MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IX CAPITOLO 564



DLXIV. L’uomo di Jabnia e la fine di Ermasteo. Rimprovero ai samaritani che mancano di carità.

   7 febbraio 1947.

   564.1Devono essere passati dei giorni. Dico ciò perché vedo che i grani, che nelle ultime visioni erano alti appena una spanna, dopo l’ultima acquata e il bel sole che le è succeduto sono già alti e già accennano alla spiga. Un vento lieve fa ondulare le biade ancor tenere nei loro calami. E la brezza scherza con le fronde novelle dei più precoci alberi da frutto che, appena caduto il fiore, o mentre ancor sfarfalla e cade, hanno già aperto le fogliette di smeraldo chiaro, tenere, lucide, belle come tutto ciò che è vergine e nuovo. Più restie, le viti sono ancor nude e nodose, ma sui contorti cordoni dei tralci, che si intrecciano gli uni con gli altri, da tronco a tronco natio, le gemme hanno già rotta la buccia oscura che le serrava e, ancor chiuse, mostrano già la peluria grigio argento che è il nido ai futuri pampini e ai viticci novelli, e i legnosi e serpentini festoni dei vigneti paiono ammorbidirsi in una grazia nuova.
   Il sole, già caldo, comincia la sua opera di coloritore e di distillatore di vegetali aromi e, mentre pennella di tinte più vive ciò che solo ieri era più pallido, scalda, e perciò estrae dalle zolle, dai prati in fiore, dai campi di cereali, dagli orti e frutteti, dai boschi, dai muri, dalle tele stese ad asciugare, le diverse note di odori, a farne un’unica sinfonia olfattiva, che durerà per tutta l’estate sino a spegnersi in un violento afrore di mosti nei tini, dove le uve premute si mutano in vino.
   Un gran cantare di uccelli fra i rami, un bramoso belìo di montoni ed arieti fra le greggi. E canti d’uomini per le pendici. E voci ridenti di bambini. E sorrisi di donne. È primavera. La natura ama. E l’uomo gode dell’amore della natura che domani lo farà più ricco, e gode dei suoi amori che si accendono più vivi in questo risveglio sereno, e più amata gli pare la sposa, più protettore pare l’uomo alla consorte, e più cari ad ambi i figli che, sorriso e lavoro ora, saran domani, nella vecchiezza, sorriso ancora e protezione ai vecchi che declinano.

   564.2Gesù passa fra i campi, che salgono e scendono seguendo i dislivelli del monte. È solo. Vestito di lino, poiché l’ultima sua veste di lana l’ha donata a Samuele, ma con un leggero mantello, di un blu piuttosto vivo, gettato su una spalla sola, avvolto poi al corpo mollemente, tenuto raccolto da un braccio sul petto. Il lembo gettato sul braccio ondeggia lievemente al vento dolce che scorre la terra, e ondulano i capelli del capo scoperto scintillando al sole. Passa, e là dove sono bimbi si china a carezzare le testoline innocenti e ad ascoltare le loro piccole confidenze, ad ammirare ciò che essi corrono a mostrargli come fosse un tesoro.
   Una bambinella, che ancora inciampa nel correre tanto è piccina, e si impiglia nella sottanella troppo lunga per lei, ereditata forse dal fratellino che l’ha preceduta nel nascere, arriva, tutta un riso che le accende gli occhi e le scopre gli incisivi minuti fra le labbruzze rosate, tenendo un mazzo di margheritine, un grosso mazzo tenuto a due mani, quante ne possono tenere le manine così tenere e piccine, e alza il suo trofeo dicendo: «Teh! È tuo. A mamma dopo. Un bacio, qui!», e si batte le manine, ormai liberate dal suo mazzolino che Gesù ha preso con parole di ammirazione e ringraziamento, sulla bocchina, e sta a testa riversa, tendendosi sui piedini scalzi sin quasi a perdere l’equilibrio, nel vano tentativo di allungare la sua minuscola persona sino al volto di Gesù, che ride prendendola in braccio e andando con lei, accoccolata là in cima come un uccellino su un’alta pianta, verso un gruppo di donne che bagnano tele nuove nelle limpide acque di un rio per stenderle poi ad imbiancarle al sole.
   Le donne, curve sull’acqua, si alzano salutando, e una dice sorridendo: «Tamar ti ha disturbato… Ma è dall’aurora che qui coglie fiori con la segreta speranza di vederti passare. Né me ne ha dato uno, perché prima voleva darli a Te».
   «Li ho più cari dei tesori dei re. Perché sono innocenti come i pargoli e dati da una innocente come i fiori». Bacia la bambina deponendola al suolo e la saluta: «Venga a te la grazia del Signore». Saluta le donne e prosegue la sua via, salutando gli agricoltori o i pastori che lo salutano da campi o da prati.

