MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VII CAPITOLO 434



CDXXXIV. Lavori manuali a Nazareth e parabola del legno verniciato.

   10 maggio 1946.

   434.1Il rustico focolare del laboratorio è acceso, dopo tanto tempo di inoperosità, e l’odore della colla che bolle in un recipiente si mescola a quello caratteristico della segatura e dei trucioli appena fatti, anzi, che si stanno facendo ai piedi di un bancone.
   Gesù lavora di lena intorno a tavole di legno, che con l’aiuto della sega e della pialla si mutano in gambe di seggiole, in cassetti e così via. Dei mobili, i mobili modesti della casetta di Nazaret, sono stati portati nel laboratorio. La madia da riparare, uno dei telai di Maria, due sgabelli, una scala da orto, una piccola cassapanca e la porta del forno, credo, corrosa in basso forse dai topi. Gesù lavora a riaggiustare ciò che l’uso e la vecchiaia hanno consumato.
   Tommaso, invece, con tutto un armamentario di piccoli strumenti d’orafo, che certo ha tratto fuori dalla sua sacca che giace sul suo lettuccio messo, come quello dello Zelote, contro la parete, lavora con leggerezza di mano intorno a delle lamine d’argento. E il picchio del suo martelletto sul bulino, che dà suono d’argento, si fonde al robusto rumore degli strumenti da lavoro usati da Gesù.
   Ogni tanto si scambiano qualche parola, e Tommaso è così felice di essere lì col Maestro e al suo lavoro d’orafo — e lo dice infatti — che nelle pause del dialogo fischietta fra i denti, piano piano. Ogni tanto alza gli occhi e pensa, fissando assorto la parete affumicata dello stanzone.
   Gesù lo nota e dice: «Trai l’ispirazione da quella parete nera, Toma? Vero è che così l’ha fatta il lungo lavoro di un giusto, ma non mi pare che possa dare motivi ad un orafo…».
   «No, Maestro, un orafo infatti non può rifare col metallo ricco la poesia della santa povertà… Però può col suo metallo fare cose belle della natura, e nobilitare così oro e argento rifacendo con essi i fiori, le foglie che sono nel creato. Io penso a quei fiori, a quelle foglie e, per ricordarne esattamente l’aspetto, mi fisso così, con gli occhi alla parete, ma in realtà vedo i boschi e i prati della nostra patria, le foglie leggere, i fiori che sembrano calici o stelle, il portamento degli steli e delle fronde…».
   «Sei un poeta, allora, un poeta che canta nel metallo ciò che un altro canta sulla pergamena coll’inchiostro».
   «Sì. Infatti l’orafo è un poeta che scrive sul metallo le bellezze della natura. Ma la nostra opera, d’arte e bella, non vale la tua, umile e santa, perché la nostra serve alle vanità dei ricchi, mentre la tua alla santità della casa e all’utilità del pove­ro».
   «Dici bene, Tommaso», dice lo Zelote che è apparso sulla soglia che dà sull’orto, con la veste succinta, le maniche rimboccate, un vecchio grembiule davanti e un recipiente con della vernice nella mano.
   Gesù e Tommaso si voltano a guardarlo sorridendo. E Tommaso risponde: «Sì, dico bene. Però io voglio che una volta tanto il lavoro dell’orafo serva ad ornare una… cosa buona, san­ta…».
   «Che?».
   «Un mio segreto. È tanto che ho questo pensiero, e da quando fummo a Rama mi porto dietro un piccolo bagaglio d’orafo attendendo questo momento…

   434.2­E il tuo lavoro, Simone?».
   «Oh! io non sono un artefice perfetto come tu sei, Toma. È la prima volta che tengo il pennello in mano, e le mie tinture sono ineguali nonostante ci metta tutta la mia buona volontà. Per questo ho incominciato dalle parti più… umili… per farci la mano… e ti assicuro che la mia imperizia fece ridere di gusto la fanciulla. Ma ne sono contento! Rinasce ad una serena vita ad ogni ora, ed è ciò che ci vuole per annullare il passato e farla tutta nuova, per Te, Maestro».
   «Eh! ma forse Valeria non cederà…», dice Tommaso.
   «Oh! cosa vuoi che le importi di averla o no? Se la teneva, era tanto per non lasciarla sperduta nel mondo. E certo sarebbe bene che la fanciulla fosse salva per sempre e in tutto, nello spirito soprattutto. Non è vero, Maestro?».
   «È vero. Occorre molto pregare per questo. La creatura è semplice e buona realmente, e allevata nella Verità potrebbe dare molto. Tende istintivamente alla Luce».
   «Sfido io! Non ha conforti sulla Terra… e li cerca in Cielo, poverina! Io credo che quando la tua Buona Novella potrà essere evangelizzata per il mondo, i primi ad accoglierla e i più numerosi saranno proprio gli schiavi, coloro che non hanno alcun conforto umano e che si rifugeranno nelle tue promesse per averne… E dico che, se a me toccherà proprio l’onore di predicarti, avrò uno speciale amore per questi infelici…».
   «E farai bene, Toma», dice Gesù.
   «Sì. Ma come li avvicinerai?».
   «Oh! Sarò orafo per le dame e… maestro per gli schiavi delle stesse. Un orafo entra nelle case, o alla sua casa vengono i servi dei ricchi… e lavorerò… Due metalli: quelli della Terra per i ricchi… quelli degli spiriti per gli schiavi».
   «Dio ti benedica per questi propositi, Toma. Persevera in essi…».
   «Sì, Maestro».

