MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 544



DXLIV. Delirio e morte di Lazzaro.

   21 dicembre 1946.

   544.1Hanno aperto tutte le porte e le finestre nella stanza di Lazzaro per rendergli meno difficile la respirazione. E intorno a lui, che è assente, in coma — un coma pesante, simile a morte, dalla quale differisce unicamente per il movimento del respiro — sono le due sorelle, Massimino, Marcella e Noemi, intenti ad ogni minimo atto del morente.
   Ogni volta che una contrazione di spasimo altera la bocca, e pare che essa si atteggi a parlare, o che gli occhi si scoprono per un socchiudersi di palpebra, le due sorelle si chinano per afferrare una parola, uno sguardo… Ma è inutile. Non sono che atti incoordinati, indipendenti dalla volontà e dall’intelligenza, che sono ambedue, ormai, inerti, perdute. Atti che vengono dalla sofferenza della carne, come da essa viene il sudore che fa lucido il volto del morente, e il tremito che ad intervalli scuote le dita scheletrite e dà ad esse una contrazione di artiglio. Anche lo chiamano le due sorelle, con tutto l’amore nella loro voce. Ma il nome e l’amore cozzano contro le barriere dell’insensibilità intellettiva, ed è, a risposta del loro chiamare, il silenzio che hanno le tombe.
   Noemi, piangente, continua a mettere contro i piedi, certo gelati, mattoni avvolti in strisce di lana. Marcella tiene fra le mani un calice nel quale pesca un lino sottile, che Marta usa per bagnare le labbra aride del fratello. Maria con un altro lino asciuga l’abbondante sudore, che scende a strisce dal volto scheletrito e che bagna le mani del morente. Massimino, appoggiato ad uno stipo alto e scuro, presso il letto del morente, osserva stando in piedi dietro le spalle di Maria che è curva sul fratello. Nessun altro. Il massimo silenzio, come fossero in una casa vuota, in un luogo deserto. Le ancelle che portano i mattoni caldi hanno i piedi scalzi e non fanno rumore sul pavimento marmoreo. Sembrano apparizioni.

   544.2Maria ad un dato momento dice: «Mi sembra che nelle mani torni il calore. Guarda, Marta, è meno pallido nelle labbra».
   «Sì. Anche il respiro è più libero. Lo guardo da qualche tempo», osserva Massimino.
   Marta si china e chiama piano, ma con accento intenso: «Laz­zaro! Lazzaro! Oh! Guarda, Maria! Ha avuto come un sorriso e un battere di palpebra. Migliora, Maria! Migliora! Che ora abbiamo?».
   «Abbiamo oltrepassato di un tempo il vespero».
   «Ah!», e Marta si raddrizza stringendo le mani sul petto, alzando gli occhi verso l’alto in un visibile atto di muta ma fiduciosa preghiera. Un sorriso le rischiara il volto.
   Gli altri la guardano stupiti e Maria le dice: «Non vedo perché l’essere oltre il vespero ti debba fare felice…», e la scruta, sospettosa, ansiosa.
   Marta non risponde, ma si riprende nella posa che aveva prima.
   Entra un’ancella con dei mattoni che passa a Noemi. Maria le ordina: «Porta due lumi. La luce decresce e io voglio veder­lo». La serva esce senza rumore e torna presto con due lucerne accese, che depone una sullo stipo, contro il quale è Massimino, e l’altra su un tavolo ingombro di bende e anforette, posto all’altro lato del letto.
   «Oh! Maria! Maria! Guarda! È proprio meno pallido».
   «E di aspetto meno finito. Si rianima!», dice Marcella.
   «Dategli ancora qualche stilla di quel vino con gli aromi che ha preparato Sara. Gli ha fatto bene», suggerisce Massimino.
   Maria prende dal piano dello stipo un’anforetta dal collo esilissimo, a becco d’uccello, e con precauzione fa scendere qualche goccia di vino fra le labbra socchiuse.
   «Va’ adagio, Maria. Che egli non soffochi!», consiglia Noemi.
   «Oh! inghiotte! Lo cerca! Guarda, Marta! Guarda! Sporge la lingua cercando…».
   Tutti si chinano a guardare, e Noemi lo chiama: «Tesoro! Guarda la tua nutrice, anima santa!», e si fa avanti a baciarlo.
   «Guarda! Guarda, Noemi, beve la tua lacrima! Gli è caduta presso le labbra ed egli ha sentito, e l’ha cercata e assorbita».
   «Oh! gioia mia! Avessi ancora il latte di una volta, te lo spremerei goccia goccia in bocca, mio agnellino, dovessi spremermi il cuore e morire poi!». Intuisco che Noemi, nutrice di Maria, sia stata anche nutrice di Lazzaro.