   564.3Sembra diretto verso il basso, verso il lato che porta verso Gerico. Ma poi torna indietro, prendendo un altro sentiero che sale di nuovo verso i monti a nord di Efraim. Qui il suolo, ben esposto e al riparo dai venti del nord, ha messi anche più belle. Il viottolo fra i due campi ha, da una parte, piante da frutto a distanze quasi regolari, e i bocci dei prossimi frutti sono già come tante perle lungo i rami.
   Una strada che scende dal nord verso mezzogiorno interseca il viottolo. Deve essere una strada abbastanza importante, perché al punto di incrocio ha una delle pietre miliari che usano i romani, con su scritto sulla faccia settentrionale: «Neapoli», e sotto a questo nome — scolpito ben grande coi caratteri lapidari dei latini, forti come loro stessi — molto più in piccolo, e appena graffito nel granito: «Sichem»; nella faccia occidentale: «Silo-Gerusalemme»; e in quella volta a mezzogiorno: «Geri­co». Sul lato di levante non vi è nome alcuno.
   Ma potrebbesi dire che, se non c’è nome di città, c’è un nome di sventura umana. Perché in terra, fra la pietra miliare e il fossatello che costeggia la via, come in tutte le strade che i romani hanno in cura, scavato per lo scolo delle acque nei tempi di piogge, vi è un uomo, rattrappito, tutto un gruppo di cenci e di ossa, forse morto.

   564.4Gesù si curva su lui, quando lo scopre là fra le erbacce della proda che le acquate primaverili hanno fatto rigogliose, e lo tocca chiamando: «Uomo? Che hai?».
   Un gemito è la risposta. Ma il viluppo si muove, si svolge, e un viso scheletrito, di un colore di morte, appare, e due occhi stanchi, sofferenti e languidi guardano stupefatti Colui che è curvo sulla sua miseria. Cerca di sedersi puntellandosi con le mani scheletrite al suolo, ma è tanto debole che senza l’aiuto di Gesù non potrebbe.
   Gesù lo aiuta, appoggiandolo con la schiena alla pietra miliare. E lo interroga: «Che hai? Sei malato?».
   «Sì». Un debolissimo.
   «Ma come mettersi in viaggio da solo, in questo stato? Non hai nessuno?».
   L’uomo fa cenno di sì. Ma è troppo debole per rispondere.
   Gesù si guarda intorno. Non c’è nessuno nei campi. È un luogo proprio deserto. A nord, quasi in cima ad un poggio, un mucchietto di case; a ovest, fra il verde della pendice, che si muta, salendo altri dossi, da campi in prati e boschi, dei mandriani fra un gregge di capre irrequiete.
   Gesù riabbassa gli occhi sull’uomo. Chiede: «Se ti sorreggessi, senti di poter venire a quel paese?».
   L’uomo crolla il capo e due lacrime gli scendono sulle guance, tanto appassite da essere rugose come per vecchiezza, mentre la barba corvina lo dimostra giovane ancora. Raduna le forze per dire: «Mi hanno cacciato… Paura della lebbra… Non sono… E muoio… di fame». Affanna per debolezza. Si mette un dito in bocca ed estrae una poltiglia verdastra: «Guarda… Ho masticato grano… ma è erba ancora».
   «Vado da quel pastore. Ti porterò latte tiepido. Faccio pre­sto». E quasi di corsa si dirige là dove è il gregge, a un duecento metri più in alto della via.
   Raggiunge il pastore, gli parla, accenna a dove è l’uomo. Il pastore si volta a guardare, pare incerto se aderire alla richiesta di Gesù. Poi si decide. Si stacca dalla cintura la scodella di legno, che porta appesa come tutti i pastori, e munge una capra dando la tazza colma a Gesù, che scende cauto la pendice, seguito da un fanciullo che era col pastore.

