MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 539



DXXXIX. La perfezione spiegata a Giovanni di Zebedeo che si è accusato di colpe inesistenti.

   14 dicembre 1946.

   539.1È una serena ma rigida mattina d’inverno. La brina ha imbiancato dei suoi cristalli farinosi il suolo e le erbe, e ha fatto di qualche rametto secco giacente al suolo un prezioso gioiello spolverizzato di perline.
   Giovanni esce dalla sua spelonca. È molto pallido nella sua veste nocciola scuro. Deve avere anche molto freddo o è sofferente. Non so. So che è di un pallore quasi livido ed ha il passo insicuro di chi non sta bene. Va verso il ruscello, resta incerto se tuffarvi le mani o no. Poi si decide e, fatta giumella delle stesse, beve un sorso di quell’acqua limpida ma certo molto fredda. Scuote le mani e se le finisce di asciugare nel lembo della veste. Poi resta incerto… Guarda verso la maceria dove è Gesù e guarda verso la sua. Torna verso la sua lentamente. Ma, giunto sull’apertura per la quale si entra, ha come un capogiro e traballa. Cascherebbe se non si afferrasse al muro semirovinato. Sta col capo contro il braccio ripiegato, afferrandosi al muro per qualche tempo, e poi alza la testa e si guarda intorno… Non entra più nella sua tana. Rasentando il muro, sostenendosi alle sporgenze scabre delle pietre denudate di intonaco, fa i pochi passi che lo separano dalla stalla dove è Gesù e, giunto quasi sulla soglia, si getta in ginocchio e geme: «Gesù, Signor mio, abbi pietà di me!».

   539.2Gesù presto appare: «Giovanni! Che fai? Che hai?».
   «Oh! mio Signore! Ho fame! Sono quasi due giorni che non mangio nulla. Ho fame e freddo…», e batte i denti, pallidissimo.
   «Vieni! Vieni dentro!», dice Gesù aiutandolo a rialzarsi.
   L’altro, sorretto dal braccio di Gesù, gli piange col capo curvo sulla spalla e sospira: «Non mi punire, Signore, se ti ho disubbidito…».
   Gesù sorride rispondendo: «Sei già punito. Sei come un che spira… Siedi qui, su questo sasso. Ora farò fuoco e ti darò da mangiare…», e Gesù accende coll’esca delle ramaglie e fa un bel fuoco sul rustico focolare presso la porta.
   Odor di rami arsi e gaiezza di fiamme si spargono per la misera spelonca, e Gesù, infilato su uno stecco due pezzi di pane, li presenta alla fiamma e, quando li sente caldi, li copre del grasso cuore dei formaggi lasciati dai pastori, e il formaggio rinviene e fila sul pane che ora Gesù tiene sospeso sulla fiamma come fosse un piatto.
   «Mangia ora e non piangere», dice sempre sorridendo e passando il pane a Giovanni, che piange senza rumore come un bambino sfinito, e non smette di lacrimare neppure mangiando con avidità quel cibo confortatore.
   Gesù torna verso la mangiatoia e torna con delle mele, le sistema fra la cenere che s’è scaldata sotto il calore delle legna, che bruciano sostenute da due pietre che fanno da alari. «Va meglio ora?», chiede sedendosi presso il suo apostolo, che fa di sì col capo sempre lacrimando.
   Gesù gli passa un braccio intorno alle spalle e lo attira a Sé, cosa che aumenta il pianto di Giovanni, ancor troppo sfinito e troppo turbato dalla paura, forse, di un rimprovero, dall’emozione di vedersi così accolto, per saper far altro che non sia piangere.
   Gesù lo tiene stretto a Sé senza parlare, sinché l’altro mangia. Poi dice: «Per ora basta. Le mele le avrai più tardi. Vorrei darti un poco di vino, ma non ne ho. Ho trovato l’altro ieri, al­l’alba, fascine e cibo fuor dalla stalla. Ma non c’era vino. E perciò non te ne posso dare. Fosse più tardi, potrei cercare del latte a dei pastori che ho visto pascere il gregge oltre il ruscello. Ma, finché la brina non si è sciolta, non escono gli armenti…».
   «Sto già meglio, Signore… Non ti affliggere per me».
   «E tu allora di che ti affliggi, che sembri appunto un albero al quale il sole sciolga la brina?», dice Gesù sorridendo ancor più vivamente e baciando Giovanni sul sommo della fronte.
   «Perché sono colmo di rimorsi, Signore… e…

