MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 535



DXXXV. Giuda Iscariota chiamato a riferire in casa di Caifa.

   2 dicembre 1946.

   535.1Non vedo Gesù, né Pietro, né Giuda d’Alfeo, né Tommaso. Ma vedo gli altri nove camminare in direzione del sobborgo di Ofel.
   La gente che è per le strade non è la grande gente delle feste di Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli; è su per giù la gente cittadina. Si vede che le Encenie non erano molto importanti e non richiedevano la presenza degli ebrei a Gerusalemme. Soltanto quelli che per caso erano in città, oppure quelli dei paesi vicini a Gerusalemme, venivano in città salendo al Tempio. Gli altri, sia per la stagione o per il carattere proprio della festa, se ne stavano nelle loro città e nelle loro case.
   Però molti discepoli, quelli che per amore del Signore hanno lasciato casa e parenti, interessi e lavori, sono in Gerusalemme e si sono uniti agli apostoli. Non vedo però Isacco, né Abele, né Filippo e neppure Nicolai, andato ad accompagnare Sabea ad Aera. Parlano fra loro bonariamente, raccontando e sentendo raccontare di tutti i fatti intercorsi nel tempo che sono stati divisi. Si direbbe però che hanno già visto il Maestro, forse al Tempio, perché non si stupiscono della sua assenza. Vanno lentamente e ogni tanto si fermano come in attesa, guardando avanti e indietro, guardando per le vie che scendono da Sion in questa strada che conduce verso le porte meridionali della città.

   535.2Per due volte l’Iscariota, che è quasi in coda a tutti e che fa l’oratore ad un gruppetto di discepoli pieni di buona volontà ma non di scienza, viene chiamato a nome da alcuni giudei che seguono il gruppo senza però mescolarvisi, non so con quali intenzioni o con quali incarichi. E per due volte l’Iscariota fa una scrollata di spalle senza neppure voltarsi. Ma la terza gli è giocoforza farlo, perché un giudeo lascia il suo gruppo, fende con prepotenza quello dei discepoli, prende Giuda per una manica e lo obbliga a fermarsi dicendogli: «Vieni qui fuori un momento, ché ti dobbiamo parlare».
   «Non ho tempo e non posso», risponde reciso l’Iscariota.
   «Va’, va’. Ti aspettiamo. Tanto, finché non vediamo Toma, non si può uscire di città», gli dice Andrea che è il più vicino a lui.
   «Va bene, andate avanti che verrò presto», dice Giuda senza nessuna apparente buona volontà di fare ciò che deve fare.
   Rimasto solo, dice al suo importunatore: «Ebbene? Che vuoi? Che volete? Non avete ancora finito di darmi noia?».
   «Oh! Oh! che arie che ti dài! Però quando ti chiamavamo per darti dei denari non trovavi che ti davamo noia! Sei superbo, uomo! Ma c’è chi ti può fare umile… Ricordalo».
   «Sono un uomo libero e…».
   «No. Non sei libero. Libero è colui che in nessun modo possiamo fare schiavo. E tu ne sai il nome. Tu!… Tu sei schiavo di tutto e di tutti, e per primo del tuo orgoglio. Breve. Guarda che, se non vieni prima di sesta in casa di Caifa, guai a te!». Un «guai» veramente minaccioso.
   «E va bene! Verrò. Ma fareste meglio a lasciarmi stare se volete…».
   «Cosa? Cosa, venditore di promesse, buono a nulla…».
   Giuda si libera con uno spintone da colui che lo tiene e corre via dicendo: «Dirò quando sarò là».

   535.3Si riunisce agli altri del suo gruppo. È pensieroso e un poco torvo. Andrea gli chiede premuroso: «Cattive notizie? No, eh? Forse tua madre…».
   Giuda, che lo aveva guardato male in principio, già pronto ad un’acre risposta, si fa più umano e dice: «Già. Poco buone notizie… Sai… la stagione… Adesso… perché mi è venuto in mente ora un ordine del Maestro. Se quell’uomo non mi fermava mi dimenticavo anche questo… Ma mi ha nominato il luogo dove abita e dietro quel nome mi sono ricordato l’incarico avuto. Ebbene ora, quando andrò per questo, andrò anche da quel­l’uomo e saprò meglio…».
   Andrea, così semplice e onesto come è, è ben lontano dal sospettare che il compagno possa mentire. E dice premuroso: «Ma va’, va’ subito. Dirò io agli altri. Va’, va’! Levati dall’orgasmo…».
   «No, no. Devo attendere Tommaso, per via del denaro. Momento più o momento meno…».
   Gli altri, che si erano fermati in attesa, li guardano venire.
   «Giuda ha avuto tristi notizie», dice premuroso Andrea.
   «Già… in conciso. Ma poi saprò meglio quando andrò a fare ciò che devo…».
   «Che cosa?», chiede Bartolomeo.