   434.3­­«Ebbene, ora che hai risposto a Toma vieni con me, Maestro… a vedere il mio lavoro e a dirmi che devo tingere ora. Cose umili ancora, perché sono un garzone molto incapace».
   «Andiamo, Simone…», e Gesù posa i suoi arnesi ed esce collo Zelote…
   Tornano dopo qualche tempo e Gesù indica la scala da orto: «Passa la tinta a quella. La vernice rende impenetrabile il legno e lo conserva di più, oltre che farlo più bello. È come la difesa e l’abbellimento delle virtù sul cuore umano. Può essere grezzo, rozzo… Ma, come le virtù lo vestono, si fa bello, piacevole. Vedi, per ottenere una tinta bella e un servizio reale dalla stessa, occorrono tante avvertenze. Per prima: prendere con attenzione ciò che occorre a formarla. Ossia un recipiente netto da terriccio o da residui di vecchie tinte, oli buoni e buone tinte, e con pazienza mescolare, lavorare, farne un liquido né troppo denso né troppo liquido. Non stancarsi di lavorare finché anche il più piccolo grumo non sia sciolto. Fatto questo, prendere un pennello che non perda le setole, non le abbia né eccessivamente dure, né eccessivamente morbide, che sia ben pulito da ogni precedente colore, e prima di applicare la vernice nettare il legno da ruvidezze, da vecchie vernici scrostate, da fango, da tutto, e poi, così, con ordine, mano sicura nell’andare sempre in una direzione, stendere con pazienza, molta pazienza, la tinta. Perché nella stessa tavola ci sono resistenze diverse. Sui nodi, per esempio, la tinta resta più liscia, è vero, però su essi la tinta si ferma male, come la materia legnosa la respingesse. Viceversa, sulle parti morbide del legno la tinta si ferma subito, ma le parti morbide generalmente sono poco lisce, e allora possono formarsi vesciche, o rigature… Ecco allora che si deve riparare con mano costante nello stendere il colore. Poi ci sono, nei mobili vecchi, le parti nuove, come questo scalino ad esempio. E per non far capire che la povera scaletta è rabberciata, ma vecchia molto, bisogna far sì che tanto lo scalino nuovo come quelli antichi risultino uguali… Ecco, così!».
   Gesù, curvo ai piedi della scala, parla e lavora intanto…

