MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

A A A

VOLUME VIII CAPITOLO 543



DXLIII. Marta manda un servo a chiamare il Maestro.

   20 dicembre 1946.

   543.1Mi trovo ancora nella casa di Lazzaro e vedo che Marta e Maria escono nel giardino accompagnando un uomo piuttosto anziano, molto dignitoso nell’aspetto e direi non ebreo, perché ha il volto completamente rasato come lo hanno i romani.
   Allontanate che sono un poco dalla casa, Maria gli chiede: «Ebbene, Nicomede? Che ci dici di nostro fratello? Noi lo vediamo molto… malato… Parla».
   L’uomo apre le braccia con un gesto di commiserazione e di costatazione dell’ineluttabilità del fatto, e dice fermandosi: «È molto malato… Io non vi ho mai ingannate sin dai primi tempi che l’ho preso in cura. Ho tentato di tutto, voi lo sapete. Ma non è servito. Ho anche… sperato, sì, ho sperato che almeno potesse vivere reagendo all’estenuazione della malattia con il buon nutrimento e i cordiali che gli preparavo. Ho tentato anche con veleni atti a preservare il sangue dalla corruzione e a sostenere le forze, secondo le vecchie scuole dei grandi maestri della medicina. Ma il male è più forte dei mezzi per curare il male. Sono come corrosioni queste malattie. Distruggono. E quando appaiono all’esterno, l’interno delle ossa ne è già invaso, e come la linfa in un albero dall’imo si alza alla vetta così qui dal piede la malattia si è estesa a tutto il corpo…».
   «Ma ha le gambe malate, quelle sole…», geme Marta.
   «Sì. Ma la febbre distrugge là dove voi non pensate esservi che sanità. Guardate questo ramicello caduto da quell’albero. Pare tarlato qua, presso la frattura. Ma, ecco… (lo sbriciola fra le dita). Vedete? Sotto la scorza ancor liscia è la carie sino in cima, dove ancora sembra esservi vita perché vi sono ancora delle foglioline. Lazzaro ormai è… morente, povere sorelle! Il Dio dei vostri padri, e gli dèi e semidèi della nostra medicina, nulla hanno potuto fare… o voluto fare. Parlo del vostro Dio… E perciò… sì, prevedo ormai prossima la morte anche per l’aumento della febbre, sintomo della corruzione entrata nel sangue, per i moti disordinati del cuore, e per la mancanza di stimoli e reazioni nel malato e in tutti i suoi organi. Voi vedete! Non si nutre più, non ritiene il poco che prende e non assimila ciò che ritiene. È la fine… E — credete ad un medico che è riconoscente a voi ricordando Teofilo — e la cosa più da desiderarsi ormai è la morte… Sono mali tremendi. Da migliaia di anni distruggono l’uomo, e l’uomo non riesce a distruggere loro.

   543.2Soltanto gli dèi potrebbero se…». Si arresta, le guarda sfregandosi con le dita il mento rasato. Pensa. Poi dice: «Perché non chiamate il Galileo? È vostro amico. Egli può perché tutto Egli può. Io ho controllato persone che erano condannate e che sono guarite. Una forza strana esce da Lui. Un fluido misterioso che rianima e raduna le disperse reazioni e impone loro di voler guarire… Non so. So che l’ho seguito anche, stando mescolato nella folla, e ho visto cose meravigliose… Chiamatelo. Io sono un gentile. Ma onoro il Taumaturgo misterioso del vostro popolo. E sarei felice se Egli potesse ciò che io non ho potuto».
   «Egli è Dio, Nicomede. Perciò può. La forza che tu chiami fluido è il suo volere di Dio», dice Maria.
   «Non derido la vostra fede. Anzi la sprono a crescere sino all’impossibile. Del resto… Si legge che gli dèi sono scesi sulla Terra qualche volta. Io… non ci avevo creduto mai… Ma, con scienza e coscienza di uomo e di medico, devo dire che così è, perché il Galileo opera guarigioni che solo un dio può operare».
   «Non un dio, Nicomede. Il vero Dio», insiste Maria.
   «E va bene. Come tu vuoi. E io lo crederò e diventerò suo seguace se vedrò che Lazzaro… risorge. Perché ormai, più che di guarigione, di risurrezione è d’uopo parlare. Chiamatelo, dunque, e con urgenza… perché, se stolto non sono divenuto, al massimo entro il terzo tramonto da questo egli morrà. Ho detto “ al massimo”. Potrebbe essere anche prima, ormai».
   «Oh! potessimo! Ma non sappiamo dove sia…», dice Marta.
   «Io lo so. Me lo ha detto un suo discepolo che andava a raggiungerlo accompagnandogli dei malati, e due erano dei miei. È oltre il Giordano, presso il guado. Così ha detto. Voi forse sapete meglio il luogo».
   «Ah! in casa di Salomon, certo!», dice Maria.
   «Lontano molto?».
   «No, Nicomede».
   «E allora mandate subito un servo a dirgli che venga. Io più tardi ritorno e resto qui per vedere la sua azione su Lazzaro. Salve, domine. E… fatevi cuore a vicenda». Le inchina e se ne va verso l’uscita, là dove un servo lo attende per tenergli il cavallo e aprirgli il cancello.