   535.4«Ecco Toma che viene di corsa», dice contemporaneamente Giovanni. E ciò serve a Giuda per non rispondere.
   «Vi ho fatto aspettare? Molto? È che volevo far bene… E bene ho fatto. Guardate che bella borsa. Buona per i poveri. Sarà contento il Maestro».
   «Ci voleva. Non avevamo un picciolo per i mendichi», dice Giacomo d’Alfeo.
   «Dammela», dice l’Iscariota tendendo la mano alla borsa pesante che Tommaso palleggia fra le mani.
   «Ma veramente… Gesù ha dato a me l’incarico della vendita, ed io devo deporre nelle sue mani il ricavato».
   «Gliene dirai la cifra. Ora dammi, ché ho fretta di andare».
   «No, che non te la do! Gesù mi ha detto, mentre andavamo per il Sisto: “Poi mi darai la somma”. E io lo faccio».
   «Di cosa hai paura? Che l’alleggerisca o ti levi il merito della vendita? A Gerico io pure ho venduto, e bene. Da anni sono io quello che si incarica del denaro. È il mio diritto».
   «Oh! senti! Se vuoi fare una lite per questo, tieni. Ho fatto il mio di incarico e del resto non mi curo. Tieni, tieni. Ci sono tante cose più belle di queste!…», e Tommaso passa la borsa a Giuda.
   «Veramente, se il Maestro ha detto…», dice Filippo.
   «Ma non sofisticare! Piuttosto andiamo, ora che si è tutti insieme. Il Maestro ha detto di essere a Betania prima di sesta. Si fa appena a tempo», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Allora io vi lascio. Voi andate avanti. Ché io vado e torno».
   «No, poi! Ha detto ben chiaro: “State tutti uniti”», dice Mat­teo.
   «Tutti uniti voi. Ma io devo andare. Ora poi che so di mia madre!…».
   «La cosa si può interpretare anche così. Se lui ha avuto ordini che non sappiamo…», concilia Giovanni.
   Gli altri, meno Andrea e Tommaso, sembrano poco propensi a lasciarlo andare. Ma infine dicono: «Ebbene, vai. Ma fa’ presto e sii prudente…».
   E Giuda scappa via per una viuzza che porta sul colle di Sion, mentre gli altri riprendono ad andare.

   535.5«Però non è giusto. Non abbiamo fatto bene. Il Maestro aveva detto: “State sempre insieme e siate buoni”. Abbiamo disubbidito al Maestro. Ne ho tormento», dice dopo qualche tempo Simone Zelote.
   «Lo pensavo anche io…», gli risponde Matteo.
   Gli apostoli sono tutti in gruppo da quando hanno dovuto decidere dei loro affari. Ho notato che i discepoli si scostano sempre con rispetto quando gli apostoli si riuniscono a discutere.
   Bartolomeo dice: «Facciamo così. Licenziamo questi che ci seguono. Da ora. Senza attendere di essere sulla via di Betania. E poi dividiamoci in due gruppi e stiamo ad attendere Giuda, parte sulla via bassa, parte sulla via alta. Quelli più svelti sulla via bassa, gli altri su quella alta. Se anche il Maestro ci precede, ci vedrà giungere insieme, perché fuor di Betania un gruppo attenderà l’altro». La cosa è accolta. Congedano i discepoli. E poi vanno uniti sino al luogo da dove si può piegare verso il Getsemani e prendere la via alta sul monte degli Ulivi, e anche, costeggiando il Cedron, si prende la via bassa per Betania e Gerico…

