MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 519



DXIX. Inspiegabile assenza di Giuda Iscariota e sosta a Betania, da Lazzaro che non è lebbroso.

   28 ottobre 1946.

   519.1Gesù licenzia i discepoli Levi, Giuseppe, Mattia e Giovanni, trovati non so dove e ai quali affida il neo-discepolo Sidonia detto Bartolmai. Questo avviene alle prime case di Betania. E i discepoli pastori se ne vanno con il nuovo venuto e con altri sette uomini che avevano con loro. Gesù li guarda andare e poi si volta a guardare i suoi apostoli e dice: «Ed ora attendiamo qui Giuda di Simone…».
   «Ah! Ti sei accorto che se ne è andato?», dicono stupiti gli altri. «Credevamo che non te ne fossi avveduto. Era tanta la gente. E Tu hai sempre parlato, col giovane prima e coi pastori poi…».
   «Ho visto dal primo momento che egli si era allontanato. Non mi sfugge nulla. Per questo sono entrato nelle case amiche dicendo di mandare a Betania Giuda, se cercasse di Me…».
   «Dio voglia che no», brontola fra i denti l’altro Giuda.
   Gesù lo guarda, ma mostra di non rilevare la frase e continua, parlando a tutti perché li vede tutti del parere del Taddeo (i visi parlano meglio delle parole, delle volte): «Sarà buono questo riposo in attesa del suo ritorno. Darà a tutti conforto. Poi andremo verso Tecua. Il tempo è freddo, ma volge al sereno. Evangelizzerò quella città e poi risaliremo passando per Gerico e andremo sull’altra sponda. Mi hanno detto i pastori che molti malati mi cercano e ho mandato a dir loro che non affrontino il viaggio, ma che mi attendano in questi luoghi».
   «Andiamo pure», sospira Pietro.
   «Non sei contento di andare da Lazzaro?», interroga Tommaso.
   «Sono contento».
   «Lo dici in un certo modo».
   «Non lo dico per Lazzaro. Lo dico per Giuda…».
   «Sei un peccatore, Pietro», ammonisce Gesù.
   «Lo sono. Ma… lui, Giuda di Keriot, che se ne va, che è impertinente, che è un tormento, non lo è?», scatta inquieto Pietro che non ne può più.
   «Lo è. Ma se lui lo è, tu non lo devi essere. Nessuno di noi lo deve essere.

   519.2Ricordatevi che Dio ci chiederà conto — dico: ci chiederà, perché a Me prima che a voi Dio Padre ha affidato quell’uomo — di quanto avremo fatto per redimerlo».
   «E Tu speri di riuscirvi, fratello? Non lo posso credere. Tu, questo lo credo, Tu sai il passato, il presente e il futuro. E perciò non puoi ingannarti su quell’uomo. E… Ma è meglio che non dica il resto».
   «Infatti saper tacere è una grande virtù. Però sappi che il prevedere più o meno esattamente il futuro di un cuore non esonera nessuno dal perseverare sino alla fine per strappare alla rovina un cuore. Non cadere tu pure nel fatalismo dei farisei, che sostengono che ciò che è destinato si deve compiere e nulla impedisce il compiersi di ciò che è destinato, con la qual ragione avallano anche le loro colpe e avalleranno anche l’ultimo atto del loro odio per Me. Molte volte Dio attende il sacrificio di un cuore, che supera le sue nausee e i suoi sdegni, le sue antipatie, anche giustificati, per strappare uno spirito dal pantano in cui sprofonda. Sì, Io ve lo dico. Molte volte Dio, l’Onnipotente, il Tutto, attende che una creatura, un nulla, faccia o non faccia un sacrificio, una preghiera, per segnare o non segnare la condanna di uno spirito. Non è mai tardi, mai troppo tardi per tentare e sperare di salvare un’anima. E ve ne darò delle prove. Anche sulle soglie della morte, quando tanto il peccatore come il giusto che per lui si affanna sono prossimi a lasciare la Terra per andare al primo giudizio di Dio, si può sempre salvare ed essere salvati. Fra la coppa e le labbra, dice il proverbio, c’è sempre luogo alla morte. Io invece dico: fra l’estrema agonia ed il morire c’è sempre tempo a ottenere un perdono, per se stessi o per coloro che vogliamo perdonati».
   Nessuno ribatte parola.