   434.4­­Tommaso, che ha lasciato i suoi bulini per venire vicino a vedere, chiede: «Perché hai iniziato dal basso invece che dalla cima? Non era meglio fare l’opposto?».
   «Sembrerebbe meglio, ma non è. Perché il basso è il più sciupato e il destinato di più a sciuparsi, stando appoggiato sulla terra. Perciò deve essere lavorato più volte. Una prima mano, poi una seconda e una terza se occorre… e, per non oziare attendendo che il basso asciughi per esser pronto ad una nuova mano, tingere intanto il sommo, poi il centro della sca­la».
   «Ma nel farlo ci si può macchiare le vesti e sciupare le parti tinte prima».
   «Con accortezza non ci si macchia e non si sciupa niente. Vedi? Si fa così. Si raccolgono le vesti e si sta scosti. Non per schifo della tinta, ma per non ledere la tinta delicata perché da poco messa».
   E Gesù, a braccia alte, tinge ora la vetta della scala. E continua a parlare.
   «Così si fa con le anime. Ho detto all’inizio che la tinta è come l’abbellimento delle virtù sui cuori umani. Abbellimento e preservazione del legno dai tarli, dalle piogge, dal solleone. Guai a quel padrone di casa che non si cura delle cose verniciate e le lascia deperire! Quando si vede che il legno si spoglia della sua vernice, occorre non perdere tempo e metterne di nuova. Rinfrescare le tinte… Anche le virtù, messe in un primo slancio verso la giustizia, possono deperire o scomparire del tutto se il padrone di casa non veglia, e la carne e lo spirito, messi a nudo in balìa delle intemperie e dei parassiti, ossia delle passioni e delle dissipazioni, possono esserne assaliti, perdere la veste che li fa belli, finire ad essere… buoni solo per il fuoco. Perciò, sia in noi o in chi amiamo come nostri discepoli, quando si notano sgretolature, dilavature nelle virtù messe a difesa nel nostro io, occorre subito provvedere con un lavoro assiduo, paziente, fino alla fine della vita, perché si possa addormentarsi nella morte con una carne e uno spirito degni della risurrezione gloriosa. E perché le virtù siano vere, buone, iniziarle con intenzione pura, coraggiosa, che leva ogni detrito, ogni terriccio, e lavorare per non lasciare imperfezioni nella formazione virtuosa, e poi prendere un atteggiamento né troppo duro né troppo indulgente, perché tanto l’intransigenza come l’eccessiva indulgenza nuocciono. E il pennello — la volontà — sia netto dalle umanità preesistenti, che potrebbero venare la tinta spirituale con sfregi materiali, e preparare se stessi o altri, con opportune operazioni, faticose, è vero, ma necessarie, a mondare il vecchio io da ogni lebbra antica, per averlo mondo a ricevere la virtù. Perché non si può mescolare il vecchio col nuovo.
   Poi iniziare il lavoro, con ordine, con riflessione. Non saltare qua e là senza un serio motivo. Non andare un poco in un senso e un po’ nell’altro. Ci si stancherebbe meno, è vero. Ma la vernice verrebbe irregolare. Come avviene nelle anime disordinate. Presentano punti perfetti, poi accanto a questi ecco storture, colore diverso… Insistere sui punti resistenti alla tinta, sui nodi, viluppi della materia o di passioni sregolate, mortificati, sì, dalla volontà che simile a pialla li ha faticosamente lisciati, ma che restano come un nodo amputato ma non distrutto a far resistenza. E ingannano talvolta, parendo già ben rivestiti da virtù, mentre non è che un velo leggero che subito cade. Attenti ai nodi delle concupiscenze. Fate che la virtù sia ripetutamente messa su essi, perché non rifioriscano deturpando l’io nuovo. E sulle parti molli, sulle cedevolezze troppo facili a ricevere tinta, ma a riceverla a loro piacimento, con vesciche e rigature, insistere colla pelle di pesce a lisciare, lisciare, lisciare per dare una o più mani di vernice, affinché anche esse parti siano lisce come uno smalto compatto. E attenti a non sovraccaricare. Un eccesso di pretese nelle virtù fa sì che la creatura si ribelli, e ribolla e sgalli al primo urto. No. Né troppo, né troppo poco. Giustizia nel lavorarsi e nel lavorare le creature fatte di carne ed anima.

   434.5E se, come nella più parte dei casi — ché delle Auree sono eccezioni e non regole — ci sono parti nuove mescolate alle antiche — e le hanno gli israeliti, che da Mosè passano al Cristo, e i pagani col loro mosaico di credenze, che non potranno essere annullate di un subito e affioreranno con nostalgie e ricordi, almeno nelle cose più pure — allora ci vuole ancor più occhio e tatto, e insistere finché il vecchio sia reso omogeneo al nuovo, usando delle cose preesistenti per completare le nuove virtù. Ad esempio, nei romani è molto spirito di Patria e coraggio virile. Sono quasi dei miti queste due cose. Ebbene, non vogliate distruggerle, ma inculcate uno spirito nuovo allo spirito patrio, ossia lo spirito di fare grande anche spiritualmente Roma come centro di cristianità, e usate la virilità romana a far forti nella fede chi è forte in battaglia. Altro esempio: Aurea. Lo schifo di una rivelazione brutale la spinge ad amare ciò che è puro e a odiare ciò che è impuro. Ebbene, usate queste due cose a portarla a perfetta purezza, odiando la corruzione come fosse il romano brutale. Mi comprendete?
   E delle consuetudini fatene mezzi di penetrazione. Non distruggete brutalmente. Non avreste pronto subito con che edificare. Ma sostituite piano piano ciò che non deve rimanere in un convertito, con carità, pazienza, tenacia. E posto che la materia, specie nei pagani, ha il sopravvento, ed essi, anche se convertiti, staranno sempre appoggiati al mondo pagano, essendo viventi in esso, insistete molto sulla preservazione dalla carnalità. Dietro al senso penetra anche il resto. Voi sorvegliate il senso esasperato nei pagani – e, confessiamolo, vivissimo anche fra noi – e quando vedete che il contatto col mondo sgretola la vernice preservativa non continuate a pennellare la cima, ma tornate al basso, mantenendo in equilibrio lo spirito e la carne, l’alto e il basso. Ma iniziate sempre dalla carne, dal vizio materiale, per preparare a ricevere l’Ospite, che non coabita in corpi impuri con spiriti che fetono delle corruzioni carnali… Mi intendete?
   E non temete di corrompervi toccando con la vostra veste le parti basse, materiali, di coloro che curate nello spirito. Con prudenza, per non essere di rovina anziché di edificazione. Vivete raccolti nel vostro io nutrito di Dio, fasciato di virtù, andate con delicatezza, specie quando dovete occuparvi del sensibilissimo io spirituale altrui, e certamente riuscirete a fare, anche degli esseri più spregevoli, degli esseri degni del Cielo».

