MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 532



DXXXII. Preparativi per le Encenie. Una prostituta mandata a tentare Gesù, che lascia Nobe.

   21 novembre 1946.

   532.1I popoli presi come massa, gli uomini presi singolarmente, sono sempre un poco bambini e un poco selvaggi, o almeno primitivi, sensibilissimi perciò ad ogni cosa che abbia sapore di novità, di cosa straordinaria, e dia suono di festa. L’avvicinarsi delle solennità ha sempre potere di esaltare gli uomini, quasiché la festività annullasse ciò che li fa tristi e stanchi. Al primo avvicinarsi di una festa, un che di brioso, di lievemente esaltato, colpisce tutti, quasiché quell’avvicinarsi sia simile al tam-tam dei selvaggi nelle loro sagre idolatre o nelle loro imprese bellicose.
   Ed anche gli apostoli, nella prossimità delle Encenie, sono in questo stato in euforia. Verbosi, allegri, si danno a fare progetti, a ricordare feste passate; qualche nostalgia riga di malinconia il discorso, ma poi l’aria di festa li riprende e li spinge a fare, perché tutto sia bello durante la festività.
   I lumi in casa di Giovanni sono pochi? Oh! la casa di Toma a Rama ne è piena! E Tommaso parte per Rama a prendere i lumi. L’olio non è abbondante? Oh! Elisa ha molto olio a Betsur e lo offre. E Andrea e Giovanni vanno a Betsur a prendere l’olio. Per cuocere le focacce ci vuole dolce fuoco di stipa? Ecco che i due Giacomi vanno per i monti a prenderne. Pare scarsa la farina e l’orzo e il miele per i piatti di rito? E che ci sta a fare a Gerusalemme Niche, che si è quasi offesa perché non la richiedono mai di nulla, se non per dare del suo biondissimo miele e orzo e farina del suo bel podere? E Pietro e Simone Zelote vanno da Niche[76], mentre Giuda d’Alfeo aiuta Elisa a far bella la casa, e persino il vecchio Bartolomeo si unisce alla comune allegria e insieme a Filippo nel dare una bella mano di calcina alla cucina affumicata perché sia più allegra. Giuda Iscariota si riserva la parte decorativa e torna sempre carico di rami sempreverdi, odorosi e ornati di bacche, e li sistema con garbo sulle mensole e intorno alla cappa del focolare.
   E la vigilia delle Encenie la casetta sembra preparata per accogliere una sposa, tanto è mutata nelle stoviglie di rame splendenti, nelle lampade rese lucide come soli, nelle frasche allegre sulle pareti bianche, mentre odore di pane e di focacce si sparge per l’aria già fatta odorosa dai rami recisi.
   Gesù lascia fare. Pare così lontano da tutti, molto pensieroso, anche triste. Risponde a chi lo interroga chiedendo, con la domanda che fa, un encomio per ciò che ha fatto. E sono queste domande che mi danno modo di ricostruire i lavori fatti dai discepoli, i quali col loro: «Non ho avuto un buon pensiero io ad andare a casa a prendere i lumi?», o: «Abbiamo fatto bene io e Filippo ad imbiancare tutto? È chiaro e allegro. Sembra più grande», o anche: «Vedi, Maestro? Elisa è contenta. Le sembra di essere nella sua casa e al tempo dei figli. Oggi cantava mettendo il suo olio nei lumi e poi impastando il suo miele nella farina e sciogliendolo nel latte per l’orzo», e anche: «Dica quel che vuole Elchia. Ma un po’ di verde sta bene. In fondo!… Se il Creatore ha fatto le frasche, è perché le usiamo, non è vero?», lasciano ricostruire il lavoro fatto da ognuno. Ma, se anche risponde a queste domande che sottintendono un desiderio di lode, il suo pensiero è assente. E lo si vede.