   535.6Giuda intanto corre via come un inseguito. Continua per qualche tempo a salire la vietta stretta che conduce verso la cima di Sion in direzione di ponente, poi piega per una vietta ancor più piccola, quasi un vicolo, che in luogo di salire scende verso mezzogiorno. È sospettoso. Corre e ogni tanto si volta indietro come spaventato. È visibilmente sospettoso di essere seguito.
   La vietta, tortuosa fra gli spigoli delle case messe senza norma edilizia, si apre già su un’ampiezza di campagna. Un colle è oltre la valle al di là delle mura. Un colle basso, coperto di ulivi, al di là dell’arida sassaia della valle di Innon. Giuda corre giù lesto, passando fra le siepi che son limite agli orticelli delle ultime case contro le mura, le povere case dei poveri di Gerusalemme, e non prende, per uscire dalla città, la porta di Sion che ha vicina, ma corre in su, verso un’altra porta un poco occidentale. È fuori di città. Trotta come un puledro per fare presto. Passa come un vento presso un acquedotto; poi, sordo ai loro lamenti, presso le tristi grotte dei lebbrosi di Innon. È chiaro che cerca i luoghi sfuggiti dagli altri.
   Va diretto verso il colle coperto di ulivi, solitario al sud della città. Tira un respiro di sollievo quando è alle sue pendici e rallenta il passo, si riassetta il copricapo, la cintura, la veste che si era rialzata, guarda facendo solecchio, perché ha il sole negli occhi, verso oriente, verso là dove è la strada bassa che va a Betania e Gerico. Ma non vede nulla che lo turbi. Anzi, uno spigolo del colle fa da sipario fra lui e quella via. Sorride. Prende a salire lentamente, per farsi passare il fiato grosso, il colle. E pensa intanto. E più pensa e più si fa scuro. Certo monologa fra sé, ma silenziosamente. Ad un certo punto si ferma, leva la borsa dal seno, la osserva, poi la rimette in seno, ma dopo averne diviso il contenuto, mettendone in parte nella sua borsa, perché appaia meno il volume che ha celato in seno, forse.

   535.7Una casa è fra gli ulivi. Una bella casa. La più bella del colle, perché altre casette che sono sparse sulle pendici, non so se dipendenti dalla bella casa o facenti parte a sé, sono ben umili. Vi giunge attraverso una specie di viale insabbiato fra ulivi messi a dimora con ordine. Bussa alla porta. Si fa riconoscere. Entra. Va sicuro oltre l’atrio in un cortile quadrato intorno ai cui lati sono molte porte. Spinge una di esse.
   Entra in una vasta stanza dove sono diverse persone, delle quali riconosco il viso sornione e astioso insieme di Caifa, quello ultrafarisaico di Elchia, quello da faina del sinedrista Felice, insieme a quello di vipera di Simone. Più in là è Doras figlio di Doras, sempre più simile nelle fattezze a suo padre, e con lui Cornelio e Tolmai. E vi sono gli altri scribi Sadoc e Canania, vecchio di anni, incartapecorito, ma giovane in cattiveria, e Callascebona l’Anziano, e Natanael ben Faba e poi un certo Doro, un Simone, un Giuseppe, un Gioachino che non conosco. Caifa dice i nomi, io li scrivo. Egli termina: «…adunati qui per giudicarti».
   Giuda ha un viso curioso: di paura, di stizza, di violenza insieme. Ma tace. Non sciorina la sua alterigia. Gli altri lo circondano schernitori e tutti dicono la loro.
   «Ebbene? Che ne hai fatto del nostro denaro? Cosa ci dici, uomo sapiente, uomo che fa tutto, e presto e bene? Dove è il tuo lavoro? Sei un bugiardo, un ciarliero buono a nulla. Dove è la donna? Più neanche quella hai? E così, in luogo di servirci, servi Lui, eh? È così che ci aiuti?». Una carica astiosa che urla e sbraita minacciosa, e della quale molte parole mi sfuggono.

   535.8Giuda li lascia ben bene urlare. Quando sono stanchi e senza fiato parla lui: «Ho fatto quel che ho potuto. Che colpa ne ho io se è un uomo che nessuno può far peccare? Volevate provare la sua virtù, avete detto. Io vi ho dato la prova che Egli non pecca. Perciò vi ho serviti in quel che volevate. Siete forse riusciti, voi tutti, a metterlo in posizione di accusato? No. Da ogni vostro tentativo di farlo apparire peccatore, di trarlo in trappola, Egli è uscito più grande di prima. E allora, se non ci siete riusciti voi col vostro astio, dovevo riuscirci io che non lo odio, che sono soltanto deluso di avere seguito un povero innocente, troppo santo per poter essere un re, e un re che schiacci i suoi nemici? Che male mi ha fatto, Lui, perché io faccia a Lui del male? Dico così perché penso che voi lo odiate al punto di volerlo morto. Non posso più credere che volete soltanto persuadere il popolo che Egli è un folle, e persuadere noi, me, per nostro bene, e Lui stesso per pietà di Lui. Siete troppo generosi con me, e troppo furenti di vederlo al di sopra del male, perché lo possa credere. Mi avete chiesto che ne ho fatto del vostro denaro. L’uso che voi sapete ne ho fatto. Per convincere la donna ho dovuto spendere e spendere… E non mi è riuscito farlo con la prima e…».