   544.3«Padrone, è tornato Nicomede», dice un servo apparendo sulla soglia.
   «Che venga! Che venga! Ci aiuterà a farlo migliorare».
   «Osservate! Osservate! Apre gli occhi, muove le labbra», dice Massimino.
   «A me stringe le dita con le sue dita!», grida Maria. E si china dicendo: «Lazzaro! Mi senti? Chi sono?».
   Lazzaro apre proprio gli occhi e guarda, uno sguardo incerto, velato, ma è sempre uno sguardo. Muove a fatica le labbra e dice: «Mamma!».
   «Maria sono. Maria! Tua sorella!».
   «Mamma!».
   «Non ti riconosce. E chiama sua madre. I morenti. Sempre così», dice Noemi con il volto lavato di pianto.
   «Ma parla. Dopo tanto parla. È già molto… Poi starà meglio. Oh! mio Signore, premia la tua serva!», dice Marta con ancora quell’atto di fervida e fiduciosa preghiera.
   «Ma che ti è accaduto? Forse hai visto il Maestro? Ti è apparso? Dimmelo, Marta! Levami d’angoscia!», dice Maria.

   544.4L’entrata di Nicomede impedisce la risposta. Tutti si volgono a lui, raccontando come dopo la sua partenza Lazzaro si fosse aggravato tanto da giungere a morte, e morto già lo avevano creduto, e poi, con dei soccorsi, avevano potuto farlo rinvenire, ma al respiro soltanto. E come da poco, dopo che una delle loro donne aveva preparato un vino con aromi, aveva ripreso calore e aveva inghiottito, cercando di bere, e anche aveva aperto gli occhi e parlato… Parlano tutti insieme, con le loro speranze riaccese, gettate contro la pacatezza alquanto scettica del medico, che li lascia parlare senza dire una parola.
   Finalmente hanno finito ed egli dice: «Va bene. Lasciatemi vedere». E li scansa, accostandosi al letto e ordinando di avvicinare i lumi e chiudere la finestra, volendo scoprire il malato. Si china su lui, lo chiama, lo interroga, fa passare la lucerna davanti al volto di Lazzaro, che ora ha gli occhi aperti e sembra come stupito di tutto; poi lo scopre, ne studia il respiro, i battiti del cuore, il calore e la rigidità delle membra… Tutti sono ansiosi in attesa della sua parola. Nicomede ricopre il malato, lo guarda ancora, pensa. Poi si volta a guardare gli astanti e dice: «È innegabile che ha ripreso vigore. Attualmente è migliorato da quando lo vidi. Ma non vi illudete. Non è che il fittizio miglioramento della morte. Ne sono tanto certo, come certo ero che è alla fine, che, come vedete, sono tornato, dopo essermi liberato da ogni impegno, per rendergli meno penosa la morte, per quanto mi è concesso di farlo… o per vedere il miracolo se…

   544.5Avete provveduto?».
   «Sì, sì, Nicomede», lo interrompe Marta. E, per impedirgli altre parole, dice: «Ma non avevi detto che… entro tre giorni… Io…». Piange.
   «Ho detto. Sono un medico. Vivo fra agonie e pianti. Ma l’abitudine a viste di dolore non mi ha ancora dato cuore di pietra. E oggi… vi ho preparate… con un termine abbastanza lungo… e vago… Ma la mia scienza mi diceva che era più sollecita la soluzione, ed il mio cuore mentiva per un pietoso inganno… Su! Siate forti… Uscite fuori… Non si sa mai sino a qual punto i morenti intendano…». Le spinge fuori in lacrime, ripetendo: «Siate forti! Siate forti!».
   Presso il morente resta Massimino… Anche il medico si allontana per preparare dei medicamenti atti a rendere meno angosciosa l’agonia che, dice, «prevedo dolorosa molto».
   «Fallo vivere! Fallo vivere sino a domani. È quasi notte. Lo vedi, o Nicomede. Cosa è per la tua scienza tener desta una vita per men di un giorno? Fallo vivere!».
   «Domina, io faccio ciò che posso. Ma quando lo stame è finito non c’è nulla che mantenga la fiamma!», risponde il medico e se ne va.
   Le due sorelle si abbracciano, piangendo desolate, e chi piange di più, ora, è Maria. L’altra ha la sua speranza in cuore…