   539.3Sì! Lasciami andare! Devo parlarti in ginocchio, chiederti perdono…».
   «Povero Giovanni! Veramente lo sforzo superiore alle tue capacità ti ha indebolito anche l’intelletto. E credi tu che Io abbia bisogno delle tue parole per giudicarti e assolverti?».
   «Sì, sì. Tu sai tutto, lo so. Ma io non avrò pace sinché non ti avrò detto il mio peccato, anzi i miei peccati. Lasciami andare. Lasciami accusare le mie colpe».
   «Ebbene, parla, se ciò ti deve dar pace».
   Giovanni scivola in ginocchio e, alzando il viso lacrimoso, dice: «Io ho peccato di disubbidienza, di presunzione e di… non so se dico bene a dirla “umanità”. Ma certo questa è la mia colpa più recente, più grave, quella che mi dà il dolore più grande e che mi dice quale servo inutile, anzi, più ancora, egoista, basso, io sono».
   Le lacrime veramente gli lavano il volto, mentre a Gesù il sorriso fa il volto sempre più luminoso. Gesù sta un po’ curvo sul suo apostolo piangente, e il divino sorriso è tutta una carezza sul dolore di Giovanni. Ma Giovanni è così afflitto che non ha conforto neppure da quel sorriso e continua: «Ti ho disubbidito. Avevi detto che non dovevamo dividerci, e io mi sono diviso subito dai compagni e ho dato scandalo ad essi. Ho risposto malamente a Giuda di Keriot che mi faceva osservare che io peccavo. Ho detto: “Tu lo hai fatto ieri, ed io lo faccio oggi. Tu lo hai fatto per avere notizie di tua madre, io lo faccio per essere col Maestro e vegliare su Lui, difenderlo”… Ho presunto di me perché volevo fare questo… Io, povero inetto, difendere Te! E poi ho presunto perché ho voluto imitarti. Ho detto: “Certo Egli prega e digiuna. Io farò ciò che Egli fa e per la sua stessa intenzione”. E invece…».
   Il pianto si muta in singhiozzi mentre la confessione della miseria dell’uomo, della materia che ha sopraffatto la volontà dello spirito, esce dalle labbra di Giovanni: «E invece… ho dormito. Subito ho dormito! E solo a giorno fatto mi sono destato e ti ho visto andare al rio, lavarti, tornare qui, e ho capito che avrebbero potuto anche catturarti senza che io fossi pronto a difenderti. E poi volevo fare penitenza e digiuno, ma non sono stato capace di farlo. A bocconcini, quasi per non mangiare, ho finito a mangiare il primo giorno il mio poco pane. Tu sai che non avevo altro. E non ero ancor sazio che avevo tutto finito. E il giorno dopo ho avuto ancor più fame, e questa notte… Oh! ieri notte poco ho dormito per fame e freddo, e questa notte mai ho dormito… e non ho saputo resistere più questa mattina… e sono venuto perché ho avuto paura di morire d’inedia… ed è questo quello che più mi fa male: di non avere saputo vegliare per pregare e vegliare su Te, ma di averlo saputo fare per i morsi della fame… Sono un servo sciocco e vile. Castigami, Gesù!».

