MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 546



DXLVI. Il giorno dei funerali di Lazzaro.

   23 dicembre 1946.

   546.1La notizia della morte di Lazzaro deve aver fatto l’effetto di un bastoncino agitato nell’interno di un alveare. Tutta Gerusalemme ne parla. Notabili, mercanti, popolo minuto, poveri, gente della città, delle campagne vicine, forestieri di passaggio ma non affatto nuovi del luogo, stranieri che sono lì per la prima volta e che domandano chi è questo tale la cui morte è cagione di tanto sommovimento, romani, legionari, addetti agli uffici, e leviti e sacerdoti che si radunano e si sciolgono continuamente correndo qua e là… Capannelli di gente che con diverse parole ed espressioni parlano del fatto. E chi loda, chi piange, chi si sente più mendico del solito ora che è morto il benefattore, chi geme: «Non avrò più, mai più un padrone simile a lui», chi enumera i suoi meriti e chi illustra il suo censo e la sua parentela, i servizi e le cariche del padre e la bellezza e ricchezza della madre e la sua nascita «da regina», e chi, purtroppo, rievoca anche pagine famigliari sulle quali sarebbe bello calare un velo, specie quando vi è di mezzo un morto che di esse ha sofferto…

   546.2Le notizie più disparate sulla causa della morte, sul luogo del sepolcro, sull’assenza di Cristo dalla casa del suo grande amico e protettore proprio in quella circostanza, fanno parlare i gruppetti. E le opinioni che prevalgono sono due: una è quella che questo è avvenuto, anzi, è stato prodotto dal cattivo contegno dei giudei, sinedristi, farisei e loro simili verso il Maestro; l’altra, che il Maestro, avendo di fronte una vera malattia mortale, se l’è squagliata perché qui non sarebbero riuscite le sue frodi. Anche senza essere astuti, è facile capire da che fonte viene questa ultima opinione, che invelenisce molti che rimbeccano: «Sei anche tu fariseo? Se lo sei bada a te, perché con noi non si bestemmia il Santo! Maledette vipere partorite dalle iene in connubio col Leviatan! Chi vi paga per bestemmiare il Messia?».
   Battibecchi, insulti, qualche pugno anche, e salati improperi agli impaludati farisei e scribi che passano con aria di dèi, senza degnare di uno sguardo la plebe che vocifera pro e contro loro, pro e contro il Maestro, risuonano per le vie. E accuse! Quante di queste!
   «Costui dice che il Maestro è un falso! È certo uno che ha messo su quel ventre con i denari dati da quei serpenti testé passati».
   «Coi loro denari? Coi nostri, devi dire! Ci spolpano per questi begli scopi! Ma dove è costui, ché lo voglio vedere se è un di quelli che ieri son venuti a dirmi…».
   «È fuggito. Ma, viva Dio! Qui si deve unirsi ed agire. Sono troppo impudenti».
   Altro colloquio: «Ti ho sentito e ti conosco. Dirò a chi di dovere come parli del supremo Tribunale!».
   «Sono del Cristo, e bava di demonio non mi nuoce. Dillo anche ad Anna e Caifa, se vuoi, e ciò giovi a farli più giusti».
   E più là: «A me? A me spergiuro e bestemmiatore perché seguo il Dio vivo? Tu spergiuro e bestemmiatore, che lo offendi e perseguiti. Ti conosco, sai? Ti ho visto e sentito. Spia! Venduto! Correte a prender questo…», e intanto comincia a stampargli in faccia certi schiaffoni che fan diventare rosso il viso ossuto e verdastro di un giudeo.
   «Cornelio, Simeone, guardate! Mi malmenano», dice un altro più là, rivolgendosi ad un gruppo di sinedristi.
   «Sopporta per la fede e non ti insozzare labbra e mani nella vigilia di un sabato», risponde uno dei chiamati senza neppure voltarsi a guardare il malcapitato, sul quale un gruppo di popolani esercitano una rapida giustizia…
   Le donne strillano, richiamando i mariti con suppliche perché non si compromettano.
   I legionari girano in pattuglie, facendo largo a suon di colpi d’asta e minacciando arresti e punizioni.
   La morte di Lazzaro, il fatto principale, è lo spunto per passare a fatti secondari, sfogo alla lunga tensione che è nei cuori… I sinedristi, gli anziani, gli scribi, i sadducei, i giudei potenti, passano indifferenti, sornioni, come se tutto quell’esplodere di piccole ire, di vendette personali, di nervosismo, non avesse radice in loro. E più passano le ore e più il ribollire cresce e i cuori si accendono.
   «Dicono questi, sentite un po’, che il Cristo non può guarire i malati. Io ero lebbroso e ora sono sano. Li conoscete voi costoro? Io non sono di Gerusalemme, ma mai li ho visti fra i discepoli del Cristo da due anni a questa parte».
   «Costoro? Fammi vedere quel di mezzo! Ah! ribaldo ladrone! Questo è quello che alla passata luna mi è venuto a offrir denaro in nome del Cristo, dicendo che Egli assolda uomini per impadronirsi della Palestina. E ora dice… Ma perché lo hai lasciato scappare?».
   «Capito, eh! Che malandrini! E per poco io ci cadevo! Aveva ragione mio suocero!

