MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 540



DXL. Giovanni sarà “figlio” per la Madre di Gesù. Incontro con Mannaen e lezione sull’amore per gli animali. Conclusione del terzo anno.

   16 dicembre 1946.

   540.1Sono già nelle terre che risentono della vicinanza del mar Morto. Fuori di ogni carovaniera, puntando direttamente verso nord-est. Tolta l’asperità del terreno, pieno di sassi taglienti e di scaglie di sale e sparso di erbe basse e spinose, la marcia è buona e soprattutto quieta, perché non c’è anima vivente a perdita d’occhio e la temperatura è mite, asciutto il terreno.
   Parlano fra di loro. Devono avere trovato, i giorni avanti, dei pastori e aver sostato fra loro, perché ne parlano. Parlano anche di un fanciullo guarito. Dolcemente, amandosi. Anche se tacciono, si parlano coi loro cuori, guardandosi con lo sguardo di chi è felice di essere con un amico diletto. Si siedono per riposare e prendere un po’ di cibo, si rimettono in cammino, sempre con quell’aspetto di pace che dà pace al mio cuore soltanto nel vederlo.
   «Là è Galgala», dice Gesù accennando avanti, ad un gruppo di case biancheggianti al sole su un monticello verso nord-est. «Siamo ormai vicini al fiume».
   «Ed entriamo in Galgala per la notte?».
   «No, Giovanni. Ho evitato ogni città di proposito ed eviterò anche questa. Se troveremo qualche altro pastore, andremo con lui. Se vedremo presso la via, che presto raggiungeremo, carovane in procinto di fermarsi per la notte, chiederemo di accoglierci sotto le loro tende. I nomadi del deserto sono sempre ospitali. E questo è il tempo che è facile incontrarli. Se nessuno ci ospiterà, dormiremo sotto le stelle, tutti e due uniti sotto i nostri mantelli, e ci veglieranno gli angeli».
   «Oh! sì. Tutto sarà sempre meglio della notte di tristezza, dell’ultima notte che ho fatto là, a Betlemme!».
   «Ma perché non venire a Me subito?».
   «Perché mi sentivo colpevole. E poi dicevo anche: “Gesù è tanto buono che non mi sgriderà, anzi mi consolerà”, come hai fatto. E allora la penitenza che volevo fare dove sarebbe andata?».
   «L’avremmo fatta insieme, Giovanni. Io pure sono rimasto senza cibo né fuoco, nonostante le cibarie e le legna trovate al mattino».
   «Sì. Ma stare con Te non è più nulla, nulla. Io quando sono con Te non soffro più di nulla. Ti guardo. Ti ascolto. E sono beato».
   «Lo so. E so anche che in nessuno il mio pensiero si imprime come nel mio Giovanni. E so anche che tu sai capire e tacere quando è da tacere. Tu mi comprendi, sì. Perché mi ami.

   540.2Giovanni, ascoltami. Fra qualche tempo…».
   «Cosa, Signore?», chiede subito interrompendolo Giovanni, afferrandolo per un braccio, fermandolo per guardarlo in viso, con occhi di sgomento scrutatore e con volto impallidito.
   «Fra qualche tempo sono tre anni che evangelizzo. Tutto quanto era da dire alle turbe l’ho detto. Ormai chi vuole amarmi e seguirmi ha gli elementi per farlo, con sicurezza. Gli altri… Qualcuno si persuaderà con i fatti. I più resteranno sordi anche a quelli. Ma a questi ho alcune poche cose da dire. E le dirò. Perché anche la giustizia deve essere servita, oltre che la misericordia. Finora la misericordia ha taciuto molte volte e su molte cose. Ma prima di tacere per sempre parlerà il Maestro anche con severità di giudice. Ma non volevo parlarti di questo. Volevo dirti che fra poco, avendo detto al gregge quanto era da dire per farlo mio, Io mi raccoglierò molto in preghiera e in preparazione. E quando non pregherò mi dedicherò a voi. Così come ho fatto al principio, farò alla fine. Verranno le discepole. Verrà mia Madre. Ci prepareremo tutti alla Pasqua. Giovanni, Io ti chiedo sin da ora di dedicarti molto alle discepole. A mia Madre in specie…».
   «Mio Signore! Ma cosa posso dare a tua Madre che Ella già non possieda ad esuberanza, e tanta esuberanza da averne da dare a noi tutti?».
   «Il tuo amore. Fa’ conto di essere per Lei come un secondo figlio. Ella ti ama e tu la ami. Avete un unico amore che vi unisce: l’amore per Me. Io, suo Figlio di carne e cuore, sarò sempre più… assente, assorto nelle mie… occupazioni. Ed Ella soffrirà perché sa… Sa che cosa sta per venire. Tu la devi consolare anche per Me, farti così amico di Lei che Ella possa piangere sul tuo cuore e averne conforto. Non ti è ignota la Mamma mia. Sei vissuto già con Lei. Ma altro è il farlo come discepolo che ama di riverenziale amore la Madre del suo Maestro, e altro è farlo da figlio. Io voglio che tu lo faccia da figlio, perché Ella soffra un poco meno quando non mi avrà più».