   544.6La voce di Lazzaro viene dalla stanza. Forte, imperiosa. E le fa trasalire, perché inaspettata in tanto languore. Le chiama: «Marta! Maria! Dove siete? Voglio alzarmi. Vestirmi! Dire al Maestro che sono guarito! Devo andare dal Maestro. Un carro! Subito. E un cavallo veloce. Certo è Lui che mi ha guarito…».
   Parla veloce, scandendo le parole, seduto sul letto, acceso di febbre, cercando di gettarsi dal letto, trattenuto dal farlo da Massimino, che dice alle donne che entrano correndo: «Deli­ra!».
   «No! Lascialo andare. Il miracolo! Il miracolo! Oh! sono felice di averlo suscitato! Appena Gesù ha saputo! Dio dei padri, sii benedetto e lodato per la tua potenza e per il tuo Messia…». Marta, caduta in ginocchio, è ebbra di gioia.
   Intanto Lazzaro continua, sempre più preso dalla febbre, che Marta non comprende essere causa di tutto: «È venuto tante volte da me malato. È giusto che io vada da Lui a dirgli: “Son guarito”. Guarito sono! Non ho più dolori! Sono forte. Voglio alzarmi. Andare. Dio ha voluto provare la mia rasse-
   gnazione. Sarò detto il novello Giobbe…». Prende un tono ieratico gestendo a larghi gesti: «“Il Signore si commosse della penitenza di Giobbe… e gli rese il doppio di quanto aveva avuto. E il Signore benedisse gli ultimi anni di Giobbe più ancora dei primi… ed egli visse sino a…”. Ma no che non sono Giobbe[96]! Ero fra le fiamme e me ne ha tratto, ero nel ventre del mostro e torno alla luce. Dunque sono Giona, e i tre fanciulli di Daniele sono…».

   544.7Sopraggiunge il medico, chiamato da qualcuno. Lo osserva: «È il delirio. Me lo attendevo. La corruzione del sangue accende il cervello». Si sforza a riadagiarlo e raccomanda di tenerlo e torna fuori, ai suoi decotti.
   Lazzaro un poco si inquieta di esser tenuto e un poco piange come un bambino, alternativamente.
   «È proprio in delirio», geme Maria.
   «No. Nessuno capisce nulla. Non sapete credere. Ma già! Non sapete… A quest’ora il Maestro sa che Lazzaro è morente. Sì. L’ho fatto, Maria! L’ho fatto senza dirti nulla…».
   «Ah! sciagurata! Hai distrutto il miracolo!», grida Maria.
   «Ma no! Egli, lo vedi, ha iniziato a migliorare all’ora che Giona ha raggiunto il Maestro. Delira… Certo… È debole e ha ancora il cervello annebbiato dalla morte che già lo teneva. Ma non delira come il medico crede. Sentilo! Sono parole di delirio, queste?».
   Infatti Lazzaro dice: «Ho chinato il capo al decreto di morte e ho gustato quanto sia amaro il morire, ed ecco che Dio si è detto pago della mia rassegnazione e mi rende alla vita e alle sorelle. Potrò ancora servire il Signore e santificarmi insieme a Marta e Maria… A Maria!