   564.5Eccolo di nuovo presso l’affamato. Si mette a ginocchi vicino a lui, gli passa un braccio dietro le spalle per sorreggerlo e gli avvicina la tazza, dove il latte ancora schiuma, alle labbra. Gli fa bere piccoli sorsi. Poi posa la tazza al suolo dicendo: «Per ora così. Tutto in una volta ti farebbe male. Lascia che il tuo stomaco si rianimi assorbendo il latte che ti ho dato».
   L’uomo non protesta. Chiude gli occhi e tace, osservato dal bambino con grande stupore.
   Dopo qualche tempo Gesù offre di nuovo la tazza per una più lunga bevuta e così fa, con pause sempre più brevi, finché il latte è finito. Rende la tazza al fanciullo e lo congeda.
   L’uomo si rianima lentamente. Cerca con mosse ancor incerte di ravviarsi un poco. Ha un sorriso di riconoscenza guardando Gesù che si è seduto sull’erba vicino a lui. Si scusa: «Io ti faccio perdere del tempo».
   «Non ti affliggere! Non è mai perduto il tempo usato nel­l’amare i fratelli. Quando starai meglio parleremo».
   «Sto meglio. Mi torna il calore nelle membra e la vista… Ho creduto di morire qui… Poveri i miei figli! Avevo perduto ogni speranza… E fino ad allora ne avevo avuta tanta!… Se non venivi Tu, sarei morto… così… su una via…».
   «Sarebbe stato molto triste. È vero. Ma l’Altissimo ha guardato il suo figlio e lo ha soccorso. Riposati un poco».
   L’uomo ubbidisce per qualche tempo. Poi riapre gli occhi e dice: «Mi sento rivivere. Oh! se potessi andare ad Efraim!».
   «Perché? Hai là qualcuno che ti attende? Sei di là?».
   «No.