   532.2Cala la sera. Dopo gli ultimi saluti dei cittadini, che prima di chiudersi nelle case mettono dentro il capo nella cucina per salutare il Maestro, il silenzio si stabilisce in Nobe. È l’ora delle cene. È già l’ora del riposo per i bambini e per i vecchi, per tutti coloro che malattia o età fa delicati.
   Deve esserci l’uso di fare dei regali per le Encenie, perché vedo che, appena il vecchio Giovanni si è ritirato nella sua stanzetta presso la cucina, Elisa e gli apostoli si danno a finire l’una una veste, gli altri degli oggetti utili intagliati nel legno e una tenda a rete con cordicelle tinte di rosso, verde, giallo e indaco, fatica speciale dei pescatori. Tommaso, Matteo, Bartolomeo e lo Zelote li stanno a guardare.
   «Ecco. Ho finito», dice Elisa alzandosi e scuotendo la veste dalle filacce che poteva avere.
   «Ci starà caldo, povero vecchio! Eh! noi uomini senza le donne siamo proprio infelici. Non so senza di te come saremmo ridotti, dopo mesi di assenza da casa. Io sono capace di far questo, ma se mi devo attaccare un fermaglio!…», dice Pietro palpando la stoffa.
   «Sei stata svelta, anche. Sembri mia moglie», dice Bartolomeo.
   «Anche io ho finito. Era buono questo legno. Morbido all’incisione e resistente insieme», dice Giuda Taddeo deponendo un bossolo, buono per il sale o qualche spezie, sulla tavola scura.
   «Il mio invece è ancora indietro. C’è qui una vena dura che non vuole lasciarsi lavorare. Forse non mi riuscirà il lavoro. Mi spiace. Il bello era in queste vene scure sul legno più chiaro. Guarda, Gesù. Non sembrano creste di monti dipinte sul legno?», dice Giacomo d’Alfeo mostrando una specie di vaso che non so a quale uso possa venire destinato, veramente bello per forma, coperto di un coperchio a cupola e venato graziosamente sia sulla pancia che sul coperchio. Ma è proprio sul coperchio, presso il pomolo di presa, che il legno resiste caparbio.
   «Insisti, insisti; vedrai che riesci. Scalda il ferro sino al rosso. Intaccherai la fibra e riuscirai. Rotto il primo strato…», risponde Gesù che ha osservato.
   «Ma non si rovina col fuoco?», domanda Matteo.
   «No, se usato con capacità. E del resto! O questo mezzo, o gettare tutto».
   Giacomo arroventa il punteruolo tagliente, poi accosta la punta rossa al punto caparbio. Odor di legno che brucia…
   «Basta! Adesso lavora e riuscirai», dice Gesù. E aiuta il cugino tenendo stretto il coperchio come in una morsa.
   Due volte la lama scivola e sfiora le dita di Gesù. «Leva la mano, fratello. Non ti vorrei ferire…», dice Giacomo d’Alfeo. Ma Gesù continua a tenere il vaso. La terza volta il tagliente scalpello fa sanguinare il pollice di Gesù.
   «Ecco! Vedi? Ti sei fatto male! Fammi vedere!».
   «Non è nulla. Due gocce di sangue…», risponde Gesù scuotendo il suo dito perché caschi il sangue che goccia dal taglio. «Asciuga piuttosto il coperchio. È rimasto macchiato», aggiunge poi.
   «No. Lasciatelo! È prezioso così. Asciuga qui il tuo dito, Maestro. Qui nel mio velo. Sangue tuo, sangue benedetto», dice Elisa avvolgendo la mano nel lino del suo velo.
   Il coperchio, causa di tanti guai, è vinto. La rigatura si è compiuta.
   «Voleva prima far del male», commenta lo Zelote.
   «Già! E dopo si è persuaso. Legno caparbio!», dice Tommaso.
   «Col ferro, col fuoco e col dolore. Sembra una di quelle frasi care ai romani», osserva Simone Zelote.
   «A me, non so perché, fa ricordare i profeti in certi punti. Anche noi siamo legno caparbio… e ci vorrà ferro, fuoco e dolore per farci buoni?», chiede Bartolomeo.
   «In verità questo ci vorrà. E non servirà ancora. Io lavoro col fuoco e col mio dolore, ma non tutti i cuori sanno imitare quel legno…