   434.6«Che bella parabola ci hai detto! La voglio scrivere per Marziam!», dice lo Zelote.
   «E per me che sono tutta da fare bella per il Signore», dice lentamente, cercando le parole, Aurea che a piedi scalzi è da qualche tempo ritta sulla soglia dell’orto.
   «Oh! Aurea! Ci ascoltavi?», chiede Gesù.
   «Ti ascoltavo. È tanto bello! Ho fatto male?».
   «No, fanciulla. È tanto che sei qui?».
   «No. E mi spiace, perché non so cosa hai detto avanti. Mi ha mandato tua Madre a dirti che fra poco è l’ora del cibo. Il pane sta per essere sfornato. Ho imparato a farlo io… Che bello! E ho imparato a imbiancare la tela, e sul pane e sulla tela tua Madre mi ha fatto altre due parabole».
   «Ah! sì? Che ha detto?».
   «Che io sono come una farina ancor col buratto, ma la tua bontà mi depura, la tua grazia mi lavora e il tuo apostolato mi forma, il tuo amore mi cuoce e da brutta farina mescolata a tanta crusca finirò, se mi lascerò lavorare da Te, ad essere farina da ostie, farina e pane di sacrificio, buono per l’altare. E sulla tela che era scura, oleosa, ruvida, e che dopo tanta erba borit[5] e mortificazione di colpi si è pulita e fatta morbida, ora il sole metterà i suoi raggi, e bianca diventerà… E ha detto che così il Sole di Dio farà di me, se io starò sempre sotto al Sole e accetterò lavaggi e anche mortificazioni per diventare degna del Re dei re, di Te, mio Signore.

   434.7Che belle cose che imparo…
   Mi pare un sogno… Bello! Bello! Bello! Tutto bello qui… Non mandarmi via, Signore!».
   «Non andresti volentieri con Mirta e Noemi?».
   «Preferirei qui… Ma però… anche con loro. Ma con romani no, no, Signore…».
   «Prega, fanciulla!», dice Gesù posandole la mano sui capelli biondo miele. «Hai imparato la preghiera?».
   «Oh! sì! È così bello dire: “Padre mio!” e pensare al Cielo… Ma… la volontà di Dio mi fa un po’ paura… perché non so se Dio vuole ciò che io voglio…».
   «Vuole il tuo bene Dio».
   «Sì? Tu lo dici? Allora non ho più paura. Sento che rimarrò in Israele… a conoscere sempre più questo Padre mio… E… ad essere la prima discepola di Gallia, o mio Signore!».
   «La tua fede sarà esaudita perché buona. Andiamo…».
   Ed escono tutti, andando a lavarsi alla vaschetta sotto la polla, mentre Aurea corre lesta da Maria, e si sentono le due voci femminili, spedita nella parola quella di Maria, incerta, di chi cerca le parole, l’altra, e risatine squillanti per qualche errore linguistico che Maria corregge dolcemente…
   «Impara presto e bene la fanciulla», osserva Tommaso.
   «Sì. È buona e volonterosa».
   «E poi! Tua Madre a maestra!… Neppur Satana le resisterebbe!…», dice lo Zelote.
   Gesù sospira senza parlare…
   «Perché sospiri così, Maestro? Non ho detto bene?».
   «Molto bene. Ma ci sono uomini più resistenti di Satana, che almeno fugge dal cospetto di Maria. Vi sono uomini che le stanno vicino e che, ammaestrati da Lei, non si mutano in bene…».
   «Ma non noi, eh?», dice Tommaso.
   «Non voi… Andiamo…».
   Entrano in casa e tutto ha fine.

[5] erba borit, erba saponaria menzionata (come “erba di borit” nella versione in uso ai tempi di MV, come “sapone” o “potassa” e simili nelle versioni più recenti) in: Geremia 2, 22. Stesso significato avrebbe il nitro, menzionato in 513.5 e in Proverbi 25, 20 secondo l’antica traduzione.