   519.3Gesù, ormai giunto al pesante cancello, dà la voce ad un servo per farsi aprire. Ed entra. E chiede di Lazzaro.
   «Oh! Signore! Lo vedi? Torno dall’aver colto foglie di lauri e canfore e bacche di cipresso e altre foglie e frutti odorosi per farle bollire con vino e resine, e farne bagni al padrone. La sua carne cade a pezzi e non si resiste al fetore. Sei venuto, ma non so se ti faranno passare…». Per tema che anche l’aria senta, il servo spegne la voce in un sussurro: «Ora che non si può più nascondere che ha le piaghe, le padrone respingono tutti… per paura… Tu sai… Lazzaro è amato veramente da pochi… E molti, per molti motivi godrebbero di… Oh! non mi far pensare a questo che è la paura di tutta la casa».
   «Esse fanno bene. Ma non temete. Non accadrà questa sven­tura».
   «Ma… guarire potrà? Un tuo miracolo…».
   «Non guarirà. Ma questo servirà a glorificare il Signore».
   Il servo è deluso… Gesù che guarisce tutti e che qui non fa nulla!… Ma non ha che un sospiro per unica manifestazione del suo pensiero. Poi dice: «Vado dalle padrone ad annunciarti».
   Gesù viene circondato dagli apostoli interessati alle condizioni di Lazzaro, costernati quando Gesù le dice.

   519.4Ma già vengono le due sorelle. La loro fiorente e diversa bellezza sembra annebbiata dal dolore e dalla fatica delle veglie prolungate. Pallide, dimesse, smunte, stanchi gli occhi un tempo stellanti dell’una e dell’altra, senza anelli né bracciali, vestite di due vesti cenere scuro, sembrano più ancelle che signore. Si inginocchiano a distanza da Gesù, offrendogli soltanto pianto. Un pianto rassegnato, muto, che scende come da una interna sorgente e non può sostare.
   Gesù si avvicina. Marta stende le mani sussurrando: «Scostati, Signore. In verità noi temiamo di essere peccatrici, ormai, contro la legge sulla lebbra[50]. Ma non possiamo, o Dio, non possiamo provocare un simile decreto contro il nostro Lazzaro! Però Tu non ti accostare, ché noi siamo immonde non toccando che piaghe. Noi sole. Perché abbiamo separato ogni altro, e tutto ci viene deposto sulla soglia, e noi prendiamo, e laviamo, e bruciamo, nella stanza attigua a quella del fratello nostro. Vedi le nostre mani? Sono corrose dalla calce viva che usiamo per i vasi da rendere ai servi. Pensiamo con ciò di essere meno colpevoli», e piange.
   Maria di Magdala, che fin qui ha taciuto, geme a sua volta: «Dovremmo chiamare il sacerdote. Ma… Io, io sono la più colpevole, perché mi oppongo a questo e dico che non è il terribile male maledetto in Israele. Non è, non è! Ma ci odiano tanto e in tanti, che lo direbbero tale. Per molto meno Simone, il tuo apostolo, fu dichiarato lebbroso!».
   «Non sei sacerdote né medico, Maria», singhiozza Marta.
   «Non lo sono. Ma tu sai ciò che ho fatto per essere certa di ciò che dico.