   543.3«Che facciamo, Maria?», chiede Marta dopo aver visto partire il medico.
   «Ubbidiamo al Maestro. Egli ha detto di mandarlo a chiamare dopo la morte di Lazzaro. E noi lo faremo».
   «Ma, morto che sia…, che giova avere più qui il Maestro? Per il nostro cuore sì, sarà utile. Ma per Lazzaro!… Io mando un servo a chiamarlo».
   «No. Tu distruggeresti il miracolo. Egli ha detto di saper sperare e credere contro ogni realtà contraria. E se lo faremo noi avremo il miracolo, ne sono sicura. Se non lo sapremo fare, Dio ci lascerà con la nostra presunzione di voler fare meglio di Lui e non ci concederà nulla».
   «Ma non lo vedi quanto soffre Lazzaro? Non senti come, nei momenti che è in sé, desidera il Maestro? Non hai cuore tu a volergli negare l’ultima gioia al povero fratello nostro!… Povero fratello nostro! Povero fratello nostro! Fra poco non avremo più fratello! Più padre, più madre, più fratello! La casa distrutta, e noi sole come due palme in un deserto». Viene presa da una crisi di dolore, direi anche da una crisi di nervi tutta orientale, e si agita, percuotendosi il viso, spettinandosi i capelli.
   Maria l’afferra. Le impone: «Taci! Taci, ti dico! Egli può sentire. Io lo amo più e meglio di te, e so dominarmi. Tu sembri una femmina malata. Taci, dico! Non è con queste smanie che si cambiano le sorti, e neppure che si commuovono i cuori. Se lo fai per commuovere il mio, ti sbagli. Pensalo bene. Il mio si schianta nell’ubbidienza. Ma resiste in essa».
   Marta, dominata dalla forza della sorella e dalle sue parole, si calma alquanto, ma nel suo dolore, più calmo ora, geme invocando la madre: «Mamma! oh! mamma mia, consolami. Più pace in me da quando tu sei morta. Se fossi qui, madre! Se i dolori non ti avessero uccisa! Se ci fossi, ci guideresti e noi ti ubbidiremmo, per il bene di tutti… Oh!…».
   Maria muta di colore e, senza far del rumore, piange con un volto angosciato e torcendosi le mani senza parlare.
   Marta la guarda e dice: «Nostra madre, quando fu per morire, mi fece promettere che sarei stata una madre per Lazzaro. Se ella fosse qui…».
   «Ubbidirebbe al Maestro perché era una donna giusta. Inutilmente cerchi di commuovermi. Dimmi pure che io sono stata l’assassina di mia madre per i dolori che le ho dato. Ti dirò: “Hai ragione”. Ma se vuoi farmi dire che hai ragione a volere il Maestro, io ti dico: “No”. E sempre dirò: “No”. E sono certa che dal seno di Abramo ella mi approva e benedice. Andiamo in casa».
   «Più nulla! Più nulla!».
   «Tutto! Tutto devi dire! In verità tu ascolti il Maestro e sembri attenta mentre Egli parla, ma poi non ricordi ciò che Egli dice. Non ha Egli sempre detto che amare e ubbidire ci fa figli di Dio e eredi del suo Regno? E allora come puoi dire che rimarremo senza nulla più, se avremo Dio e possederemo il Regno per la nostra fedeltà? Oh! che in verità bisogna essere assolute come io lo fui nel male, anche per poter essere, e sapere, e volere essere assolute nel bene, nell’ubbidienza, nella speranza, nella fede, nell’amore!…».
   «Tu permetti che i giudei deridano e facciano insinuazioni sul Maestro. Li hai sentiti ieri l’altro…».
   «E pensi ancora al gracchiare di quelle cornacchie, allo squittìo di quegli avvoltoi? Ma lasciali sputare ciò che hanno dentro! Che ti importa del mondo? Che è il mondo rispetto a Dio? Guarda: meno di questo lurido moscone intirizzito, o avvelenato dall’aver succhiato sozzure, che io calpesto così», e dà un energico colpo di tallone ad un tardo tafano che cammina lentamente sulla ghiaia del viale. Poi prende Marta per un braccio, dicendo: «Su. Vieni in casa e…».
   «Facciamoglielo almeno sapere al Maestro. Mandiamogli a dire che è morente, senza dirgli di più…».
   «Come avesse bisogno di saperlo da noi! No, ho detto. È inutile. Egli ha detto: “Quando sarà morto fatemelo sapere”. E lo faremo. Non prima di allora».
   «Nessuno, nessuno ha pietà del mio dolore! Tu meno di tutti…».
   «E smettila di piangere così. Non lo posso sopportare…». Nel suo dolore si morde le labbra per dare forza alla sorella e non piangere essa pure.