   540.3«Signore, Tu vai a morire? Parli come uno che sta per morire! Mi dài dolore…».
   «Ve l’ho detto più volte che Io devo morire. È come se Io parlassi a bambini svagati o a tardi d’ingegno. Sì. Io vado a morire. Lo dirò anche agli altri. Ma più tardi. A te lo dico ora. Ricordatelo, Giovanni».
   «Io mi sforzo di ricordare le tue parole, sempre… Ma questa è così dolorosa…».
   «Che fai di tutto per dimenticarla, vuoi dire? Povero fanciullo! Non sei tu che dimentichi, non sei tu che ricordi. Tu col tuo volere. È la tua umanità stessa che non può ricordare questa cosa tanto più grande della sua capacità di sopportazione, la cosa troppo grande, e non sai neppure in tutto quanto sarà grande, mostruosa, la cosa tanto grande che ti intontisce come un peso caduto dall’alto sul tuo capo. Eppure così è. Presto ormai Io andrò a morire. E mia Madre resterà sola. Io morirò con una stilla di dolcezza nel mio oceano di dolore se ti vedrò “figlio” per mia Madre…».
   «Oh! mio Signore! Se sarò capace… se non mi succederà come a Betlem, sì, io lo farò. Io veglierò con cuore di figlio. Ma che le potrò dare che la faccia consolata se perde Te? Che le potrò dare se io pure sarò come uno che ha tutto perduto, che è fatto stolto dal dolore? Come farò io, che non ho saputo vegliare e patire ora, nella calma, per una notte e per un poco di fame? Come farò?».
   «Non ti agitare. Prega molto in questo tempo. Ti terrò molto con Me e con mia Madre. Giovanni, tu sei la nostra pace. E lo sarai anche allora. Non temere, Giovanni. Il tuo amore farà tutto».
   «Oh! sì, Signore! Tienimi molto con Te. Io, lo sai, non ci tengo ad apparire, a far miracoli; io voglio, e so, soltanto amare…».
   Gesù lo bacia ancora sulla fronte, verso la tempia, come nella grotta…