   532.3Silenzio! Fuori è qualcuno… C’è un fruscio di passi…».
   Ascoltano. Non si sente nulla.
   «Forse il vento, Maestro. Ci sono foglie secche nell’orto…».
   «No. Erano passi…».
   «Qualche animale notturno. Io non sento nulla».
   «Neppure io, neppure io…».
   Gesù ascolta. Pare ascoltare. Poi alza il volto e fissa Giuda di Keriot che è lui pure in ascolto, molto in ascolto. Più degli altri. Lo guarda così fissamente che Giuda chiede: «Perché mi guardi così, Maestro?».
   Ma non c’è risposta, perché una mano bussa alla porta. Dei quattordici volti che la lampada rischiara, solo quello di Gesù resta qual era. Gli altri cambiano colore.
   «Aprite! Apri, Giuda di Keriot!».
   «Io no, che non apro! Potrebbero essere dei malvagi venuti apposta nella notte. Non sia che io ti nuoccia!».
   «Apri tu, Simone di Giona».
   «Men che mai! Io getto la tavola contro l’uscio, piuttosto!», dice Pietro e sta per eseguire.
   «Apri, Giovanni, e non temere».
   «Oh! se proprio vuoi far entrare, io me ne vado di là dal vecchio. Non voglio vedere nulla io», dice l’Iscariota facendo in quattro lunghi passi il percorso che lo separa dalla porta della stanza del vecchio e scomparendo in essa.
   Giovanni, ritto presso la porta, la mano già sulla chiave, guarda sgomento Gesù e mormora: «Signore!…».
   «Apri e non temere».
   «Ma sì. Infine siamo tredici uomini forti. Non saranno già un esercito! Con quattro pugni e molti strilli — tu grida, Elisa, se è il caso — li metteremo in fuga. Non siamo in un deserto!», dice Giacomo di Zebedeo e si sfila la veste e rimbocca le maniche della tunica o sottoveste, pronto alla difesa. Pietro lo imita.

   532.4Giovanni, ancor titubante, apre la porta, guarda dallo spiraglio. Non vede nulla. Grida: «Chi è che disturba?».
   Una voce femminile risponde sommessa, come sofferente: «Una donna. Voglio il Maestro».
   «Non è questa l’ora di venire alle case. Se sei malata, come giri a queste ore? Se sei lebbrosa, come ti avventuri in un paese? Se sei addolorata, torna domani. Va’, va’ per i tuoi fatti», dice Pietro che si era messo dietro le spalle di Giovanni.
   «Oh! per pietà! Sono sola per la via. Ho freddo. Ho fame. E sono infelice. Chiamatemi il Maestro. Egli ha pietà…».
   Gli apostoli guardano Gesù, interdetti. Gesù è severo molto e tace. Rinchiudono la porta.
   «Che si fa, Maestro? Darle almeno un po’ di pane? Posto non ce n’è. Andare nelle case con una sconosciuta…», interpella Filippo.
   «Aspetta. Vado io a vedere», dice Bartolomeo e afferra il lume per farsi luce.
   «Non occorre che tu vada. La donna non ha né freddo né fame e sa benissimo dove andare. Non ha paura della notte. Ma è un’infelice, pur non essendo né malata né lebbrosa. È una prostituta. E viene a tentarmi. Tanto vi dico perché sappiate che so, perché vi persuadiate che so. E ancora vi dico che essa non è che venga per capriccio proprio, ma viene perché è pagata per venire». Gesù parla forte, tanto da potere essere sentito nella stanza accanto, dove è Giuda.
   «E chi vuoi che abbia fatto questo? A che scopo?», dice lo stesso Iscariota riapparendo nella cucina. «I farisei no di certo, gli scribi neppure, e neppure i sacerdoti, se è una prostituta. Né credo che gli erodiani siano così… astiosi da darsi certe brighe per… Non so neppur io perché».
   «Il perché te lo dico Io. Per poter giungere a dire che sono un peccatore, uno che ha rapporti con le peccatrici pubbliche. E tu lo sai quanto Me che così è. E ti dico anche che non maledico né lei né chi l’ha mandata. Sono ancora e sempre la Misericordia. E vado da lei. Se credi venire con Me, vieni pure. Vado da lei perché è realmente un’infelice. Dice di esserlo credendo di dire menzogna, perché è giovane, bella e ben pagata, sana e contenta della sua infame vita. Ma lo è, infelice. È l’unica verità che dice fra le tante menzogne. Vai avanti di Me e assisti al colloquio».
   «Io no, che non ci assisto! Perché dovrei farlo?».
   «Per testimoniare a chi ti interroga».
   «E chi vuoi che mi interroghi? Fra noi non c’è da fare domande, e gli altri… Non vedo nessuno, io».
   «Ubbidisci. Va’ avanti».
   «No. Non voglio ubbidire in questo, e non mi puoi obbligare ad avvicinare una meretrice».
   «Euh! Cosa sei? Il Sommo Sacerdote? Vengo io, Maestro, e senza paura che mi si attacchi nulla», dice Pietro.
   «No. Vado solo. Apri».