   519.5Signore, sono andata, e ho percorso tutta la valle di Innon, tutto Siloan, tutti i sepolcri presso En Rogel. Vestita da ancella, velata, alle luci dell’aurora, carica di viveri, e acque medicate, e bende, e indumenti. E ho dato, ho dato. Dicevo che era un voto per colui che amavo. Era vero. Chiedevo soltanto di poter vedere le piaghe dei lebbrosi. Mi devono aver creduta pazza… Chi mai vuol vedere quegli orrori?! Ma io, deposte ai limiti dei balzi le mie offerte, chiedevo di vedere. Ed essi sopra, io più in basso; essi stupiti, io nauseata; piangendo essi, piangendo io; ho guardato, guardato, guardato! Guardato corpi coperti di scaglie, di croste, di piaghe, visi corrosi, capelli bianchi e duri più che setole, occhi che sono tane di marciume, guance che mostrano i denti, teschi su corpi vivi, mani ridotte ad artigli di mostri, piedi come rami nodosi, fetori, orrori, putredine. Oh! Se ho peccato adorando la carne, se ho goduto con gli occhi, con l’olfatto, con l’udito, col tatto, di ciò che era bello, profumato, armonioso, morbido e liscio, oh! ti assicuro che i sensi si sono purificati ormai nella mortificazione di queste conoscenze! Gli occhi hanno dimenticato la bellezza seduttrice dell’uomo contemplando quei mostri, le orecchie hanno espiato il passato godere di voci virili con quelle voci aspre, non più umane, e ha rabbrividito la mia carne, e ha avuto rivolte il mio fiuto… e ogni resto di culto a me stessa è morto, perché ho visto ciò che siamo dopo la morte… Ma ho portato con me questa certezza: che Lazzaro non è lebbroso. La sua voce non è lesa, i suoi capelli e ogni altra peluria è intatta, e diverse sono le piaghe. Non è! Non è! E Marta mi affligge perché non crede, perché non conforta Lazzaro a non credersi immondo. Vedi? Non ti vuole vedere, ora che sa che ci sei, per non contaminarti. Le stolte paure di mia sorella lo privano anche del tuo conforto!…».
   La natura veemente la trasporta alla collera. Ma, vedendo che sua sorella dà in uno scoppio di pianto desolato, la sua veemenza cade subito, e abbraccia Marta baciandola, dicendo: «Oh! Marta! Perdono! Perdono! È il dolore che mi fa ingiusta! È l’amore che ho per te e Lazzaro che vi vorrebbe persuasi! Povera sorella mia! Povere donne che siamo!».
   «Suvvia, non piangete così. Avete bisogno di pace e di compatimento reciproco, per voi e per lui. Lazzaro, d’altronde, non è lebbroso, Io ve lo dico».
   «Oh! vieni da lui, Signore. Chi meglio di Te può giudicare se egli è lebbroso?», supplica Marta.
   «Non ti ho già detto che non lo è?».
   «Sì. Ma come puoi dirlo se non lo vedi?».
   «Oh! Marta! Marta! Dio ti perdona perché soffri e sei come un che delira! Ho pietà di te e vado da Lazzaro e gli scoprirò le piaghe e…».
   «… e le guarirai!!!», grida Marta sorgendo in piedi.
   «Ti ho già detto altre volte che non posso farlo… Ma vi darò la pace di sapervi a posto con la legge sui lebbrosi.