   546.3Ecco là Giuseppe l’Anziano, con Giovanni e Giosuè. Andiamo a chieder loro se è vero che il Maestro vuol farsi degli eserciti. Essi sono giusti e sanno». Corrono in massa verso i tre sinedristi ed espongono la loro domanda.
   «Andate a casa, uomini. Per le vie si pecca e ci si nuoce. Non questionate. Non allarmatevi. Badate ai vostri affari e alle vostre famiglie. Non ascoltate gli agitatori di illusi e non fatevi illudere. Il Maestro è un maestro, non un guerriero. Voi lo conoscete. E ciò che pensa dice. Non vi avrebbe mandato altri a dirvi di seguirlo come guerrieri, se Egli vi avesse voluti tali. Non nuocete a Lui, a voi e alla nostra Patria. A casa, uomini! A casa! Non fate di ciò che è già una sventura, la morte di un giusto, un seguito di sventure. Tornate alle case e pregate per Lazzaro, a tutti benefico», dice il d’Arimatea, che deve essere molto amato e ascoltato dal popolo che lo conosce giusto.
   Anche Giovanni (quello che era geloso[102]) dice: «Egli è uomo di pace, non di guerra. Non ascoltate i falsi discepoli. Ricordate come erano diversi gli altri che si dicevano Messia. Ricordate, confrontate, e la vostra giustizia vi dirà che quelle insinuazioni alla violenza non possono venire da Lui! A casa! A casa! Dalle donne che piangono e dai bambini impauriti. È detto: “Guai ai violenti e a quelli che favoriscono le risse”».
   Un gruppo di donne si accosta in lacrime ai tre sinedristi e una dice: «Gli scribi hanno minacciato il mio uomo. Ho paura! Giuseppe, parla tu ad essi».
   «Lo farò. Ma che tuo marito sappia tacere. Credete di giovare al Maestro con queste agitazioni e di fare onore al morto? Vi sbagliate. Nuocete all’Uno e all’altro», risponde Giuseppe