   532.5Gesù esce nell’orto. Nel nero assoluto della notte ancora illune non si vede nulla.
   La porta della cucina si riapre e Pietro viene fuori con un lume. «Prendi almeno questo, Maestro, se proprio non mi vuoi», dice forte. E poi sottovoce: «Guarda, però, che siamo dietro all’uscio. Se hai bisogno, chiama…».
   «Sì. Va’. E non questionate fra voi».
   Gesù prende il lume e lo alza per vedere. Dietro al grosso tronco del noce è una forma umana. Gesù fa due passi verso di lei, ordinando: «Seguimi». E va a mettersi sulla panchetta di sasso messa contro la casa, dal lato d’oriente.
   La donna viene avanti, tutta velata e curva. Gesù depone il lume sul sasso, vicino a Lui.
   «Parla». Ordina così austero, rigido, così Dio, che la donna, in luogo di farsi avanti e di parlare, arretra e si curva più ancora, tacendo. «Parla, ti dico. Mi volevi. Sono venuto. Parla», dice con una sfumatura di dolcezza nella voce.
   Silenzio.
   «Allora parlo Io. Ti chiedo: perché mi odi tanto da servire a chi vuole la mia rovina e la sogna in tutti i modi e ne cerca tutte le possibili cause? Rispondi. Che ti ho fatto di male, o disgraziata? Che ti ha fatto di male l’Uomo che non ti ha neppure in cuor suo schernita per la vita infame che tu conduci? Che ti ha corrotto l’Uomo, che neppure nel suo cuore ti ha desiderata, perché tu lo debba odiare di più di quelli che ti hanno prostituita e che ti vilipendono ogni volta che vengono a te? Rispondi! Cosa ti ha fatto Gesù di Nazaret, il Figlio dell’uomo, che tu appena conosci di vista per averlo incontrato per le vie cittadine, Gesù che ignora il tuo volto, e che delle tue grazie non si cura perché solo della tua anima ricerca l’insozzata, la deturpata effigie, per conoscerla e per guarirla? Parla, dunque!

   532.6Non sai chi sono? Sì, in parte lo sai. Anzi per due parti lo sai. Sai che sono uomo giovane e che la mia persona ti piace. Questo te l’ha detto la tua animalità sfrenata. E la tua lingua di ebbra lo ha detto a chi ha raccolto la confessione del tuo senso e se ne è fatto arma per nuocermi. Sai che sono Gesù di Nazaret, il Cristo. Questo te lo hanno detto coloro che, sfruttando il tuo desiderio carnale, ti hanno pagata perché tu venissi qui a tentarmi. Ti hanno detto: “Egli si dice il Cristo. Le folle lo dicono il Santo, il Messia. Non è che un impostore. Abbiamo bisogno di avere le prove della sua miseria d’uomo. Dàccele, e ti copriremo d’oro”. E perché tu, con un resto di giustizia, l’ultima briciola del tesoro di giustizia che Dio ti aveva messo nella carne con l’anima, e che tu hai frantumata e dispersa, non volevi farmi del male — perché, a tuo modo, mi amavi — essi ti hanno detto: “Non gli faremo del male. Anzi! Te lo abbandoniamo, l’uomo, dandoti mezzi per farlo vivere da re al tuo fianco. Ci basta di poter dire a noi stessi, per mettere in pace la nostra coscienza, che Egli è un semplice uomo. Una prova che noi siamo nel giusto non credendolo Messia”. Così ti hanno detto. E tu sei venuta. Ma, se Io aderissi alla tua lusinga, sarebbe l’inferno su Me. Essi sono pronti già a coprirmi di fango e a catturarmi. E tu sei lo strumento per fare questo.
   Vedi che Io non ti interrogo. Io parlo perché so senza bisogno di chiedere. Ma se sai queste due cose, la terza non la sai. Tu non sai chi sono, oltre che uomo e Gesù. Tu vedi l’uomo. Gli altri ti dicono: “È il Nazareno”. Ma Io ti dico chi sono. Io sono il Redentore. Per redimere devo essere senza peccato. La mia possibile sensualità di uomo, guarda come Io l’ho calpestata. Così, come faccio con questo schifoso bruco che nelle tenebre si avviava dal fango ad un altro fango per i suoi lascivi amori. Così l’ho calpestata sempre. Così la calpesto anche ora. E così sono disposto a strappare a te la tua malattia e a calpestarla liberandotene, per farti sana e santa. Perché sono il Redentore. Questo solo. Ho preso corpo d’uomo per salvarvi, per distruggere il peccato, non per peccare. L’ho preso per levare i vostri peccati, non per peccare con voi. L’ho preso per amarvi, ma di un amore che dà la sua vita, il suo sangue, la sua parola, tutto, per portarvi al Cielo, alla Giustizia, non per amarvi da bruto. E neppure da uomo, perché Io sono più che uomo.