   564.6Sono delle campagne di Jabnia, presso il mare Grande. Ma sono andato in Galilea, lungo le rive, sino a Cesarea. Andato poi a Nazaret. Perché sono malato qui (si batte sullo stomaco). Di un male che nessuno sa guarire e che non mi lascia lavorare la terra. E sono vedovo. E con cinque bambini… Uno dei nostri luoghi, perché io sono nativo di Gaza, nato da padre filisteo e da madre siro-fenicia. Uno dei nostri, che era seguace del Rabbi galileo, è venuto con un altro fra noi, a parlare di questo Rabbi. Anche io l’ho sentito. E quando mi sono così ammalato ho detto: “Io sono siro e filisteo, lordura per Israele. Ma Ermasteo diceva che il Rabbi di Galilea è buono quanto potente. E io lo credo. E vado da Lui”. E appena venuto il tempo più buono, ho lasciato i figli alla madre di mia moglie, ho raccolto i miei pochi risparmi, perché molti erano già stati consumati nella malattia, e sono venuto a cercare il Rabbi. Ma i denari finiscono presto in viaggio. Specie quando non si può mangiare di ogni cosa… e si deve sostare negli alberghi, quando i dolori impediscono di andare. A Sefori ho venduto l’asino, perché non avevo più denaro per me e per dare il dovuto al Rabbi. Pensavo che, guarito che fossi, avrei potuto mangiare di tutto per via e tornare presto a casa. E là, col lavoro nei campi miei e d’altri, rifarmi… Ma il Rabbi non è a Nazaret, né a Cafarnao. Me lo disse sua Madre. Mi disse: “È in Giudea. Cercalo presso Giuseppe di Sefori in Bezeta, o al Getsemani. Ti sapranno dire dove è”. Sono tornato indietro, a piedi. E il male cresceva… e il denaro diminuiva. A Gerusalemme, là dove ero stato mandato, ho trovato gli uomini ma non il Rabbi. Mi hanno detto: “Oh! lo hanno cacciato da molto. È maledetto dal Sinedrio. È fuggito e non sappiamo dove”. Io… mi sono sentito morire… come oggi. Anzi più di oggi. Sono andato chiedendo a cento e cento per la città e le campagne. Nessuno sapeva. Qualcuno piangeva con me. Molti mi hanno percosso. Poi un giorno, che mi ero messo a mendicare fuor del muro del Tempio, ho sentito due farisei dire: “Ora che si sa che Gesù di Nazaret è a Efraim…”. Non ho perso tempo e, languido come ero, sono venuto sin qui, elemosinando un pane, sempre più stracciato e di malato aspetto. E, non pratico, ho sbagliato via… Oggi vengo di là. Da quel paese. Erano due giorni che non succhiavo che finocchi selvatici, masticavo radicchi e grano in erba. Mi hanno creduto lebbroso per il mio pallore e mi hanno cacciato a sassate. Non chiedevo che un pane e l’indicazione della via di Efraim… Qui sono caduto… Ma vorrei andare a Efraim. Sono così vicino alla mèta! Può esser possibile che io non la tocchi? Io credo nel Rabbi. Non sono israelita. Ma neppur Ermasteo lo era, ed Egli lo amava ugualmente. Possibile che il Dio d’Israele appesantisca la mano su me per farsi vendetta delle colpe di chi mi ha generato?»
   «Il Dio vero è Padre degli uomini. Giusto, ma buono. Premia chi ha fede e non fa pagare agli innocenti le colpe non loro.

   564.7Ma perché hai detto che, quando hai sentito che era ignota la dimora del Rabbi, ti sei sentito morire più di oggi?»
   «Eh! perché ho detto: “Io l’ho perduto prima ancora di averlo trovato”».
   «Ah! per la tua salute!»
   «No. Non per questa soltanto. Ma perché Ermasteo diceva di Lui certe cose che mi pareva che, se lo avessi conosciuto, non sarei stato più una lordura».
   «Dunque tu credi che Egli è il Messia?».
   «Lo credo. Io non so bene cosa sia il Messia, ma credo che il Rabbi di Nazaret è il Figlio di Dio».
   Gesù sorride luminosamente mentre chiede: «E sei certo che, se è tale, esaudisce te, incirconciso?».
   «Ne sono certo, perché lo diceva Ermasteo. Diceva: “Egli è il Salvatore di tutti. Per Lui non ci sono ebrei o idolatri. Ma solo creature da salvare, perché il Signore Iddio lo ha mandato per questo”. Molti ridevano. Io ho creduto. Se io gli potrò dire: “Gesù, abbi pietà di me”, Egli mi esaudirà. Oh! se sei di Efraim, conducimi a Lui. Forse tu sei uno dei suoi discepoli…»