   535.9«Ma taci! Non è vero nulla. Essa era folle di Lui e certo è venuta subito. Del resto tu lo hai garantito, perché dicevi che essa te lo aveva confessato. Sei un ladro. Chissà a che ti è servito il nostro denaro!».
   «A rovinarmi l’anima, assassini di un’anima! A fare di me un subdolo, uno che non ha più pace, uno che si sente in sospetto presso di Lui e i compagni. Perché, sappiatelo, Egli mi ha scoperto… Oh! se mi avesse scacciato! Ma non mi scaccia. No. Non mi scaccia. Mi difende, mi protegge, mi ama!… Il vostro denaro! Ma perché ho preso il primo picciolo?».
   «Perché sei uno sciagurato. Intanto lo hai goduto il nostro denaro, ed ora piangi di averlo goduto. Falso! Intanto non si è combinato nulla, e le folle intorno a Lui crescono di numero e sono sempre più affascinate. La nostra rovina si approssima, e per tua colpa!».
   «Mia? E perché allora non avete osato prenderlo e accusarlo di volersi fare re? Mi avete pur detto che lo avete voluto tentare, nonostante vi avessi detto che era inutile, che Egli non ha fame di potere. Perché non lo avete indotto a peccare contro la sua missione, se siete tanto bravi?».
   «Perché ci è sfuggito dalle mani. È un demonio che dilegua come un fumo quando vuole. È come un serpente: affascina, non si può più fare nulla se guarda».
   «Se guarda i nemici: voi. Perché io vedo che, se guarda quelli che non lo odiano con tutto loro stessi, come voi fate, allora il suo sguardo fa muovere, fa operare. Oh! il suo sguardo! Perché mi guarda così e mi fa buono, io che sono un mostro per me stesso e per voi, che mi fate mostro dieci volte?!».
   «Quante parole! Tu ci avevi assicurato che per il bene di Israele ci avresti aiutato. Ma non capisci, o sciagurato, che questo uomo è la nostra rovina?».
   «Nostra? Di chi?».
   «Ma del popolo tutto! I romani…».
   «No. È solo vostra la rovina. Voi temete per voi. Voi sapete che Roma non infierirà su noi per causa di Lui. Voi lo sapete questo, come lo so io, come lo sa il popolo. Ma voi tremate perché sapete, temete che Egli vi getti fuori dal Tempio, dal regno d’Israele. E farebbe bene. Bene farebbe a nettare la sua aia da voi, iene immonde, lordure, aspidi!…». È furente.

   535.10Lo afferrano, lo scrollano, resi a loro volta furenti, quasi lo atterrano… Caifa gli urla sul viso: «E va bene. Così è. Ma se così è, abbiamo diritto di difendere il nostro. E visto che le piccole cose non bastano più per persuaderlo a fuggire, a lasciar libero il campo, ecco che ora faremo da noi, lasciando indietro te, servo imbelle, spenditor di parole. E dopo Lui serviremo anche te, non dubitare, e…».
   Elchia tappa la bocca a Caifa e dice, con la sua flemma glaciale di serpe venefica: «No. Non così. Tu esageri, Caifa. Giuda ha fatto ciò che ha potuto. Non lo devi minacciare. In fondo non ha egli i nostri stessi interessi?».
   «Ma sei stolto, o Elchia? Io gli interessi di costui? Ma io voglio che Egli sia schiacciato! E Giuda vuole che Egli trionfi per trionfare con Lui. E tu dici…», urla Simone.
   «Pace, pace! Dite sempre che io sono severo. Ma ecco che oggi io sono l’unico buono. Bisogna capire e compatire Giuda. Egli ci aiuta come può. Ci è buon amico, ma è, naturalmente, anche amico del Maestro. Il suo cuore è ambasciato… Vorrebbe salvare il Maestro, se stesso e Israele… Come conciliare certe cose così opposte? Lasciamolo parlare».
   La canea si calma. Giuda può infine parlare. E dice: «Elchia ha ragione. Io… Cosa volete da me? Non lo so ancor di preciso. Io ho fatto ciò che ho potuto. Io non posso fare di più. Egli è troppo più grande di me. Mi legge in cuore… e non mi tratta mai come merito. Io sono un peccatore, ed Egli lo sa e mi assolve. Se fossi meno vile dovrei… Uccidermi dovrei, per mettermi nell’impossibilità di fargli del male». Giuda si siede, accasciato. Col volto fra le mani, gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto, soffre visibilmente nella lotta fra i suoi opposti istinti…
   «Fole! Cosa vuoi che sappia? Tu fai così perché sei pentito di esserti fatto avanti!», esclama quello chiamato Cornelio.
   «E se così fosse? Oh, se così fosse! Se fossi realmente pentito e capace di stare in questo pentimento!…».
   «Ma lo vedete? Ma lo sentite? Poveri i nostri denari!», gracchia Canania.
   «Abbiamo a che fare con uno che non sa ciò che vuole. Peggio che un ebete abbiamo scelto!», rincara Felice.
   «Ebete? Un fantoccio, devi dire! Lo tira con un filo il Galileo, va dal Galileo. Lo tiriamo noi e viene da noi», strilla Sadoc.
   «Ebbene, se siete tanto più bravi di me, fate da voi. Io da oggi me ne disinteresso. Non aspettatevi più un avviso né una parola. Già non potrei più darvela, perché Egli è ormai in sospetto e mi sorveglia…».
   «Ma se hai detto che ti assolve?».
   «Sì. Mi assolve. Ma appunto perché tutto sa. Tutto sa! Tutto sa! Oh!». Giuda si preme le mani sul viso.
   «E va’ via, allora, femmina in veste d’uomo, malnato, deforme! Va’ via! Faremo da noi. E badati, badati da parlare di ciò a Lui, perché altrimenti te la faremo pagare».
   «Vado! Vado! Mai fossi venuto!