   539.4«Povero fanciullo! Vorrei che tutto il mondo avesse a gridare queste tue colpe! Ma ascolta, alzati e ascoltami, ed il tuo cuore tornerà in pace. Hai disubbidito anche a Simone di Giona?».
   «No, Maestro. Non lo avrei mai fatto, perché Tu hai detto che dovevamo stare a lui soggetti come a fratello maggiore. Ma egli, quando io gli ho detto: “Il mio cuore non sta tranquillo a vederlo andar solo”, ha risposto: “Hai ragione. Ma io non posso andare perché ho l’ubbidienza di guidare voi tutti. Vai tu, e Dio sia teco”. Gli altri hanno alzato la voce e Giuda più degli altri. Hanno ricordato l’ubbidienza e hanno anche rimproverato Simone Pietro».
   «Hanno? Sii sincero, Giovanni».
   «È vero, Maestro. È stato Giuda che ha rimproverato Simone e trattato male me. Gli altri hanno soltanto detto: “Il Maestro ha ordinato di stare insieme”. E a me, non al capo nostro, lo dicevano. Ma Simone ha risposto: “Dio vede il fine dell’atto e perdonerà. E il Maestro perdonerà, perché questo è amore”, e mi ha benedetto e baciato e mandato dietro di Te, come quel giorno[90] che Tu andasti con Cusa oltre il lago».
   «E allora Io di questa colpa non ho da assolverti…».
   «Perché è troppo grave?».
   «No. Perché non esiste. Torna qui, Giovanni, al fianco del tuo Maestro e ascolta la lezione. Bisogna saper applicare gli ordini con giustizia e discernimento, sapendo comprendere lo spirito dell’ordine, non soltanto le lettere che compongono l’ordine. Io ho detto: “Non dividetevi”. Ti sei diviso e perciò avresti peccato. Ma prima Io avevo detto: “State uniti di corpo e di spirito, soggetti a Pietro”. Con quelle parole Io ho eletto lui mio legittimo rappresentante fra voi, con facoltà piena di giudicare e di comandare su voi. Perciò, quanto Pietro ha fatto o farà in mia assenza, sarà ben fatto. Perché, avendolo Io investito del potere di guidarvi, lo Spirito del Signore, che è in Me, sarà anche con lui e lo guiderà nel dare quegli ordini che le circostanze impongono e che la Sapienza suggerirà all’Apostolo capo per il bene di tutti. Se Pietro ti avesse detto: “Non andare” e se tu fossi ugualmente venuto, neppure il movente buono del tuo atto — il volermi seguire per amore che vuol difendere ed essere con Me nei pericoli — sarebbe stato sufficiente ad annullare la tua colpa. Ci sarebbe proprio voluto il mio perdono. Ma Pietro, il tuo Capo, ti ha detto: “Va’”. L’ubbidienza a lui ti giustifica completamente. Ne sei persuaso?».
   «Sì, Maestro».

   539.5«Devo assolverti dalla colpa di presunzione? Dimmi, senza riflettere se Io vedo il tuo cuore. Hai tu presunto con superbia di volermi imitare per poter dire: “Colla mia volontà ho abolito le necessità della carne, perché io posso ciò che voglio”? Pensaci bene…».
   Giovanni riflette. Poi dice: «No, Signore. Esaminandomi bene no, non l’ho fatto per questo. Speravo poterlo fare perché ho capito che la penitenza è sofferenza della carne, ma è luce dello spirito. Ho capito che è un mezzo di fortificare la nostra debolezza e ottenere tanto da Dio. Tu lo fai per questo. Io per questo lo volevo fare. E credo di non errare dicendo che, se lo fai Tu forte, Tu potente, Tu santo, io, noi, lo dovremmo fare sempre, se sempre fosse possibile farlo, per essere meno deboli e materiali. Ma non l’ho potuto fare. Ho sempre fame io, e sonno tanto…», e il pianto riprende a gocciare lento, umile, vera confessione della limitatezza delle capacità umane.
   «Ebbene, anche questa piccola miseria della carne credi tu che sia stata inutile? Oh! come te la ricorderai in futuro, quando sarai tentato ad essere severo ed esigente coi tuoi discepoli e fedeli! Essa ti riaffiorerà alla mente dicendoti: “Ricordati che tu pure hai ceduto alla stanchezza, alla fame. Non volere gli altri più forti di te. Sii padre dei tuoi fedeli come il tuo Maestro fu un padre per te quella mattina”. Tu avresti potuto benissimo vegliare e non sentire poi questa gran fame. Ma il Signore ha permesso che tu soggiacessi a questi bisogni della carne per farti umile, sempre più umile e sempre più compassionevole ai tuoi simili.