   540.4Sono in vista della via che va verso il fiume. Qui vi è qualche pellegrino che pungola le cavalcature o affretta il passo per essere prima di notte nei luoghi di sosta. Ma tutti vanno imbacuccati perché, essendo caduto il sole, l’aria si fa rigida, e nessuno nota i due viandanti che vanno lesti verso il fiume.
   Un cavaliere al trotto serrato, quasi al galoppo, li raggiunge e li sorpassa, e si arresta dopo qualche metro per un ingombro di asinelli presso un ponticello a cavalcioni di un grosso rio, che si vuol dare delle arie di torrente e che va spumando verso il Giordano o il mar Morto. Mentre attende il suo turno di passaggio, il cavaliere si volge e fa un atto di sorpresa. Scende di sella e, tenendo per le redini il cavallo, torna indietro verso Gesù e Giovanni che non lo hanno notato.
   «Maestro! Come qui? E solo con Giovanni?», chiede il cavaliere gettando indietro i lembi del copricapo che si era calati sul viso a far da cappuccio e, potrei dire, da maschera a riparo dal vento e dalla polvere. Il volto bruno e virile di Mannaen appare.
   «La pace a te, Mannaen. Vado verso il fiume per passarlo. Ma dubito poterlo fare avanti notte. E tu dove andavi?».
   «A Macheronte. Nella sudicia tana. Non hai dove dormire? Vieni con me. Io mi affrettavo ad un albergo sulla via delle carovane. O, se preferisci, drizzerò la tenda sotto le piante del fiume. Ho tutto sulla sella».
   «Preferisco così. Ma tu certo preferisci l’albergo».
   «Preferisco Te, mio Signore. Reputo una grazia questa di averti incontrato. Andiamo, allora. Conosco le sponde come fossero i corridoi della mia casa. Ai piedi del colle di Galgala vi è un bosco riparato dai venti, ricco di erbe per la bestia e di legna per i fuochi degli uomini. Vi staremo bene».

   540.5Vanno svelti, piegando decisamente ad oriente, lasciando la via che va verso il guado o verso Gerico. Giungono presto ai margini di un folto bosco, che scende dalle pendici del colle e dilaga sul piano verso le sponde.
   «Vado a quella casa. Mi conosce. Chiederò latte e paglia per tutti», dice Mannaen andandosene col suo cavallo, e presto anche torna seguito da due uomini con fasci di paglia sulle spalle e un secchiellino di rame colmo di latte.
   Entrano sotto il bosco senza parlare. Mannaen fa gettare a terra la paglia e lincenzia i due uomini. Dalle tasche della sella leva esca e acciarino e fa fuoco con le molte frasche che sono al suolo. Il fuoco rallegra e riscalda. Il paiolo, messo su due pietre portate da Giovanni, si scalda mentre Mannaen, levata la sella al cavallo, stende la tenda di morbida lana di cammello legandola a dei picchetti infissi al suolo, addossandola al tronco robusto di una pianta secolare. Stende sull’erba una pelle di pecora, che era pure legata all’arcione, vi colloca la sella e dice: «Maestro, vieni. Un ricovero da cavalieri del deserto. Ma difende dalla guazza e dall’umido del suolo. A noi basterà la paglia. E ti assicuro, Maestro, che i tappeti preziosi e i baldacchini, i sedili della reggia mi sembrano meno, molto meno belli di questo tuo trono e di questa tenda e di questa paglia, e i cibi succulenti che ho più volte gustato non avranno mai avuto il sapore del pane e latte che prenderemo insieme qui sotto. Sono felice, Maestro!».
   «Io pure, Mannaen, e certo lo è Giovanni. La Provvidenza ci ha uniti questa sera per nostra reciproca gioia».
   «Questa sera e domani, Maestro, e anche dopodomani, sinché non ti so al sicuro, fra i tuoi apostoli. Penso che Tu vada a raggiungerli…».
   «Sì. Vado da loro. Mi attendono nella casa di Salomon».

   540.6Mannaen lo osserva. Poi dice: «Sono passato da Gerusalemme… E ho saputo. Da Betania. E ho capito perché non ti sei fermato lì. Fai bene a ritirarti. Gerusalemme è un corpo pieno di veleno e di marciume. Più del povero Lazzaro…».
   «Lo hai visto?».
   «Sì. Afflitto dagli strazi del corpo e da quelli del cuore, per Te. Muore molto afflitto Lazzaro… Ma vorrei morire io pure piuttosto che vedere il peccato dei nostri compatrioti».
   «Era in fermento la città?», chiede Giovanni che sorveglia il fuoco.
   «Molto. Divisa in due partiti. E, strana cosa, i romani hanno usato clemenza ad alcuni presi per sedizione il giorno avanti. Si dice in segreto che ciò sia per non aumentare il fermento. Si dice anche che presto il Proconsole verrà in Gerusalemme. Prima del tempo solito. Se sarà un bene, non so. So che certo lo imiterà Erode. E questo certo sarà un bene per me, perché potrò starti vicino. Con un buon cavallo — e le scuderie dell’Antipa hanno arabi veloci — andare dalla città al fiume sarà cosa rapida. Se là ti fermi…».
   «Sì. Mi fermo. Per ora almeno…».
   Giovanni porta il latte caldo, nel quale ognuno intinge il suo pane dopo che Gesù ha offerto e benedetto. Mannaen offre dei datteri biondi come miele.
   «Ma dove avevi tante cose?», chiede stupito Giovanni.
   «La sella di un cavaliere è un piccolo mercato, Giovanni. Vi è di tutto per l’uomo e per la bestia», risponde Mannaen con un sorriso leale sul volto bruno.