   546.4e le lascia per andare incontro a Nicodemo che, seguito dai servi, viene da una via: «Non speravo vederti, Nicodemo. Io stesso non so come ho potuto. Il servo di Lazzaro è venuto, finito il gallicinio, a dirmi la sciagura».
   «E a me più tardi. Sono subito partito. Sai se a Betania c’è il Maestro?».
   «No. Non c’è. Il mio intendente di Bezeta fu là all’ora di terza e mi disse che non c’è».
   «Io non capisco come… A tutti il miracolo e non a lui!», esclama Giovanni.
   «Forse perché alla casa ha già dato più che una guarigione: ha redento Maria e reso pace e onore…», dice Giuseppe.
   «Pace e onore! Dei buoni ai buoni. Perché molti… non hanno reso e non rendono onore neppur ora che Maria… Voi non sapete… Tre dì da oggi furono là Elchia e molti altri… e non fecero onore. E Maria li scacciò. Me lo dissero furenti, ed io ho lasciato dire per non scoprire il mio cuore…», dice Giosuè.
   «E ora vanno ai funerali?», chiede Nicodemo.
   «Ebbero l’avviso e si adunarono a discutere al Tempio. Oh! i servi ebbero molto da correre questa mattina all’aurora!».
   «Perché così affrettato il funerale? Subito dopo sesta!…».
   «Perché Lazzaro era corrotto già quando morì. Mi disse il mio intendente che, nonostante le resine che ardono per le stanze e gli aromi profusi sul morto, il puzzo del cadavere si sente sino dal portico della casa. E poi al tramonto si inizia il sabato. Non era possibile fare diversamente».

   546.5«E dici che si adunarono al Tempio? Perché?».
   «Ecco… veramente era già indetta l’adunanza per discutere su Lazzaro. Vogliono dire che fosse lebbroso…», dice Giosuè.
   «Questo no. Egli per primo si sarebbe isolato secondo la legge», difende Giuseppe. E aggiunge: «Ho parlato col loro medico. Egli me lo ha assolutamente escluso. Era malato di una consunzione putrida».
   «E allora di che hanno discusso, posto che Lazzaro era già morto?», chiede Nicodemo.
   «Sull’andare o meno ai funerali dopo che Maria li ha cacciati. Chi voleva sì e chi no. Ma chi voleva andare erano i più e per tre motivi. Vedere se c’è il Maestro, prima ragione e comune a tutti. Vedere se fa il miracolo, seconda ragione. Terza, il ricordo di recenti parole del Maestro agli scribi presso il Giordano in quel di Gerico», spiega ancora Giosuè.
   «Il miracolo! Quale, se ormai è morto?», chiede con un’alzata di spalle Giovanni e termina: «I soliti sempre!… Cercatori del­l’impossibile!».
   «Il Maestro ha risuscitato altri morti», osserva Giuseppe.
   «È vero. Ma se avesse voluto tenerlo vivo non lo avrebbe lasciato morire. La tua ragione di prima è giusta. Essi hanno già avuto».
   «Sì. Ma Uziel si è ricordato, e con lui Sadoc, di una sfida avuta molte lune or sono. Il Cristo ha detto che darà la prova di saper ricomporre anche un corpo disfatto. E Lazzaro è tale. E ancor dice Sadoc lo scriba che, presso il Giordano, il Rabbi, di suo, gli ha detto che alla nuova luna vedrebbe compiersi metà della sfida. Questa: di uno disfatto che rivive, e senza più sfacimento e malattia. E hanno vinto loro. Se ciò avviene, certo è perché c’è il Maestro. E, anche, se ciò avviene non c’è più dubbio su di Lui».
   «Purché ciò non sia male…», mormora Giuseppe.
   «Male? Perché? Gli scribi e farisei si persuaderanno…».
   «O Giovanni! Ma sei uno straniero per poter dire questo? Non conosci i tuoi concittadini? Quando mai la verità li ha fatti santi? Non ti dice nulla il fatto che nella mia casa non sia stato portato l’invito all’adunanza?».
   «Neppure nella mia fu portato. Dubitano di noi e ci lasciano fuori sovente», dice Nicodemo. E chiede: «C’era Gamaliele?».
   «Suo figlio. E lui verrà anche per il padre, che è sofferente a Gamala di Giudea».
   «E che diceva Simeone?».
   «Nulla. Nulla affatto. Ha ascoltato. Se ne è andato. Poco fa è passato con dei discepoli del padre suo, diretto a Betania».
   Sono quasi alla porta che apre sulla via di Betania. E Giovanni esclama: «Guarda! È presidiata. Perché mai? E fermano chi esce».
   «C’è agitazione in città…».
   «Oh! Non è poi delle più forti…».