   532.7Sai tu di preciso chi sono? Non lo sai. Non sapevi neppure l’entità di ciò che venivi a compiere. E di questo ti perdono senza che tu lo chieda. Non sapevi. Ma della tua prostituzione! Come hai potuto vivere in essa? Non eri così. Eri buona. Oh! infelice! Non ricordi la tua infanzia? Non ricordi i baci di tua madre? Non le sue parole? E le ore della preghiera? Le parole della Sapienza sentite spiegare la sera da tuo padre e nei sabati dal sinagogo… Chi ti ha fatta ebete ed ebbra? Non ricordi? Non rimpiangi? Dimmi! Sei veramente felice? Non rispondi? Io parlo per te. Dico: no, non sei felice. Quando ti desti, trovi sul capezzale la tua vergogna a darti il primo giro quotidiano di tortura. E la voce della coscienza ti urla il suo rimprovero mentre ti acconci e profumi per piacere. E senti odore infame nelle essenze più fini. E sapore di nausea nei cibi rari. E i tuoi monili ti pesano come una catena. Lo sono. E, mentre ridi e seduci, dentro di te qualcosa geme. E ti fai ebbra per vincere la noia e la nausea della tua vita. E odi quelli che dici di amare per averne lucro. E maledici te stessa. E il sonno è pesante d’incubi. E il pensiero di tua madre ti è una spada nel cuore. E la maledizione di tuo padre non ti dà pace. E poi ci sono le offese di chi ti incontra, le crudeltà di chi ti usa, senza pietà, mai[77]. Sei una merce. Ti sei venduta. La merce acquistata si usa come si vuole. Si lacera, si consuma, si calpesta, le si sputa sopra. È nel diritto del compratore. Tu non ti puoi ribellare… E ti fa felice questa situazione? No. Sei disperata. Sei incatenata. Sei torturata. Sulla Terra sei un cencio lurido che ognuno può calpestare. Se cerchi, in qualche ora di pena, di trovare conforto alzando lo spirito a Dio, senti l’ira di Dio su te, prostituta, e il Cielo chiuso più ancora che ad Adamo. Se ti senti male, hai il terrore del morire perché sai la tua sorte. L’Abisso è per te.

