci fuori di casa. Tu ci hai messo a contatto col mondo”.
   “Sta bene. E che avete fatto nel mondo?”.
   “Ciò che potemmo per ubbidire al tuo comando di guadagnarci la vita col niente che ci hai dato”.
   “Sta bene. Mettetevi in quell’angolo… E ora a voi, magri, malati e malvestiti. Che faceste per ridurvi così? Eravate pure sani e ben vestiti quando partiste”.
   “In dieci anni gli abiti si logorano…”, obbiettarono i fannulloni.
   “Non ci sono dunque più telai nel mondo che facciano stoffe per le vesti degli uomini?”.
   “Sì… Ma ci vogliono denari per comperarle…”.
   “Li avevate”.
   “In dieci anni… si sono più che finiti. Tutto ciò che ha principio ha fine”.
   “Sì, se se ne leva senza mettervene. Ma perché voi avete soltanto levato? Se aveste lavorato, potevate mettere e levare senza che il denaro finisse, ma anzi ottenendo che aumentasse. Siete stati forse malati?”.
   “No, padre”.
   “E allora?”.
   “Ci sentimmo spersi… Non sapevamo che cosa fare, che fosse buono… Temevamo di far male. E per non fare male non facemmo nulla”.
   “E non c’era il padre vostro a cui rivolgervi per consiglio? Sono forse stato mai padre intransigente, pauroso?”.
   “Oh, no! Ma ci vergognavamo di dirti: ‘ Non siamo capaci di prendere iniziative ’. Tu sei sempre stato così attivo… Ci siamo nascosti per vergogna”.
   “Sta bene. Andate nel mezzo della stanza. A voi! E che mi dite voi? Voi che all’aspetto della fame unite quello della malattia? Forse che il troppo lavoro vi ha resi malati? Siate sinceri e non vi sgriderò…”.
   Alcuni degli interpellati si gettarono in ginocchio battendosi il petto e dicendo: “Perdonaci, o padre! Già Dio ci ha castigati e ce lo meritiamo. Ma tu, che sei padre nostro, perdonaci!… Abbiamo iniziato bene; ma non abbiamo perseverato. Trovandoci facilmente ricchi, dicemmo: ‘ Orbene, ora godiamo un po’, come ci suggeriscono gli amici, e poi torneremo al lavoro e rifaremo il disperso ’. E volevamo fare così, in verità. Tornare alle due monete e poi rifarle fruttare, come per giuoco. E per due volte (dicono due) per tre (dice uno) ci riuscimmo. Ma poi la fortuna ci abbandonò… e consumammo tutto il denaro”.
   “Ma perché non vi siete ripresi dopo la prima volta?”.
   “Perché il pane speziato del vizio corrompe il palato, e non si può più farne senza…”.
   “C’era vostro padre…”.
   “È vero. E a te sospiravamo con rimpianto e nostalgia. Ma noi ti abbiamo offeso… Supplicavamo il Cielo di ispirarti di chiamarci per ricevere il tuo rimprovero e il tuo perdono; questo chiedevamo e chiediamo, più delle ricchezze che non vogliamo più, perché ci hanno traviati”.
   “Sta bene. Mettetevi voi pure presso quelli di prima, al centro della stanza. E voi, malati e poveri come questi, ma che tacete e non mostrate dolore, che dite?”.
   “Ciò che dissero i primi. Che ti odiamo perché col tuo imprudente agire ci hai rovinati. Tu che ci conoscevi non dovevi lanciarci nelle tentazioni. Ci hai odiato e ti odiamo. Ci hai fatto questo tranello per liberarti di noi. Sii maledetto”.
   “Sta bene. Andate coi primi in quell’angolo. Ed ora a voi, floridi, sereni, ricchi figli miei. Dite. Come siete giunti a questo?”.
   “Mettendo in pratica i tuoi insegnamenti, esempi, consigli, ordini, tutto. Resistendo ai tentatori per amore di te, padre benedetto che ci hai dato la vita e la sapienza”.
   “Sta bene. Venite alla mia destra e udite tutti il mio giudizio e la mia difesa. Io ho dato a tutti ad un modo di denaro e di esempio e sapienza. I miei figli hanno risposto in maniere diverse. Da un padre lavoratore, onesto, morigerato, sono usciti dei simili a lui, poi degli oziosi, dei deboli facili a cadere in tentazione e dei crudeli che odiano il padre, i fratelli e il prossimo su cui, anche se non lo dicono lo so, hanno esercitato usura e delitto. E nei deboli e negli oziosi ci sono i pentiti e gli impenitenti. Ora io giudico. I perfetti già sono alla mia destra, pari a me nella gloria come nelle opere; i pentiti staranno di nuovo, come fanciulli ancora da istruirsi, soggetti fino a che non avranno raggiunto il grado di capacità che li faccia di nuovo adulti; gli impenitenti e colpevoli siano gettati fuori dei miei confini e perseguitati dalla maledizione di chi non è più loro padre, perché il loro odio per me annulla i rapporti della paternità e della figliolanza fra noi. Però ricordo a tutti che ognuno si è fatto la sua sorte, perché io ho dato a tutti le stesse cose che, nei riceventi, hanno prodotto quattro diverse sorti, e non posso essere accusato di aver voluto il loro male”.

   425.9La parabola è finita, o voi che avete ascoltato. Ed ora vi do i paragoni di essa.
   Il Padre dei Cieli è adombrato dal padre di numerosa famiglia. Le due monete date dal padre a tutti i figli prima di mandarli nel mondo sono il tempo e la libera volontà che Dio dà ad ogni uomo, perché li usi come meglio crede, dopo essere stato ammaestrato ed edificato con la Legge e gli esempi dei giusti. A tutti, uguali doni. Ma ogni uomo li usa come la sua volontà vuole. Chi tesorizza il tempo, i mezzi, l’educazione, il censo, tutto, nel bene e si mantiene sano e santo, ricco di moltiplicata ricchezza. Chi comincia bene e poi si stanca e disperde. Chi non fa nulla pretendendo che gli altri facciano. Chi accusa il Padre dei suoi errori; chi si pente, disposto a riparare; chi non si pente e accusa e maledice come se la sua rovina fosse stata forzata da altri. E Dio ai giusti dà subito premio; ai pentiti misericordia e tempo di espiare per giungere al premio per il loro pentimento ed espiazione; e dà maledizione e castigo a chi calpesta l’amore con l’impenitenza conseguente al peccato. A ognuno dà il suo.
   Non disperdete dunque le due monete — il tempo e il libero arbitrio — ma usateli con giustizia per essere alla destra del Padre e, se avete mancato, pentitevi e abbiate fede nel misericordioso Amore. Andate. La pace sia con voi!».
   Li benedice e li guarda allontanarsi sotto il sole che innonda piazza e vie.

   425.10­Ma gli schiavi sono ancora là…
   «Ancor qui, poveri amici? E non sarete puniti?».
   «No, Signore, se diremo che abbiamo udito Te. Le nostre padrone ti venerano. Dove andrai ora, Signore? Ti desiderano da tanto…».
   «Presso il cordaio del porto. Ma parto questa sera, e le vostre padrone saranno alla festa…».
   «Lo diremo ugualmente. Ce lo hanno ordinato di segnalare ogni tuo passaggio, da mesi e mesi».
   «Va bene. Andate. E voi pure fate buon uso del tempo e del pensiero, che è sempre libero anche se l’uomo è in catene».
   Gli schiavi si curvano fino a terra e se ne vanno verso i quartieri romani. Gesù e i suoi, per una vietta modesta, verso il porto.