   546.6Giungono alla porta e sono fermati come tutti gli altri.
   «La ragione di questo, o milite? Io sono noto a tutta l’Antonia, né di me potete dire male. Vi rispetto e rispetto le vostre leggi», dice Giuseppe d’Arimatea.
   «Ordine del Centurione. Il Preside sta per entrare in città e vogliamo sapere chi esce dalle porte, e specie da questa che dà sulla via di Gerico. Ti conosciamo. Ma conosciamo anche il vostro umore per noi. Tu e i tuoi passate. E se avete voce sul popolo dite che è bene per esso stare calmo. Ponzio non ama mutar le sue abitudini per dei sudditi che adombrano… e potrebbe esser severo troppo. Un consiglio leale a te, che leale sei».
   Passano…
   «Sentito? Prevedo giorni pesanti… Bisognerà consigliare gli altri, più che il popolo…», dice Giuseppe.

   546.7La via per Betania è affollata di gente che va tutta in una direzione: a Betania. Tutta gente che va ai funerali. Si vedono sinedristi e farisei mescolati a sadducei e scribi, e questi ai contadini, servi, intendenti delle diverse case e poderi che Lazzaro ha in città e nelle campagne; e più ci si avvicina a Betania, più da tutti i sentieri e le vie altra gente sbocca in questa che è la principale.
   Ecco Betania. Betania in lutto intorno al suo più grande cittadino. Tutti gli abitanti, con le vesti migliori, sono già fuori delle case che sono serrate come nessuno fosse in esse. Ma ancora non sono nella casa del morto. La curiosità li trattiene presso il cancello, lungo la via. Osservano chi passa degli invitati e si scambiano nomi e impressioni.
   «Ecco Natanael Ben Faba. Oh! il vecchio Matatia parente di Giacobbe! Il figlio di Anna! Guardalo là con Doras, Callascebona e Archelao. Uh! come hanno fatto a venire quelli di Galilea? Ci sono tutti. Guarda: Eli, Giocana, Ismael, Uria, Gioachino, Elia, Giuseppe… Il vecchio Canania con Sadoc, Zaccaria e Giocana sadducei. C’è anche Simeone di Gamaliele. Solo. Il rabbi non c’è. Ecco Elchia con Nahum, Felice, Anna lo scriba, Zaccaria, Gionata di Uziel! Saul con Eleazaro, Trifone e Joazar. Buoni questi! Un altro dei figli di Anna. Il più piccolo. Parla con Simone Camit. Filippo con Giovanni l’Antipatride. Alessandro, Isacco, e Giona di Babaon. Sadoc. Giuda, discendente degli Assidei, l’ultimo, credo, della classe. Ecco gli intendenti dei diversi palazzi. Non vedo gli amici fedeli. Quanta gente!».
   Davvero! Quanta gente! Tutta sussiegata, parte con un viso di circostanza o con i segni del vero dolore sul volto. Il cancello spalancato inghiotte tutti, e vedo passare tutti quelli che in successive riprese ho visto benevoli o nemici intorno al Maestro. Tutti, meno Gamaliele e meno il sinedrista Simone. E vedo altri ancora che non ho mai visto, o che avrò visto senza saperne il nome, nelle dispute intorno a Gesù… Passano rabbi coi loro discepoli, e scribi a gruppi serrati. Passano giudei dei quali sento enumerare le ricchezze… Il giardino è pieno di gente che, dopo essere andata a dire parole di condoglianza alle sorelle — che, sarà l’usanza, forse, sono sedute sotto il portico, e perciò fuori della casa — tornano a spargersi per il giardino in un continuo confondersi di colori e in un continuo sprofondarsi in saluti.
   Marta e Maria sono disfatte. Si tengono per mano come due bambine, spaurite del vuoto che si è fatto nella loro casa, del nulla che empie la loro giornata ora che non c’è più da curare Lazzaro. Ascoltano le parole dei visitatori, piangono coi veri amici, coi dipendenti fedeli, si inchinano ai gelidi, imponenti, rigidi sinedristi venuti più per mettersi in mostra che per onorare il defunto, rispondono, stanche di ripetere le stesse cose centinaia di volte, a chi le interroga sugli ultimi momenti di Lazzaro.
   Giuseppe, Nicodemo, gli amici più fidi, si mettono al loro fianco con poche parole, ma con una amicizia che conforta più di ogni parola.