   535.11Però ricordatevi ciò che vi ho già detto. Egli ha incontrato tuo padre, Simone, e tuo cognato, Elchia. Non credo che Daniel abbia parlato. Ero presente e non li ho mai visti parlare in disparte. Ma tuo padre! Non ha parlato, a quel che dicono i miei condiscepoli. Non ha neppure rivelato il tuo nome. Si è limitato a dire che suo figlio lo ha scacciato perché egli amava il Maestro e non approvava la tua condotta. Ma ha già detto che noi ci vediamo, che io vengo in casa tua… E potrebbe dire anche il resto. Tecua non è ai confini del mondo… Non dite poi che ho parlato io, quando già in troppi sanno i vostri propositi».
   «Mio padre non parlerà mai più. È morto», dice lentamente Simone.
   «Morto? Lo hai ucciso? Orrore! Perché mai ti ho detto dove era?…».
   «Io non ho ucciso nessuno. Non mi sono mosso da Gerusalemme. Ci sono tante maniere di morire. Ti fai stupore che un vecchio, e un vecchio che va ad esigere delle monete, venga ammazzato? Del resto… colpa sua. Se stava quieto, se non aveva occhi e orecchi e lingua per vedere, udire e rimproverare, sarebbe ancora onorato e servito nella casa di suo figlio…», dice con una lentezza esasperante Simone.
   «Insomma… lo hai fatto uccidere? Parricida!».
   «Tu sei pazzo. Il vecchio è stato percosso, è caduto, ha urtato il capo, è morto. Una disgrazia. Una semplice disgrazia. Mal per lui che gli toccò esigere il pedaggio da un malandrino…».
   «Ti conosco, Simone. E non posso credere… Sei un assassino…». Giuda è allibito.
   L’altro gli ride in faccia ripetendo: «E tu deliri. Vedi un delitto dove è soltanto una sciagura. Io l’ho saputo soltanto ieri l’altro e ho provveduto. A far vendetta e a dare onore. Ma se ho potuto onorare il cadavere, non ho potuto afferrare l’assassino. Qualche ladrone certo, calato dall’Adomin a spacciare sui mercati le sue prede… Chi lo piglia più?».
   «Non credo… Non credo… Via! Via! Lasciatemi andare!… Siete… peggio di sciacalli… Via! Via!», e raccatta il mantello che gli era caduto e fa per uscire.