   532.8Oh! infelice! E non bastava ancora? Vorresti alla catena delle tue colpe unire quella di esser la rovina del Figlio dell’uomo? Di Colui che ti ama? L’Unico che ti ama. Perché anche per la tua anima si è vestito di carne. Io potrei salvarti se tu lo volessi. Sull’abisso della tua abbiezione si curva l’Abisso della misericordiosa Santità, e attende un tuo desiderio di salvezza per trarti dall’abisso della tua immondezza. Nel tuo cuore tu pensi che è impossibile che Dio ti perdoni. Trai le basi di questo tuo pensiero dal raffronto con il mondo che non ti perdona di essere la prostituta. Ma Dio non è il mondo. Dio è Bontà. Dio è Perdono. Dio è Amore.
   Sei venuta a Me, pagata per nuocermi. In verità ti dico che il Creatore, pur di salvare una sua creatura, può volgere in bene anche ciò che è male. E, se tu vuoi, in bene si muterà la tua venuta a Me. Non vergognarti del tuo Salvatore. Non vergognarti di mostrargli nudo il tuo cuore. Anche se lo vuoi celare, Egli lo vede e piange su esso. Piange. Ama. Non vergognarti di pentirti. Sii audace nel pentimento come lo fosti nella colpa. Non sei la prima prostituta che piange ai miei piedi e che Io riconduco alla giustizia… Non ho mai cacciato nessuna creatura per quanto fosse colpevole. Ho cercato invece di attirarla e salvarla. È la mia missione. Non mi fa orrore lo stato di un cuore. Conosco Satana e le sue opere. Conosco gli uomini e le loro debolezze. Conosco la condizione della donna che sconta, come è giustizia, più duramente dell’uomo le conseguenze della colpa di Eva. So quindi giudicare e compatire. E ti dico che, più che verso le donne cadute, sono severo verso coloro che le inducono alla caduta. Per te, infelice, sono più severo verso coloro che ti hanno mandata che verso di te che sei venuta, non sapendo di preciso a che ti prestavi. Avrei preferito che tu fossi venuta spinta da un desiderio di redenzione come altre tue sorelle. Ma se tu seconderai il desiderio di Dio, e di una mala azione farai la pietra angolare della tua nuova vita, Io ti dirò la parola di pace…».

   532.9Gesù, che molto severo al principio si è fatto sempre più dolce, pur rimanendo così… Dio da escludere ogni debolezza di senso, e anche ogni errore di valutazione sulla sua bontà, tace ora, guardando la donna, rimasta sempre in piedi, ma curva, sempre più curva, a un due metri da Lui, e che a metà del suo discorso si è portata le mani al volto premendovi contro il velo, due belle mani che spiccano sul mantello scuro, tutte ornate di anelli. Dei braccialetti sono ai polsi delle braccia, nude sino al gomito.
   Non potrei dire se la donna piange o no. Se lo fa, è certo tacitamente, perché non si sentono singhiozzi né si vedono scosse. Sembra una statua tanto è ferma nelle sue vesti oscure. Poi d’un tratto cade in ginocchio e si fa tutta un gomitolo al suolo e allora piange veramente, né si fa ritegno di farlo vedere. E poi, stando così come uno straccio per terra, parla: «È vero! Sei veramente un profeta… Tutto è vero… Mi hanno pagata per questo… Ma mi avevano detto che era per una scommessa… Loro ti avrebbero scoperto nella mia casa… Ma anche vicino a Te…».
   «Donna, Io non ascolto che il racconto delle tue colpe…», la interrompe Gesù.
   «È vero. Non ho diritto di accusare nessuno, perché sono un letamaio di immondezza. È vero tutto. Non sono felice… Non godo delle ricchezze, dei festini, degli amori… Arrossisco pensando a mia madre… Ho paura di Dio e della morte… Odio gli uomini che mi pagano. Tutto quanto hai detto è vero. Ma non mi cacciare, Signore. Nessuno mai, dopo mia madre, mi ha parlato come Te. E anzi Tu mi hai parlato più dolce ancora di mia madre, che negli ultimi tempi era dura con me per la mia condotta… Per non sentirla più sono fuggita a Gerusalemme… Ma Tu… Eppure è come se la tua dolcezza fosse neve sul fuoco che mi divora. Il mio fuoco si fa più calmo, anzi è un altro fuoco. Era rovente, ma non dava luce e calore. Io ero di ghiaccio e nelle tenebre. Oh! quanto ho voluto soffrire! Quanto dolore inutile e maledetto mi sono dato! Signore, ti ho detto attraverso la porta socchiusa che ero un’infelice e di avere pietà. Erano le parole di menzogna che mi avevano insegnato di dirti per trarti nel tranello. Mi avevano detto che, dopo, la mia bellezza avrebbe fatto il resto…