   546.8Torna Elchia coi più intransigenti, coi quali ha parlato a lungo, e chiede: «Non potremmo osservare il morto?».
   Marta si passa con pena la mano sulla fronte e chiede: «Quando mai ciò si fa in Israele? Già è preparato…», e lacrime lente le scendono dagli occhi.
   «Non si usa, è vero. Ma noi lo desideriamo. Gli amici più fedeli hanno ben diritto di vedere un’ultima volta l’amico».
   «Anche noi sorelle avremmo avuto questo diritto. Ma fu necessità imbalsamarlo subito… E, tornate che fummo nella stanza di Lazzaro, non vedemmo più che la forma fra le fa­sce…».
   «Dovevate dare ordini chiari. Non potevate e non potreste levare il sudario al volto?».
   «Oh! è corrotto già… E l’ora dei funerali è venuta».
   Giuseppe interloquisce: «Elchia, mi sembra che noi… per eccesso di amore, procuriamo pena. Lasciamo in pace le sorelle…».
   Si avanza Simeone figlio di Gamaliele a impedire la risposta di Elchia: «Mio padre verrà appena che possa. Io lo rappresento. Egli apprezzava Lazzaro. Ed io con lui».
   Marta si inchina rispondendo: «L’onore del rabbi al fratello nostro sia compensato da Dio».
   Elchia, essendo lì il figlio di Gamaliele, si scosta senza insistere oltre e discute con altri, che gli fanno osservare: «Ma non senti il fetore? Vuoi dubitarlo? Del resto vedremo se murano il sepolcro. Non si vive senz’aria».
   Un altro gruppo di farisei si avvicina alle sorelle. Sono quasi tutti quelli di Galilea. Marta, ricevute le loro attestazioni, non si può trattenere dal dire il suo stupore per la loro presenza.
   «Donna, il Sinedrio siede in deliberazioni di somma importanza e noi siamo nella città per questo», spiega Simone di Cafarnao, e guarda Maria della quale certo ricorda la conversione. Ma si limita a guardarla.

   546.9Ecco farsi avanti Giocana, Doras figlio di Doras e Ismael con Canania e Sadoc, e altri che non so chi siano. Parlano, già prima di parlare, coi loro volti viperini. Ma aspettano che Giuseppe si allontani con Nicodemo per parlare a tre giudei, per poter ferire. È il vecchio Canania che, con la sua voce chioccia di vecchio cadente, dà la pugnalata.
   «Che ne dici, Maria? Il vostro Maestro è l’unico assente dei molti amici di tuo fratello. Singolare amicizia! Tanto amore finché Lazzaro stava bene! E indifferenza quando era l’ora di amarlo! Tutti hanno miracoli da Lui. Ma qui non c’è miracolo. Che ne dici, donna, di simile cosa? Ti ha ingannata molto, molto il bel Rabbi galileo, eh! eh! Non dicesti che ti aveva detto di sperare oltre lo sperabile? Non hai dunque sperato, o non giova sperare in Lui? Speravi nella Vita, hai detto. Già! Egli si dice “la Vita”, eh! eh! Ma là dentro è tuo fratello morto. E là è aperta già la bocca del sepolcro. E il Rabbi non c’è. Eh! Eh!».
   «Egli sa dare la morte, non la vita», dice con un ghigno Doras.
   Marta china il volto fra le mani e piange. La realtà è ben questa. La sua speranza è ben delusa. Il Rabbi non c’è. Non è neppur venuto a confortarle. Eppure avrebbe potuto essere là, ormai. Marta piange. Non sa più che piangere.
   Anche Maria piange. Anche essa ha la realtà davanti. Ha creduto, ha sperato oltre il credibile… ma nulla è accaduto, e i servi già hanno levato la pietra alla bocca del sepolcro perché si inizia la discesa del sole, e il sole scende presto in inverno, ed è venerdì, e tutto deve esser fatto in tempo e in modo che gli ospiti non abbiano a trasgredire alle leggi del sabato che fra poco ha inizio. Ha sperato tanto, sempre, troppo sperato. Ha consumato le sue capacità in questa speranza. Ed è delusa.
   Canania insiste: «Non mi rispondi? Ti persuadi adesso che Egli è un impostore che vi ha sfruttate e schernite? Povere donne!», e scrolla il capo fra i suoi simili, che lo imitano dicendo essi pure: «Povere donne!».