   540.7Pensa un momento, poi chiede: «Maestro, è lecito amare gli animali che ci servono e che tante volte lo fanno con più fedeltà dell’uomo?».
   «Perché questa domanda?».
   «Perché di recente sono stato schernito e rimproverato da alcuni che mi videro ricoprire con la coperta, che ora ci fa da tenda, il mio cavallo sudato dalla corsa fatta».
   «E non ti hanno detto altro?». Mannaen guarda interdetto Gesù… e tace. «Parla con sincerità. Non è mormorare e non è offendermi dire ciò che essi ti hanno detto per lanciare una nuova manata di fango contro di Me».
   «Maestro, Tu sai tutto. Veramente Tu sai tutto ed è inutile volerti celare i nostri pensieri o quelli di altri. Sì. Mi hanno detto: “Si vede che sei discepolo di quel samaritano. Sei un pagano come Lui, che viola anche i sabati per farsi immondo, toccando immondi animali”».
   «Ah! questo è certo stato Ismael!», esclama Giovanni.
   «Sì. Lui e altri con lui. Io ho ribattuto: “Vi capirei se mi diceste immondo perché vivo presso la Corte dell’Antipa. Non perché ho cura di un animale che è stato creato da Dio”. Mi hanno risposto, perché erano nel gruppo anche degli erodiani — il che è facile vedere da qualche tempo ed è anche molto meraviglioso, perché prima d’ora il dissidio fra di loro era intenso — mi hanno risposto: “Noi non giudichiamo le azioni dell’Antipa, ma le tue. Anche Giovanni il Battista era a Macheronte e aveva contatti col re. Ma è rimasto sempre un giusto. Tu invece sei un idolatra…”. Si adunava gente e mi sono frenato per non eccitare la cittadinanza. Da qualche tempo essa è tenuta eccitata da alcuni tuoi falsi seguaci, che la spingono a ribellioni contro chi ti osteggia, o da altri che fanno soprusi dicendosi tuoi discepoli mandati da Te…».
   «Ma è troppo! Maestro? Ma dove giungeranno?», chiede agitato Giovanni.
   «Non oltre il termine che potranno raggiungere. Oltre quel termine Io solo procederò e splenderà la Luce e nessuno potrà più dubitare che Io ero il Figlio di Dio.