   544.8Cosa è Maria? Maria è il dono di Gesù al povero Lazzaro. Me lo aveva detto… Quanto tempo da allora! “Il vostro perdono farà più di tutto. Mi aiuterà”. Me lo aveva promesso: “Ella sarà la tua gioia”. E quel giorno che ero inquieto perché ella aveva portato la sua vergogna qui, presso il Santo, che parole per invitarla al ritorno! La Sapienza e la Carità si erano unite per toccare il cuore a lei… E l’altro, che mi trovò che mi offrivo per lei, per la sua redenzione?… Voglio vivere per godere di lei redenta! Voglio con lei lodare il Signore! Fiumi di lacrime, affronti, vergogna, amarezza… tutto mi ha penetrato e ucciso la vita per causa di lei… Ecco il fuoco, il fuoco della fornace! Ritorna, col ricordo… Maria di Teofilo e di Eucheria, mia sorella, la prostituta. Poteva essere regina e si è fatta fango che anche il porco calpesta. E mia madre che muore. E il non poter più andare fra la gente senza dover sopportare i suoi scherni. Per lei! Dove sei, sciagurata? Ti mancava il pane, forse, per venderti come ti sei venduta? Cosa hai succhiato dal capezzolo della nutrice? Tua madre che ti ha insegnato? Lussuria una? Peccato l’altra? Va’ via! Disonore della nostra casa!». La voce è un urlo. Sembra pazzo.
   Marcella e Noemi si affrettano a chiudere ermeticamente le porte e a ricalare le tende pesanti per attutire le risonanze, mentre il medico, tornato nella stanza, si sforza inutilmente di calmare il delirio che diventa sempre più furioso. Maria, gettata a terra come uno straccio, singhiozza sotto l’inesorabile accusa del morente che prosegue:
   «Uno, due, dieci amanti. L’obbrobrio d’Israele passava da braccia a braccia… Sua madre moriva, essa fremeva nei suoi amori sconci. Belva! Vampiro! Hai succhiato la vita a tua madre. Hai distrutto la nostra gioia. Marta sacrificata per te. Non si sposa la sorella di una meretrice. Io… Ah! io! Lazzaro, cavaliere, figlio di Teofilo… Su me sputavano i monelli di Ofel!! “Ecco il complice di un’adultera e di una immonda”, dicevano scribi e farisei e scuotevano le vesti per significare che respingevano il peccato di cui ero sozzo per il suo contatto! “Ecco il peccatore! Colui che non sa colpire il colpevole è colpevole come lo stesso”, urlavano i rabbi quando salivo al Tempio, ed io sudavo sotto il fuoco delle pupille sacerdotali… Il fuoco. Tu! Tu vomitavi il fuoco che dentro avevi. Perché sei un demonio, Maria. Lurida sei. Sei l’anatema. Il tuo fuoco si apprendeva a tutti, perché il tuo fuoco era di molti fuochi fatto, e ce ne era per i lussuriosi, che parevano pesci presi al tramaglio quando tu passavi… Perché non ti ho uccisa? Brucerò nella Geenna per averti lasciata vivere rovinando tante famiglie, dando scandalo a mille… Chi dice: “Guai a colui per il quale avviene lo scandalo”? Chi lo dice? Ah! il Maestro! Voglio il Maestro! Lo voglio! Perché mi perdoni. Voglio dirgli che non la potevo uccidere perché l’amavo… Maria era il sole della casa nostra… Voglio il Maestro! Perché non è qui? Non voglio vivere! Ma avere perdono dello scandalo che ho dato lasciando vivere lo scandalo. Sono già nelle fiamme. È il fuoco di Maria. Mi ha preso. Tutti prendeva. Per dare lussuria per lei, odio per noi, e bruciare le carni a me. Via queste coperte, via tutto! Sono nel fuoco. Carne e spirito mi ha preso. Sono perduto in causa di lei. Maestro! Maestro! Il tuo perdono! Non viene. Non può venire nella casa di Lazzaro. È un letamaio per causa di lei. Allora… voglio dimenticare. Tutto. Non sono più Lazzaro. Datemi del vino. Lo dice[97] Salomone: “Date del vino a quelli dal cuore straziato, che bevano e dimentichino la loro miseria, e non si ricordino più del loro dolore”. Non voglio più ricordare. Dicono tutti: “Lazzaro è ricco, è l’uomo più ricco di Giudea”. Non è vero! È tutta paglia. Non è oro. E le case? Nuvole. I vigneti, le oasi, i giardini, gli uliveti? Nulla. Inganni. Io sono Giobbe. Non ho più nulla. Avevo una perla. Bella! Di infinito valore. Era il mio orgoglio. Si chiamava Maria. Non l’ho più. Sono povero. Il più povero di tutti. Di tutti il più ingannato… Anche Gesù mi ha ingannato. Perché mi aveva detto che me l’avrebbe resa, e invece essa… Dove è essa? Eccola là. Pare una etera pagana la donna d’Israele, figlia di una santa! Seminuda, ubbriaca, folle… E intorno… cogli occhi fissi sul corpo nudo di mia sorella, la muta dei suoi amanti… E lei ride di essere ammirata e bramata così. Io voglio riparare al mio delitto. Voglio andare per Israele dicendo: “Non andate presso la casa di mia sorella. La sua casa è la via dell’inferno e discende negli abissi della morte”. E poi voglio andare da lei e calpestarla, perché è detto[98]: “Ogni donna impudica sarà calpestata come sterco nella via”. Oh! Hai il coraggio di mostrarti a me che muoio disonorato, distrutto da te? A me che ho offerto la mia vita per riscatto della tua anima, e senza scopo? Come ti volevo, dici? Come ti volevo per non morire così? Ecco come ti volevo: come Susanna, la casta. Dici che ti hanno tentata? E non avevi un fratello a difenderti? Susanna, da sola, rispose[99]: “Meglio è per me cadere nelle vostre mani che peccare nel cospetto del Signore”, e Dio fece rilucere il suo candore. Io le avrei dette le parole contro i tuoi tentatori e ti avrei difesa. Ma tu! Tu te ne sei andata. Giuditta era vedova e viveva nella stanza appartata, col cilicio ai fianchi e in digiuno, ed era in grandissima stima presso tutti perché temeva il Signore, e di lei si canta[100]: “Tu sei gloria di Gerusalemme, letizia d’Israele, onore del nostro popolo, perché hai agito virilmente e il tuo cuore è stato forte, perché hai amato la castità e dopo il tuo matrimonio non hai conosciuto altro uomo. Per questo la mano del Signore ti ha resa forte e sarai benedetta in eterno”. Se Maria fosse stata come Giuditta, il Signore mi avrebbe guarito. Ma non ha potuto per via di lei. Per questo non ho chiesto di guarire. Non può essere miracolo dove lei è. Ma morire, soffrire, nulla è. Dieci e dieci volte di più, e una e una morte, purché ella si salvi. Oh! Altissimo Signore! Tutte le morti! Tutto il dolore! Ma Maria salva! Godere di lei un’ora, un’ora sola! Di lei tornata santa, pura come nella fanciullezza! Un’ora di questa gioia! Gloriarmi di lei, il fiore d’oro della mia casa, la gazzella gentile dai dolci occhi, l’usignolo in sulla sera, l’amorosa colomba… Voglio il Maestro per dirgli che questo voglio: Maria! Maria! Vieni! Maria! Quanto dolore ha tuo fratello, Maria! Ma se tu vieni, se ti redimi, il mio dolore dolce si fa. Cercate Maria!