   546.10Massimino si accosta: «È l’ora. Date l’ordine. Tocca a voi».
   Marta si accascia al suolo e, soccorsa, viene portata via a braccia fra l’ululo dei servi, che comprendono essere venuta l’ora della deposizione nel sepolcro e intonano i lamenti.
   Maria stringe le mani, convulsa. Supplica: «Ancora un poco! Ancora un poco! E mandate servi sulla via verso Ensemes e la fontana, su ogni via. Servi a cavallo. Che vedano se viene…».
   «Ma speri ancora, o infelice? Ma che ci vuole a persuaderti che Egli vi ha tradite e illuse? Odiate vi ha, e schernite…».
   È troppo! Col volto lavato dal pianto, torturata eppur fedele, nel semicerchio di tutti gli ospiti che si sono radunati per veder uscire la salma, Maria proclama: «Se Gesù di Nazaret così ha fatto, bene è, ed è grande amore il suo per noi tutti di Betania. Tutto a gloria di Dio e sua! Egli lo ha detto che da questo verrà gloria al Signore, perché la potenza del suo Verbo splenderà completa. Eseguisci, Massimo. Il sepolcro non è ostacolo al potere di Dio…».
   Si scosta, sorretta da Noemi che è accorsa, e fa un cenno… La salma, nelle sue fasce, esce dalla casa, traversa il giardino fra due ali di gente, fra l’urlio del cordoglio. Maria vorrebbe seguirla, ma vacilla. Si accoda quando già tutti sono verso il sepolcro. E giunge in tempo per vedere scomparire la lunga forma immota nell’interno buio del sepolcro, nel quale rosseggiano le torce tenute alte dai servi per illuminare la scala a quelli che scendono col morto. Perché il sepolcro di Lazzaro è piuttosto interrato, forse per fruire di strati di roccia sotterranea.
   Maria grida… È allo strazio… Grida… E col nome del fratello è quello di Gesù. Pare le strappino il cuore. Ma non dice che quei due nomi, e li ripete sinché il pesante rumore della chiusura rimessa alla bocca della tomba non le dice che Lazzaro non è più sulla terra neppure col corpo. Allora cede e perde la conoscenza di tutto. Si abbatte su chi la sostiene e sospira ancora, mentre sprofonda nel nulla dello svenimento: «Gesù! Gesù!». Viene portata via.

   546.11Resta Massimino a licenziare gli ospiti e a ringraziarli per tutta la parentela. Resta per sentirsi dire da tutti che torneranno per il cordoglio ogni giorno…
   Sfollano lentamente. Gli ultimi a partire sono Giuseppe, Nicodemo, Eleazaro, Giovanni, Gioacchino, Giosuè. E sul cancello trovano Sadoc con Uriel che ridono, cattivi, dicendo: «La sua sfida! E l’abbiamo temuta!».
   «Oh! è ben morto. Come puzzava nonostante gli aromi! Non c’è dubbio, no! Non necessitava levare il sudario. Io credo che sia già verminoso». Sono felici.
   Giuseppe li guarda. Uno sguardo così severo che tronca parole e risate. Tutti si affrettano al ritorno per essere in città avanti la fine del tramonto.

[102] quello che era geloso, come è narrato nel capitolo 409.