   519.6Andia­mo…».
   E si dirige per primo verso la casa, facendo cenno agli apostoli di non seguirlo.
   Maria corre avanti, apre una porta, corre per un corridoio, ne apre un’altra che dà su un piccolo cortile interno, vi fa pochi passi ed entra in una stanza semioscura ingombra di catini, vasetti, anfore, fasce… Un odore misto di aromi e di decomposizione penetra nelle nari. Una porta è di fronte alla prima e Maria l’apre, gridando con una voce che vuol essere luminosa di gioia: «Ecco il Maestro. Viene a dirti che io ho ragione, fratello mio. Su, sorridi, ché entra l’amore nostro e la nostra pace!», e si china sul fratello, lo solleva sui guanciali, lo bacia, incurante dell’odore che nonostante ogni palliativo emana dal corpo piagato, ed è ancora curva ad aggiustarlo che già il dolce saluto di Gesù risuona nella stanza, e questa, avvolta in una luce smorta, pare farsi luminosa per la divina presenza.
   «Maestro, non hai paura… Io sono…».
   «Malato! Nulla più di così. Lazzaro, le norme sono state date, e così vaste e severe, per comprensibile senso di prudenza. Meglio esagerare in prudenza che in imprudenza, in certi casi come quelli di malattie contagiose. Ma tu non sei contagioso, povero amico mio, non sei immondo. Tanto che Io non penso di mancare alla prudenza verso i fratelli se ti abbraccio e bacio così», e lo bacia prendendo il corpo emaciato fra le braccia.
   «Sei proprio la Pace, Tu! Ma ancora non hai visto. Ecco Maria che discopre l’orrore. Sono già un morto, Signore. Non so come le sorelle possano resistere…».
   Non lo saprei neppure io, tanto sono spaventose e ripugnanti le piaghe venute lungo le varici delle gambe. Le splendide mani di Maria lavorano leggere su esse, mentre con la sua voce meravigliosa risponde: «I tuoi mali sono rose per le tue sorelle. Rose spinose sol perché tu soffri. Ecco, Maestro. Vedi? Non così è la lebbra!».
   «Non è così. È un grande male e ti consuma, ma non è di pericolo. Credi al tuo Maestro! Ricopri pure, Maria. Ho visto».
   «E… non tocchi proprio?», sospira Marta, tenace nello sperare.
   «Non occorre. Non per ribrezzo, ma per non stuzzicare le piaghe».
   Marta si china, senza più insistere, su un bacile dove è del vino o aceto aromatizzato, e immerge lini che passa alla sorella. Lacrime mute cadono nel liquido rossastro…
   Maria fascia le povere gambe e stende nuovamente le coperte sui piedi già inerti e giallastri come quelli di un morto.

   519.7«Sei solo?».
   «No. Con tutti, meno Giuda di Keriot che è rimasto a Gerusalemme, e verrà… Anzi, se sarò già lontano lo manderete a Betabara. Sarò là. E che là mi attenda».
   «Vai via presto…».
   «E presto tornerò. Fra poco è la Dedicazione. Starò da te in quei giorni».
   «Non potrò onorarti per le Encenie…».
   «Sarò a Betlem per quel giorno. Ho bisogno di rivedere la mia cuna…».
   «Sei triste… Io so… Oh! non potere nulla!».
   «Non sono triste. Sono il Redentore… Ma tu sei stanco. Non lottare contro il sonno, amico mio».
   «Era per farti onore…».
   «Dormi, dormi. Ci vedremo poi…», e Gesù si ritira senza rumore.
   «Hai visto, Maestro?», chiede Marta, fuori, nel cortile.
   «Ho visto. Mie povere discepole… Io piango con voi… Ma in verità vi confido che il mio cuore è molto più piagato del fratello vostro. È roso dal dolore il mio cuore…», e le guarda con una mestizia così viva che le due dimenticano il loro dolore per quello di Lui e, impedite dall’abbracciarlo perché donne, si limitano a baciargli le mani e la veste e a volerlo servire come sorelle affettuose.
   E lo servono in una saletta, e lo fasciano d’amore.
   Le voci forti degli apostoli si sentono al di là del cortile… Tutte, meno la voce del discepolo cattivo. E Gesù ascolta e sospira… Sospira attendendo pazientemente il fuggiasco.

[50] legge sulla lebbra, che è in: Levitico 13-14. L’opera accenna spesso ad essa (fin dall’incontro con Simone Zelote, in 54.2) e a volte ne riporta i dettami (come nella parabola di 245.5). Considerata una delle malattie più terribili per l’uomo, la lebbra poteva essere ravvisata perfino nelle vesti (Levitico 13, 47-59 ) e nei muri delle case (Levitico 14, 33-53 ). Di quest’ultima Gesù fa il soggetto di una parabola e di un monito in 369.2.5.