   539.6Molti non sanno distinguere fra tentazione e colpa consumata. La prima è una prova che dà merito e non leva grazia, la seconda è caduta che leva merito e grazia. Altri non sanno distinguere fra eventi naturali e colpe, e si fanno scrupolo di aver peccato mentre, ed è il tuo caso, non hanno che ubbidito a leggi naturali buone. Distinguo, dicendo “buone”, le leggi naturali dagli istinti sfrenati. Perché non tutto ciò che ora si dice “legge di natura” è tale ed è buona. Buone erano tutte le leggi connesse alla natura umana, che Dio aveva date ai progenitori: il bisogno del cibo, del riposo, della bevanda. Poi, col peccato, sono subentrati e si sono mescolati alle leggi naturali, inquinando con la smoderatezza ciò che era buono, gli istinti animali, le sregolatezze, le sensualità d’ogni specie. E Satana ha tenuto vivo il fuoco, il fomite dei vizi col suo tentare. Ora tu vedi che, se non è peccato cedere al bisogno di riposo e di cibo, è invece peccato la gozzoviglia, l’ebrietà, l’ozio prolungato. Anche il bisogno di coniugarsi e procreare non è peccato, anzi Dio ha dato l’ordine di farlo per popolare la Terra di uomini. Ma non è più buono l’atto del congiungimento per sola soddisfazione del senso. Sei persuaso anche di questo?».
   «Sì, Maestro. Ma allora dimmi una cosa. Coloro che non vogliono procreare, peccano ad un ordine di Dio? Tu dicesti una volta che lo stato di vergine è buono».
   «È il più perfetto. Come è il più perfetto quello di chi, non pago di fare buon uso delle ricchezze, se ne spoglia del tutto. Sono le perfezioni alle quali può giungere una creatura. E gran premio avranno. Tre sono le cose più perfette: la povertà volontaria, la castità perpetua, l’ubbidienza assoluta in tutto ciò che non è peccato. Queste tre cose rendono l’uomo simile agli angeli. E una è perfettissima: dare la propria vita per amore di Dio e dei fratelli. Questa cosa rende la creatura simile a Me, perché la porta all’assoluto amore. E chi ama perfettamente è simile a Dio, è assorbito e fuso con Dio.

   539.7Sta’ dunque in pace, mio diletto. Non c’è colpa in te. Io te lo dico. Perché dunque aumenti il tuo pianto?».
   «Perché una colpa c’è sempre. Quella di aver saputo venire da Te per bisogno e aver saputo vegliare per fame, e non per amore. Non me lo perdonerò mai. Non mi accadrà più. Non dormirò più mentre Tu soffri. Non ti dimenticherò dormendo mentre Tu piangi».
   «Non impegnare il futuro, Giovanni. La tua volontà è pronta, ma ancora potrebbe essere sopraffatta dalla carne. E ne avresti profondo e inutile avvilimento se poi ti sovvenissi di questa promessa fatta a te stesso, non mantenuta poi per fralezza di carne. Guarda. Io ti dico ciò che devi dire per essere in pace, qualunque cosa ti avvenga. Di’ con Me: “Io, con l’aiuto di Dio, propongo, per quanto mi sarà possibile, di non più cedere alle pesantezze della carne”. E sta’ fermo in questo volere. Se poi un giorno, pur non volendolo, la carne stanca e afflitta vincerà la tua volontà, ebbene, allora come ora dirai: “Riconosco di essere un povero uomo come tutti i miei fratelli, e ciò mi serva per tener mozzo il mio orgoglio”. Oh! Giovanni, Giovanni! Non è il tuo sonno innocente quel che può darmi dolore!

   539.8Tieni. Queste ti riconforteranno del tutto. Le dividiamo insieme, benedicendo chi me le ha offerte», e prende le mele ormai cotte e bollenti, e ne dà tre a Giovanni e tre le tiene per Sé.
   «Chi te le ha date, Signore? Chi è venuto da Te? Chi sapeva che qui eri? Io non ho sentito voci né passi. Eppure, dopo la prima notte, ho sempre vegliato…».
   «Sono uscito alla prima luce. Vi erano fasci di legna davanti l’entrata e sopra pane, formaggi e mele. Non ho visto nessuno. Ma solo alcuni possono aver avuto desiderio di ripetere un pellegrinaggio e un gesto d’amore…», dice lentamente Gesù.
   «È vero! I pastori! Lo avevano detto: “Andremo nella terra di Davide… Sono giorni di ricordi…”. Ma perché non si sono fermati?».
   «Perché! Hanno adorato e…».
   «E hanno compatito. Adorato Te e compatito me… Sono migliori di noi quegli uomini».
   «Sì. Hanno serbato buona, sempre più buona la loro volontà. Per loro non fu danno il dono che Dio ha loro dato…». Ge­sù non sorride più. Pensa e si fa triste.
   Poi si scuote. Guarda Giovanni, che lo guarda, e dice: «Ebbene? Vogliamo andare? Non sei più sfinito?».
   «No, Maestro. Non sarò molto resistente, credo, perché ho le membra indolenzite. Ma credo che posso camminare».
   «E allora andiamo. Va’ a prendere la tua sacca, mentre Io raccolgo gli avanzi nella mia, e andiamo. Prenderemo la via che va verso il Giordano per evitare Gerusalemme».
   E al ritorno di Giovanni si rimettono in cammino, rifacendo la via fatta nel venire e allontanandosi per la campagna che si riscalda al mite sole decembrino.

[90] come quel giorno, in 464.14/15.