   544.9Sono in fine! Muoio! Maria! Fate luce! Aria… Io… Soffoco… Oh! che cosa sento!…».
   Il medico fa un gesto e dice: «È la fine. Dopo il delirio, il sopore e poi la morte. Ma può avere un ritorno all’intelligenza. Fatevi accosto. Tu in specie. Ne avrà gioia», e riadagiato Lazzaro, sfinito dopo tanta agitazione, va da Maria, che ha sempre pianto là in terra gemendo: «Fatelo tacere!». La alza e la conduce al letto.
   Lazzaro ha chiuso gli occhi. Ma deve soffrire atrocemente. È tutto un fremito e una contrazione. Il medico cerca di soccorrerlo con delle pozioni… Passano del tempo così.
   Lazzaro apre gli occhi. Pare smemorato di ciò che è stato prima, ma è in sé. Sorride alle sorelle e cerca prendere le loro mani, rispondere ai loro baci. Impallidisce mortalmente. Geme: «Ho freddo…», e batte i denti cercando di coprirsi sino alla bocca. Geme: «Nicomede, non resisto più ai dolori. I lupi mi scarnano le gambe e mi divorano il cuore. Quanto dolore! E se così è l’agonia, che sarà la morte? Come farò? Oh! se avessi qui il Maestro! Perché non me lo avete portato? Sarei morto felice sul suo seno…», piange.
   Marta guarda Maria severamente. Maria comprende quel­l’occhiata e, ancora accasciata dal delirio del fratello, viene presa dal rimorso e curvandosi, inginocchiata come è contro il letto, a baciare la mano del fratello, geme: «Sono io la colpevole. Marta voleva farlo da due giorni già. Io non ho voluto. Perché Egli ci aveva detto di avvisarlo soltanto dopo la tua morte. Perdonami! Tutto il dolore della vita io te l’ho dato… Eppure ti ho amato e ti amo, fratello. Dopo il Maestro, te amo più che tutti, e Dio vede se mento. Dimmi che mi assolvi del passato, dammi pace…».
   «Domina!», richiama il medico. «Il malato non ha bisogno di commozioni».
   «È vero… Dimmi che mi perdoni di averti negato Gesù…».
   «Maria! Per te Gesù è venuto qui… e ci viene per te… perché tu hai saputo amare… più di tutti… Mi hai amato più di tutti… Una vita… di delizie non mi avrebbe… non mi avrebbe dato la… gioia che ho goduto per te… Ti benedico… Ti dico… che bene hai fatto… a ubbidire a Gesù… Non sapevo… So… Dico… è bene…