   543.4Marcella corre fuori dalla casa, seguita da Massimino: «Mar­ta! Maria! Correte! Lazzaro sta male. Non risponde più…».
   Le due sorelle corrono via rapide entrando in casa… e dopo poco si sente la voce forte di Maria dare ordini per i soccorsi del caso, e si vedono correre servi con cordiali e catini fumanti d’acque bollenti, e si sentono bisbigli e si vedono gesti di dolore…
   Subentra pian piano la calma dopo tanta agitazione. Si vedono i servi parlottare fra loro, meno agitati ma con atti di grande sconforto a punteggiatura del loro dire. Chi scuote il capo, chi lo alza al cielo allargando le braccia come per dire: «Così è», chi piange e chi ancora vuole sperare in un miracolo.

   543.5Ecco Marta di nuovo. Pallida come una morta. Si guarda dietro le spalle per vedere se è seguita. Guarda i servi che le si stringono intorno ansiosi. Torna a guardare se dalla casa esce qualcuno a seguirla. Poi dice ad un servo: «Tu! Vieni con me».
   Il servo si stacca dal gruppo e la segue verso la pergola dei gelsomini e dentro la stessa. Marta parla, sempre tenendo d’occhio la casa, che si può vedere attraverso il folto intreccio dei rami: «Ascolta bene. Quando tutti i servi saranno rientrati, ed io darò loro ordini perché siano occupati nella casa, tu andrai alle scuderie, prenderai un cavallo dei più rapidi, lo sellerai… Se per caso alcuno ti vede, di’ che vai per il medico… Non menti tu e non ti insegno a mentire io, perché veramente ti mando dal Medico benedetto… Prendi con te biada per la bestia e cibo per te e questa borsa per tutto quanto ti possa occorrere. Esci dal piccolo cancello e, passando per i campi arati, che non dànno rumore sotto lo zoccolo, ti allontani dalla casa. Poi prendi la via di Gerico e galoppi senza fermarti mai, neppure a notte. Hai capito? Senza fermarti mai. La luna novella ti illuminerà la via se viene il buio mentre ancora galoppi. Pensa che la vita del tuo padrone è nelle tue mani e nella tua sveltezza. Mi fido di te».
   «Padrona, io ti servirò come uno schiavo fedele».
   «Vai al guado di Betabara. Passi e vai al paese oltre Betania d’Oltre-Giordano. Sai? Dove in principio battezzava Giovan­ni».
   «Lo so. Ci andai anche io a purificarmi».
   «In quel paese c’è il Maestro. Tutti ti indicheranno la casa dove è ospitato. Ma se tu, in luogo della via maestra, segui le sponde del fiume, è meglio. Sei meno visto e trovi da te la casa. È la prima dell’unica via del paesello che dalla campagna va al fiume. Non puoi sbagliare. Una casa bassa, senza terrazzo né camera alta, con l’orto che si trova, venendo dal fiume, prima della casa, un orto chiuso da un cancelletto di legno e una siepe di spinalbe, credo, una siepe insomma. Hai capito? Ripeti».
   Il servo ripete pazientemente.
   «Va bene. Chiedi di parlare con Lui, con Lui solo, e gli dici che le tue padrone ti mandano a dirgli che Lazzaro è molto malato, che sta per morire, che noi non resistiamo più, che egli lo vuole e che venga subito, subito, per pietà. Hai capito be­ne?».
   «Ho capito, padrona».
   «E dopo torna subito indietro, di modo che nessuno noti molto la tua assenza. Prendi un fanale con te, per le ore buie. Va’, corri, galoppa, stronca il cavallo, ma torna presto con la risposta del Maestro».
   «Lo farò, padrona».
   «Va’! Va’! Vedi? Sono già tutti rientrati in casa. Va’ subito. Nessuno ti vedrà fare i preparativi. Io stessa ti porterò il cibo. Va’! Te lo metterò alla soglia del piccolo cancello. Va’! E Dio sia con te. Va’!…».
   Lo spinge, ansiosa, e poi corre in casa rapida e guardinga, e dopo poco sguscia fuori da una porta secondaria, sul lato sud, con un piccolo sacco fra le mani, rasenta una siepe sino alla prima apertura, svolta, scompare…