   532.10La mia bellezza! Le mie vesti!…».
   La donna sorge in piedi. Ora che è dritta vedo che è alta. Si strappa il velo e il mantello, e appare nella sua vera bellezza di bruna castana dalle carni bianchissime. Gli occhi, ingranditi dal bistro, sono larghi e bellissimi, hanno uno sguardo d’innocenza sbalordita che è strano trovare in una donna di queste. Forse li ha già lavati il pianto. La donna strappa e calpesta la stoffa del mantello, lacera il velo, strappa le fibbie preziose dall’uno e dall’altro e le getta al suolo, si sfila anelli e bracciali, lancia lontano gli ornamenti del capo, si afferra le ciocche arricciate piene di fermagli luccicanti e se le strappa e spettina, per cancellare l’artificio in una furia di sacrificio che è persino paurosa. La collana che ha al collo, stiracchiata con violenza, si sgrana al suolo, e il piede calzato di sandali ornati calpesta le gemme e le stritola; la cintura preziosa segue la sorte comune, e così un fermaglio che tratteneva con arte la stoffa della veste sul petto. E tutto mentre ella a voce bassa, affannosa, ripete: «Via! Via! Maledette cose. Via! Voi e chi me le ha donate. Via, mia bellezza! Via, miei capelli. Via, mia carne di gelsomino!».
   Rapida, afferra una pietra aguzza che vede al suolo e si percuote a sangue il volto, la bocca, si sgraffia con le unghie colorate. Il sangue goccia dalle ferite, i tratti si gonfiano nelle percosse… finché la sua furia si placa e ansante, esausta, sfigurata, spettinata, lacera, in una veste sporca di sangue e terriccio, si getta al suolo ai piedi di Gesù gemendo: «E ora mi puoi perdonare, se vedi il mio cuore, perché non c’è più nulla del passato mio, più nulla di…

   532.11Hai vinto Tu, Signore, contro i tuoi nemici e la mia carne… Perdonami il mio peccare…».
   «Te lo avevo già perdonato da quando ti sono venuto incontro. Alzati e non peccare mai più».
   «Dimmi che devo fare, per farlo».
   «Allontanati dai luoghi del tuo peccato, da coloro che sanno chi sei. Tua madre…».
   «Oh! mio Signore! Ella non mi accoglierà più. Mi odia a causa di mio padre che è morto per me, maledicendomi».
   «Se ti accoglie Dio che è Dio, e ti accoglie perché è Padre, può non accoglierti la madre che ti ha generata e che è donna come te? Va’ umilmente da lei. Piangi ai suoi piedi come piangi ai miei. Confessati a lei come hai fatto con Me. Dille il tuo soffrire. Invoca la sua pietà. Tua madre aspetta questo momento da anni. Lo attende per morire in pace. Sopporta le sue parole di amoroso rimprovero come hai sopportato le mie. Io per te ero l’estraneo, eppure mi hai ascoltato. Ella ti è la madre. Hai il doppio dovere, perciò, di ascoltarla con rispetto».
   «Tu sei il Messia. Sei più di mia madre».
   «Ora lo dici. Ma quando venisti per tentarmi non sapevi che ero il Messia, eppure hai ascoltato le mie parole».
   «Eri così diverso dagli uomini… così… Santo Tu sei, o Gesù di Nazaret!».
   «Tua madre è santa come madre e come creatura. Per le sue preghiere tu hai trovato misericordia presso Dio. È sempre santa la madre! E Dio vuole che ad essa si dia onore».
   «Io l’ho disonorata. Tutto il paese lo sa».
   «Ragione di più per andare a lei e dirle: “Madre, perdono”. E per consacrarle la vita per ripagarla delle pene che per te ha sofferte».
   «Lo farò…