   540.8Ma venitemi qui accosto e ascoltate. Prima alimentate il fuoco».
   I due, ben felici, si gettano sulla folta pelle di pecora stesa al suolo sotto i piedi di Gesù, che è seduto sulla sella scarlatta contro la tenda addossata al tronco dell’albero. Mannaen sta quasi sdraiato, il gomito puntato al suolo, col capo appoggiato alla mano, gli occhi negli occhi di Gesù. Giovanni si siede sui calcagni e appoggia il capo contro il petto di Gesù, cingendolo con un braccio, nella sua positura abituale.
   «Quando il Creatore ebbe creato il Creato e gli dette a re l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, mostrò all’uomo tutte le creature create e volle che l’uomo desse loro un nome per distinguere queste da quelle. E si legge nella Genesi “che ogni nome che Adamo diede agli animali era buono, era il vero nome”. E ancor nella Genesi si legge che Dio, avendo creato l’uomo e la donna, disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, perché domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie e tutta la terra e i rettili che strisciano su di essa”. E, creata che ebbe la compagna ad Adamo, la donna, come egli fatta a immagine e somiglianza di Dio, non essendo conveniente che la Tentazione in agguato tentasse e corrompesse ancor più laidamente il maschio creato a immagine di Dio, disse Dio all’uomo e alla donna: “Crescete, moltiplicatevi, e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra”, e disse ancora: “Ecco, vi ho dato tutte le erbe che fanno seme sulla terra e tutte le piante che hanno in sé semenza della loro specie, perché servano di cibo a voi e a tutti gli animali della terra e agli uccelli del cielo e a quanto si muove sulla terra ed ha in sé anima vivente, affinché abbiano vita”.
   Gli animali e le piante, e tutto quanto il Creatore ha creato per utile dell’uomo, rappresentano dunque un dono d’amore e un patrimonio dato in custodia dal Padre ai figli, perché lo usino con loro utile e con gratitudine verso il Datore di ogni provvidenza. Perciò vanno amati e trattati con giusta cura. Che direste voi di un figlio al quale il padre desse vesti, mobili, denaro, campi, case, dicendo: “Te li dono per te e per i tuoi successori perché abbiate di che esser felici. Usate di tutto questo con amore in ricordo del mio amore che ve lo dona”, e che poi, sia il figlio che i figli di lui[91], lasciassero tutto rovinare o dilapidassero ogni bene? Direste che non hanno fatto onore al padre loro, che non hanno amato il padre e il suo dono. Ugualmente l’uomo deve aver cura di quanto Dio con cura provvidenziale gli ha messo a disposizione. Cura non vuol dire idolatria, né affetto smodato per le bestie o le piante, o qualsiasi altra cosa. Cura vuol dire senso di pietà e di riconoscenza per le cose minori, che ci servono e che hanno la loro vita, ossia la loro sensibilità.

   540.9L’anima vivente delle creature minori, delle quali parla la Genesi, non è l’anima quale ha l’uomo. È la vita, semplicemente la vita, ossia l’essere sensibile alle cose attuali, tanto materiali che affettive. Quando un animale è morto è insensibile, perché con la morte per esso è la vera fine. Non c’è futuro per esso. Ma sinché è vivente soffre la fame, freddo, stanchezza, è soggetto a ferirsi e soffrire, a godere, ad amare, ad odiare, ad ammalarsi e morire. E l’uomo, in ricordo di Dio, che gli ha dato quel mezzo per rendergli meno aspro l’esilio sulla Terra, deve essere umano verso i suoi servi minori che sono gli animali.
   Nel libro mosaico non è forse prescritto[92] di avere sensi di umanità anche per gli animali, volatili o quadrupedi che siano?
   In verità vi dico che bisogna saper vedere con giustizia le opere del Creatore. Se si guardano con giustizia si vede che sono “buone”. E cosa buona va sempre amata. Si vede che sono cose date con fine buono e per impulso d’amore, e come tali le possiamo, le dobbiamo amare, vedendo, oltre l’essere finito, l’Essere infinito che le ha create per noi. Si vede che sono utili, e come cose utili vanno amate. Nulla, ricordatevelo bene, è stato fatto senza scopo nell’universo. Dio non sciupa la sua perfetta potenza in inutili cose. Questo filo d’erba non è meno utile del tronco poderoso al quale si appoggia il nostro temporaneo rifugio. La stilla di rugiada, la piccola perla della brina, non sono meno utili dell’immenso mare. Il moscerino non è meno utile dell’elefante, e il verme che sta nel fango del fossato meno della balena. Nulla di inutile è nel creato. Dio tutto ha fatto con fine buono, con amore per l’uomo. L’uomo deve usare tutto con retto fine e con amore per Dio, che gli ha dato tutto quanto è sulla Terra perché sia suddito al re del creato.