   535.12Ma Canania lo afferra con la mano grifagna: «E la donna? Dove è la donna? Che ha detto? Che ha fatto? Lo sai?».
   «Nulla so… Lasciami andare…».
   «Tu menti! Sei un bugiardo!», urla Canania.
   «Non lo so. Lo giuro. È venuta. Questo è certo. Ma nessuno l’ha vista. Non io che ho dovuto partire subito con il Rabbi. Non i miei compagni. Li ho abilmente interrogati… Ho visto i gioielli spezzati che Elisa ha portato in cucina… e altro non so. Lo giuro per l’Altare e il Tabernacolo!».
   «E chi ti può credere? Sei un vile. Come tradisci il Maestro, puoi tradire anche noi. Ma bada a te!».
   «Non tradisco. Lo giuro per il Tempio di Dio!».
   «Sei uno spergiuro. Il tuo volto lo dice. Servi Lui e non noi…».
   «No. Lo giuro sul Nome di Dio».
   «Dillo, se osi, a convalida del tuo giurare!».
   «Lo giuro su Jeové!», e diviene terreo nel pronunciare il Nome di Dio così. Trema, balbetta, non lo sa neppure dire come viene di solito pronunciato. Sembra che dica un J, una acca, un ve molto strascicato, direi finito in aspirazione. Ricostruirei così: Jeocvèh. In modo strano, insomma.
   Un silenzio direi pauroso si è fatto nella stanza. Si sono persino scostati da Giuda… Ma poi Doras e un altro dicono: «Ripeti lo stesso giuramento a convalida che tu servirai noi soli…».
   «Ah, no! Maledetti! Questo no! Vi giuro che non vi ho traditi e che non vi denuncerò al Maestro. E già faccio un peccato. Ma il mio futuro non lo lego a voi. A voi che domani, nel nome del giuramento, potreste impormi… qualunque cosa, anche un delitto. No! Denunciatemi come sacrilego al Sinedrio, denunciatemi come assassino ai romani. Non mi difenderò. Mi farò ammazzare… E sarà cosa buona per me. Ma io non giuro più… più giuro…», e si libera con degli sforzi violenti da chi lo tiene, e fugge via urlando: «Però sappiate che Roma sorveglia voi, che Roma ama il Maestro…». Una potente usciata che fa rimbombare la casa indica che Giuda è uscito da quel covo di lupi.

   535.13Si guardano in volto… La rabbia, e forse la paura, li fa lividi… E, non potendo sfogare la loro ira e paura su alcuno, si accapigliano fra di loro. Ognuno cerca di addossare all’altro la responsabilità dei passi fatti e delle conseguenze che possono avere. Chi rimprovera in un senso e chi nell’altro. Chi per il passato. Chi per il futuro. Chi urla: «Sei stato tu a voler sedurre Giuda», e chi: «Avete fatto male a trattarlo male. Vi siete scoperti!», e chi propone: «Corriamogli dietro, con del denaro, con delle scuse…».
   «Ah! questo no!», strilla Elchia che è il più rimproverato. «Lasciate fare a me e dovrete dirmi che ho saggezza. Giuda senza più denaro si farà mite. Oh! mite come un agnello!», e ride serpentino. «Terrà duro oggi, domani, forse un mese… Ma poi… È troppo vizioso per poter vivere nella povertà che gli dà il Rabbi… e verrà a noi… Ah! Ah! Lasciatemi fare! Lasciatemi fare! Io so…».
   «Sì. Ma intanto… Hai sentito? I romani ci spiano! I romani lo amano! Ed è vero. Anche questa mattina e ieri, e ieri l’altro, c’erano ad attenderlo nell’atrio dei Pagani. Le donne dell’Antonia ci sono sempre… Vengono persino da Cesarea per sentirlo…».
   «Capricci di femmine! Non me ne preoccupo. L’uomo è bello. E parla bene. Esse sono pazze per i ciarlieri demagoghi e filosofi. Per loro il Galileo è un di questi, nulla più. E serve per svagarsi nei loro ozi. Pazienza ci vuole a riuscire! Pazienza e astuzia. E coraggio anche. Ma voi non lo avete. E volete fare ma non apparire. Io ve l’ho detto ciò che farei. Ma non vole­te…».
   «Temo il popolo, io. Lo ama troppo. Amore di qua. Amore di là… Chi lo tocca? Se cacciamo Lui, saremo cacciati noi… Bisogna…», dice Caifa.
   «Bisogna non lasciarsi scappare più l’occasione. Quante ne abbiamo perdute! Alla prima che si presenta occorre premere sugli incerti fra noi, e poi agire anche con i romani».
   «Presto detto! Ma quando, dove abbiamo avuto occasione di farlo? Egli non pecca, non tende al potere, non…».
   «Se non c’è, la si crea… Ed ora andiamo. Intanto domani lo sorveglieremo… Il Tempio è nostro. Fuori comanda Roma. Fuori è il popolo a difenderlo. Ma dentro al Tempio…».