   532.12Ma… Signore, non mi rimandare indietro, a Gerusalemme. Essi mi attendono… e io non so se saprò resistere alle minacce… Lasciami qui sino all’alba, e dopo…».
   «Attendi un momento».
   Gesù si alza, va alla porta di cucina, bussa, si fa aprire. Dice: «Elisa, vieni fuori».
   Elisa ubbidisce. Gesù la conduce verso la donna che, vedendo venire un’altra donna, e anziana, ha un movimento di vergogna e cerca coprirsi il volto e la veste procace coi resti del manto e del velo lacerati.
   «Ascolta, Elisa. Io lascio immediatamente questa casa. Tu dirai ai miei apostoli che mi raggiungano all’aurora alla porta di Erode. Tutti, meno Giuda di Keriot che deve venire con Me. Porterai questa donna a dormire con te. Puoi prendere il mio letto, perché Io non tornerò in Nobe per molto tempo. Domani, quando Giovanni si desterà, tu e lui accompagnerete costei dove essa dirà. Le darai una veste comune e un manto dei tuoi. E la aiuterete in tutto».
   «Va bene, Signore. Sarà fatto ciò che Tu vuoi. Mi spiace per Giovanni…».
   «Io pure. Volevo farlo contento, ma l’odio degli uomini interdice al Figlio dell’uomo di dare un’ora di festa ad un giusto…».
   «E dopo, Signore?».
   «Dopo? Puoi tornare a Betsur in attesa… Addio, Elisa. La mia benedizione e la mia pace siano con te. Addio, donna. Ti affido ad una madre e ad un giusto. Però, se credi dover tornare a prendere i tuoi averi…».
   «No. Non voglio avere più nulla del passato».
   «Ma donna mia! Non potrai certo lasciare tutto in abbandono! Non hai servi, né parenti?», dice Elisa.
   «Non ho che un’ancella… e…».
   «Dovrai licenziarla, dovrai…».
   «Ti prego di farlo tu, al ritorno. Aiutami a guarire del tutto, o donna». Vi è una vera angoscia nella voce.
   «Sì, figlia mia! Sì. Non ti angosciare. Domani penseremo a tutto. Ora vieni di sopra, con me», e Elisa la prende per mano e la conduce, su per la scala, in una delle due stanzette superiori.

   532.13Poi scende rapida: «Ho pensato essere bene che tutti ti vedessero senza di lei, Signore. Né che sapessero dove essa è. Questi gioielli…». Si china a raccogliere anelli e bracciali, fibbie e forcine e cintura e quanti chicchi può della collana spezzata: «Che ne facciamo, Signore, di questi?».
   «Vieni con Me. Hai ragione. È bene che mi vedano».
   Entrano in cucina. Tutti guardano Gesù interrogativamente. Si è alzato anche il vecchio, forse risvegliato da una disputa.
   «Elisa, dài a Tommaso le cose preziose. E tu, Toma, domani le venderai a qualche orafo. Serviranno per i poveri. Sì. Sono gioielli di donna, di quella donna. E questa è la risposta a chi pensa che una carne possa tentare il Figlio dell’uomo e deviarlo dalla sua missione. E anche è il consiglio, a coloro che mi odiano, che è inutile ogni raggiro per trovare materia d’accusa. Giovanni, Elisa ti dirà ciò che devi fare. Io ti benedico…».
   «Mi lasci, Signore?». Il vecchietto è addolorato.
   «Lo devo. Addio. La pace sia con te». Si volge agli apostoli: «Andate al riposo. Tutti meno Giuda di Keriot, che viene con Me».
   «Ma dove? È notte», obbietta Giuda.
   «A pregare. Non ti farà male. O temi l’aria notturna, se respirata con Me?».
   Giuda china il capo prendendo con mal garbo il suo mantello, mentre Gesù prende il suo.
   «Domani all’aurora alla porta di Erode. Andremo al Tempio e…».
   «No!». Il “no” è unanime. Quello di Giuda è il più forte.
   «Andremo al Tempio. Non hai forse detto che tu li hai persuasi a lasciarmi in pace?».
   «È vero».
   «E allora andremo al Tempio. Vieni», e si avvia per uscire.
   «E così è già finita la festa che avevamo preparata…», sospira Pietro.
   «Finita prima di incominciare, devi dire», gli risponde Giacomo di Zebedeo.
   Gesù è già sulla soglia della porta aperta. Si volge e benedice. Poi scompare nella notte.
   Nella cucina sono tutti ammutoliti. Infine Matteo chiede ad Elisa: «Ma cosa è successo, insomma?».
   «Non so. Vi era una donna piangente. E Lui ha detto ciò che ha detto anche a voi. Chi fosse, di dove e perché fosse venuta, non so…».
   «Bene. Andiamo…».
   E meno Matteo e Bartolomeo, che dormono nella casa, se ne vanno tutti.

[76] Niche, invece di Elisa, è correzione di MV su una copia dattiloscritta.
[77] mai, negazione rimasta come in sospeso nella foga del discorso, dovrebbe collegarsi ad un sottinteso con pietà.