   540.10Tu hai detto, o Mannaen, che l’animale serve, sovente meglio degli uomini, gli uomini. Io dico che gli animali, le piante, i minerali, gli elementi superano tutti l’uomo nell’ubbidire, seguendo passivamente le leggi creative, o attivamente seguendo l’istinto inculcato dal Creatore, o arrendendosi all’addomesticazione allo scopo per il quale sono stati creati. L’uomo, che dovrebbe essere la perla nel creato, troppo sovente è la bruttura del creato. Dovrebbe essere la nota più rispondente al coro dei celesti nel lodare Iddio, e troppo sovente è la nota discorde che impreca o bestemmia o si ribella o dedica il suo canto a lodare le creature anziché il Creatore. L’idolatria perciò. L’offesa perciò. La sozzura perciò. E questo è peccato.
   Sta’ dunque in pace, Mannaen. Il tuo aver pietà di un cavallo, che è sudato per averti servito, non è peccato. Peccato sono le lacrime che si fanno versare ai propri simili e gli sfrenati amori che sono offesa verso Dio, degno di tutto l’amore dell’uomo».
   «Ma io, stando presso l’Antipa, pecco?».
   «Per qual scopo vi stai? Per godere?».
   «No, Maestro. Per vegliare su Te. Lo sai. Anche ora ci andavo per questo. Perché so che hanno mandato messi ad Erode per eccitarlo contro di Te».
   «E allora non c’è peccato. Non ameresti di più stare con Me, nella mia povertà di vita?».
   «E me lo chiedi? L’ho detto al principio. Questa notte sotto la tenda, il povero cibo che abbiamo gustato, non hanno paragone per me. Oh! se non fosse che, per ascoltare i sibili dei serpi, occorre stare presso la loro tana, io starei con Te! Ho compreso la verità della tua missione. Ho sbagliato un giorno. Ma mi ha servito a comprendere e non uscirò più dalla giustizia».
   «Tu vedi! Nulla è di inutile. Anche l’errore, per chi tende al Bene, è mezzo al Bene. L’errore cade come veste di crisalide, ed esce la farfalla che non è deforme, che non puzza, non striscia, ma vola cercando calici di fiori e raggi di luce. Anche le anime buone sono così. Possono lasciarsi avviluppare da miserie e mortificanti strettoie per un momento. Ma poi se ne liberano e volano di fiore in fiore, di virtù in virtù, verso la Luce, verso la Perfezione. Lodiamo il Signore per le sue opere di continua misericordia, agenti anche ad insaputa dell’uomo nel cuore dell’uomo e intorno a lui».

   540.11E Gesù prega, mettendosi in ginocchio perché non consente la tenda, bassa e limitata, altra posizione. Poi, alimentato il fuoco davanti alla tenda, impastoiato il cavallo, si accingono al riposo, promettendosi di sostituirsi nel vegliare a turno al fuoco e all’animale, sul quale Mannaen ha gettato il vello greve a fare da mantello a difesa dalla frescura notturna.
   Gesù e Mannaen si gettano sui fasci di paglia e si ravvolgono nel mantello per dormire. Giovanni, per paura di essere preso dal sonno, va avanti e indietro fuor dalla tenda nutrendo il fuoco e osservando il cavallo, che lo guarda con l’intelligente occhio nero e batte ritmicamente lo zoccolo scuotendo il capo, tintinnando le catenelle d’argento della bardatura e frangendo aromatici steli di finocchi selvatici, nati ai piedi dell’albero al quale è legato. E poiché Giovanni gliene offre di più belli, nati poco lontano, nitrisce di piacere e cerca strofinare le froge morbide e rosate contro il collo dell’apostolo. 
   Da più lontano, nel gran silenzio della notte, si sente venire il fruscio calmo del fiume.