   544.10Aiutatemi a morire!… Noemi… tu eri capace di… farmi dormire… un tempo… Marta… benedetta… pace mia,… Massimino… con Gesù. Anche… per me… La mia parte… ai poveri,… a Gesù… per i poveri… E perdonate… a tutti… Ah! che spasimi!… Aria!… Luce!… Tutto trema… Avete come una luce intorno a voi e mi abbacina se… vi guardo… Parlate… forte…». Ha messo la sinistra sulla testa di Maria e ha abbandonato la destra nelle mani di Marta. Anela…
   Lo sollevano con precauzione aggiungendo guanciali, e Nicomede gli fa sorbire ancora gocce di pozioni. La povera testa affonda e spenzola in un abbandono mortale. Tutta la vita è nel respiro. Pure apre gli occhi e guarda Maria che gli sorregge il capo, e le sorride dicendo: «La mamma! È tornata… Mamma! Parla! La tua voce… Tu sai… il segreto… di Dio… Ho servito… il Signore?…».
   Maria, con una voce fatta bianca dalla pena, sussurra: «Il Signore ti dice: “Vieni con Me, servo buono e fedele, perché tu hai ascoltato ogni mia parola e amato il Verbo che ho mandato”».
   «Non sento! Più forte!».
   Maria ripete più forte…
   «È proprio la mamma!…», dice soddisfatto Lazzaro e abbandona il capo sulla spalla della sorella…
   Non parla più. Solo gemiti e tremiti di spasimo, solo sudore e rantolo. Insensibile ormai alla terra, agli affetti, sprofonda nel buio sempre più assoluto della morte. Le palpebre calano sugli occhi invetrati, nei quali luccica l’ultima lacrima.
   «Nicomede! Si appesantisce! Raffredda!…», dice Maria.
   «Domina, è un sollievo la morte per lui».
   «Tienilo in vita! Domani è certo qui Gesù. Sarà partito subito. Forse ha preso il cavallo del servo o un’altra cavalcatura», dice Marta. E rivolta alla sorella: «Oh! se tu mi avessi lasciato mandare prima!». Poi al medico: «Fallo vivere!», impone convulsa.
   Il medico allarga le braccia. Prova con dei cordiali. Ma Lazzaro non inghiotte più. Il rantolo cresce… cresce… È straziante…
   «Oh! non si può più sentire!», geme Noemi.
   «Sì. Ha una lunga agonia…», annuisce il medico.
   Ma non ha ancora finito di dirlo che, con una convulsione di tutta la persona che si inarca e poi si abbandona, Lazzaro esala l’ultimo respiro.

   544.11Le sorelle gridano… vedendo quello spasimo, gridano vedendo quell’abbandono. Maria chiama il fratello, baciandolo. Marta si aggrappa al medico che si curva sul morto e che dice: «È spirato. Ormai è troppo tardi per attendere il miracolo. Non c’è più attesa. Troppo tardi!… Io mi ritiro, domine. Non c’è ragione più che io resti. Siate sollecite nei funerali, perché già è decomposto». Abbassa le palpebre sugli occhi del morto e dice ancora, osservandolo: «Sventura! Era un uomo virtuoso e intelligente. Non doveva morire!». Si volge alle sorelle, si inchina, saluta: «Domine! Salve!», e se ne va.
   I pianti empiono la stanza. Maria non ha più forza, ormai, e si rovescia sul corpo del fratello gridando i suoi rimorsi, invocando il suo perdono. Marta piange fra le braccia di Noemi.
   Poi Maria grida: «Non hai avuto fede! Non ubbidienza. Io l’ho ucciso prima, tu ora; io col mio peccare, tu col tuo disubbidire». È come folle. Marta la solleva, la abbraccia, si scusa.
   Massimino, Noemi, Marcella cercano indurre tutte e due alla ragione e alla rassegnazione. E vi pervengono ricordando Gesù… Il dolore diviene più ordinato e, mentre la stanza si affolla di servi piangenti, ed entrano quelli preposti alla preparazione della salma, le due sorelle vengono condotte altrove a piangere il loro dolore.
   Massimino, che le conduce, dice: «È spirato al finire del secondo tempo della notte».
   E Noemi: «Entro domani occorrerà seppellirlo e presto, avanti il tramonto, perché viene il sabato. Avete detto che il Maestro vuole grandi onori…».
   «Sì, Massimino. A te ogni cura. Io sono stolta», dice Marta.
   «Vado a mandare servi ai lontani e vicini, e a dare ogni altro ordine», dice Massimino e si ritira.
   Le due sorelle piangono abbracciate. Non si rimproverano più a vicenda. Piangono. Cercano di confortarsi…