   540.12Dice Gesù:
   «E anche il terzo anno di vita pubblica ha fine. Viene ora il periodo preparatorio alla Passione. Quello nel quale apparentemente tutto sembra limitarsi a poche azioni e a poche persone. Quasi uno sminuirsi della mia figura e della mia missione. In realtà, Colui che pareva vinto e scacciato era l’eroe che si preparava all’apoteosi, e intorno a Lui non le persone ma le passioni delle persone erano accentrate e portate ai limiti massimi.
   Tutto quanto ha preceduto, e che forse in certi episodi parve senza scopo ai lettori maldisposti o superficiali, qui si illumina della sua luce fosca o splendente. E specie le figure più importanti. Quelle che molti non vogliono riconoscere utili a conoscere, proprio perché in esse è la lezione per i presenti maestri, che vanno più che mai ammaestrati per divenire veri maestri di spirito. Come ho detto a Giovanni e Mannaen, nulla è inutile di ciò che fa Dio, neppure l’esile filo d’erba. Così nulla è di superfluo in questo lavoro. Non le figure splendide e non le deboli e tenebrose. Anzi, per i maestri di spirito, sono di maggior utile le figure deboli e tenebrose che non le figure formate ed eroiche.
   Come dall’alto di un monte, presso la vetta, si può abbracciare tutta la conformazione del monte e la ragione di essere dei boschi, dei torrenti, dei prati e dei pendii per giungere dalla pianura alla vetta, e si vede tutta la bellezza del panorama, e più forte viene la persuasione che le opere di Dio sono tutte utili e stupende, e che una serve e completa l’altra, e tutte sono presenti per formare la bellezza del Creato, così, sempre per chi è di retto spirito, tutte le diverse figure, episodi, lezioni, di questi tre anni di vita evangelica, contemplate come dall’alto della vetta del monte della mia opera di Maestro, servono a dare la visione esatta di quel complesso politico, religioso, sociale, collettivo, spirituale, egoistico sino al delitto o altruistico sino al sacrificio, in cui Io fui Maestro e nel quale divenni Redentore. La grandiosità del dramma non si vede in una scena ma in tutte le parti di esso. La figura del protagonista emerge dalle luci diverse con cui lo illuminano le parti secondarie.
   Ormai presso la vetta, e la vetta era il Sacrificio per cui mi ero incarnato, svelate tutte le riposte pieghe dei cuori e tutte le mene delle sette, non c’è che da fare come il viandante giunto presso la cima. Guardare, guardare tutto e tutti. Conoscere il mondo ebraico. Conoscere ciò che Io ero: l’Uomo al disopra del senso, dell’egoismo, del rancore, l’Uomo che ha dovuto essere tentato, da tutto un mondo, alla vendetta, al potere, alle gioie anche oneste delle nozze e della casa, che ha dovuto tutto sopportare vivendo a contatto del mondo e soffrirne, perché infinita era la distanza fra l’imperfezione e il peccato del mondo e la mia Perfezione, e che a tutte le voci, a tutte le seduzioni, a tutte le reazioni del mondo, di Satana e dell’ io, ha saputo rispondere: “No”, e rimanere puro, mite, fedele, misericordioso, umile, ubbidiente, sino alla morte di Croce.

   540.13Comprenderà tutto ciò la società di ora, alla quale Io dono questa conoscenza di Me per farla forte contro gli assalti sempre più forti di Satana e del mondo?
   Anche oggi, come venti secoli or sono, la contraddizione sarà fra quelli per i quali Io mi rivelo. Io sono segno di contraddizione ancora una volta. Ma non Io, per Me stesso, sibbene Io rispetto a ciò che suscito in essi. I buoni, quelli di buona volontà, avranno le reazioni buone dei pastori e degli umili. Gli altri avranno reazioni malvagie come gli scribi, farisei, sadducei e sacerdoti di quel tempo. Ognuno dà ciò che ha. Il buono che viene a contatto dei malvagi scatena un ribollire di maggior malvagità in essi. E giudizio sarà già fatto sugli uomini, come lo fu nel Venerdì di Parasceve, a seconda di come avranno giudicato, accettato e seguito il Maestro che, con un nuovo tentativo di infinita misericordia, si è fatto conoscere una volta ancora.
   A quanti si apriranno gli occhi e mi riconosceranno e diranno[93]: “È Lui. Per questo il nostro cuore ci ardeva in petto mentre ci parlava e ci spiegava le Scritture”?
   La mia pace a questi e a te, piccolo, fedele, amoroso Giovanni».

[91] sia il figlio che i figli di lui è un’aggiunta di MV su una copia dattiloscritta.
[92] prescritto, per esempio in: Deuteronomio 22, 1-4.6-7. Il discorso sulla creazione trova riscontro in: Genesi 1-2.
[93] diranno, come i discepoli di Emmaus, in 625.11.