   544.12Passano le ore. Il morto è preparato nella sua stanza. Una lunga forma avvolta in bende sotto il sudario.
   «Perché già così coperto!», esclama Marta rimproverando.
   «Padrona… Puzzava forte dal naso, e nel muoverlo ha gettato sangue corrotto», si scusa un vecchio servo.
   Le sorelle piangono forte. Lazzaro è già più lontano sotto quelle bende… Un altro passo nella lontananza della morte.
   Lo vegliano con lacrime sino all’alba, al ritorno del servo dal­l’Oltre-Giordano. Del servo che resta esterrefatto, ma che riferisce dicendo della corsa veloce fatta per portare la risposta che Gesù viene.
   «Ha detto che viene? Non ha rimproverato?», chiede Marta.
   «No, padrona. Ha detto: “Verrò. Di’ loro che verrò e che abbiano fede”. E prima aveva detto: “Di’ loro che stiano tranquille. Questa non è infermità di morte. Ma è gloria di Dio, affinché la sua potenza sia glorificata nel Figlio suo”».
   «Proprio così ha detto? Ne sei sicuro?», chiede Maria.
   «Padrona, per tutta la strada ho ripetuto le parole!».
   «Vai, vai. Sei stanco. Tu hai fatto tutto bene. Ma è troppo tardi, ormai!…», sospira Marta. E ha uno scoppio clamoroso di pianto non appena resta con la sorella.
   «Marta! Perché?…».
   «Oh! oltre che la morte, la delusione! Maria! Maria! Non rifletti che il Maestro questa volta ha sbagliato? Guarda Lazzaro. È ben morto! Abbiamo sperato oltre il credibile e non è giovato. Quando l’ho mandato a chiamare, avrò certo sbagliato, egli era già più morto che vivo. E la nostra fede non ha avuto frutto e premio. E il Maestro manda a dire che non è infermità di morte! Il Maestro allora non è più la Verità? Non è più… Oh! Tutto! Tutto! Finito tutto!».
   Maria si tormenta le mani. Non sa che dire. La realtà è realtà… Ma non parla. Non dice parola contro il suo Gesù. Piange. Veramente spossata.
   Marta ha come un chiodo fisso in cuore, quello di avere tardato troppo: «È per colpa tua», rimprovera. «Egli voleva provare la nostra fede così. Ubbidire sì. Ma anche disubbidire per fede e dimostrargli che credevamo che Lui solo poteva e doveva fare il miracolo. Povero fratello mio! E lo ha desiderato tanto! Almeno questo: vederlo! Povero Lazzaro nostro! Povero! Pove­ro!». E il pianto si muta in ululo, al quale fanno eco oltre la porta gli ululi delle ancelle e dei servi, secondo la consuetudine orientale…

[96] non sono Giobbe, dopo aver ricordato quanto è detto in: Giobbe 42, 10-17; sono Giona, secondo il racconto di: Giona 2; i tre fanciulli, nel racconto di: Daniele 3.
[97] dice, in: Proverbi 31, 6-7.
[98] è detto, in: Ecclesiastico 9, 10 secondo la volgata (poiché il versetto è stato espunto dal libro del Siracide della neo-volgata).
[99] rispose, come si legge in: Daniele 13, 23.
[100] si canta, in: Giuditta 15, 10-11 della volgata (poiché il testo è stato ridotto e modificato in Giuditta 15, 9-10 della neo-volgata).