   564.8Gesù sorride sempre di più e consiglia: «Prova a chiedere a Me che Io ti guarisca…»
   «Tu sei buono, uomo. Vicino a te è tanta pace. Sì, tu sei buono come… come il Rabbi stesso, e certo Egli ti avrà dato potere di miracolo, perché per essere buono come sei non puoi che essere un suo discepolo. Li ho trovati tutti buoni quelli che mi si son detti tali. Ma non ti sia offesa se ti dico che tu potrai anche guarire i corpi, ma non le anime. E io vorrei guarita anche quella, come è successo ad Ermasteo. Diventare un giusto… E questo lo può fare solo il Rabbi. Io sono peccatore oltre che malato. Non voglio guarire nel corpo per morire poi un giorno, e con l’anima anche. Voglio vivere. Ermasteo diceva che il Rabbi è Vita dell’anima e che l’anima che crede in Lui vive per sempre nel Regno di Dio. Conducimi dal Rabbi. Sii buono! Perché sorridi? Forse perché pensi che sono audace a voler guarigione senza poter dare un obolo? Ma guarito che io sia, potrò coltivare ancora la terra. Ho frutta bellissime. Che venga il Rabbi al tempo della frutta matura e lo pagherò con un’ospitalità lunga quanto Egli vuole».
   «Chi ti ha detto che il Rabbi vuole denaro? Ermasteo?».
   «No. Anzi egli diceva che il Rabbi ha pietà dei poveri e li soc­corre per primi. Ma si usa con tutti i medici e… e con tutti, insomma».
   «Ma non con Lui. Te lo assicuro. E ti dico che, se tu saprai spingere la tua fede a chiedere qui il miracolo, e a crederlo possibile, lo avrai».
   «Dici il vero?… Ne sei certo? Già, se sei un suo discepolo, non puoi mentire né errare. E, benché mi spiaccia non vedere il Rabbi…, voglio ubbidirti… Forse Egli, perseguitato come è… non vuole esser visto… non si fida più di nessuno. Ha ragione. Ma non saremo noi che lo rovineremo. Saranno i veri ebrei… Però, ecco. Io dico qui (si mette a fatica in ginocchio): “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”».
   «E ti sia fatto come la tua fede merita», dice Gesù col suo gesto di impero sui morbi.

   564.9L’uomo ha come un abbagliamento, ossia come una luce improvvisa. Capisce — non so se per apertura di intelletto, o se per sensazione fisica, o se per tutte e due le cose — chi è Colui che ha davanti, e con un grido così acuto che il mandriano, sceso verso la via, forse per vedere, affretta il passo.
   L’uomo è a terra col viso fra l’erba. E il mandriano dice, accennandolo col vincastro: «È morto? Ci vuol altro che latte quando uno è finito!», e crolla il capo.
   L’uomo sente e sorge in piedi, forte, sano. Grida: «Morto? Guarito sono! Risorto sono. Egli mi ha fatto questo. Non ho più languore di fame né spasimo di malattia. Sono come ai miei dì di nozze! Oh! Gesù benedetto! E come non ti ho conosciuto prima?! La tua pietà doveva dirmi il tuo Nome! La pace che sentivo vicino a Te! Fui stolto. Perdona al tuo povero servo!», e si getta di nuovo al suolo adorando.
   Il mandriano lascia in asso le sue capre e corre via, a salti, verso il paesello.

   564.10Gesù si siede presso il guarito e dice: «Mi parlavi di Ermasteo come di un morto. Ne sai dunque la fine. Io non voglio che una cosa da te. Che tu venga meco ad Efraim e che tu dica la sua fine a chi è con Me. Poi ti manderò a Gerico, da una discepola, perché ti aiuti nel viaggio di ritorno».
   «Se Tu lo vuoi, andrò. Ma, ora che son sano, non ho più paura di morir per via. Anche l’erba mi può nutrire e non è vergogna stendere la mano, poiché non per le crapule ma per un giusto fine ho consumato il mio avere».
   «Lo voglio. Le dirai che mi hai visto e che l’attendo qui. Che ormai può venire. Non sarà importunata da alcuno. Saprai dire ciò?».
   «Lo saprò. Ah! perché ti odiano, Tu così buono?».
   «Perché molti uomini hanno in sé uno spirito che li possiede. Andiamo».
   Gesù si pone in cammino verso Efraim e l’uomo lo segue sicuro. Soltanto la grande magrezza resta a ricordo della malattia e degli stenti passati.
   Dal paesello scendono intanto gesticolando e urlando molte persone. Chiamano Gesù. Gli dicono di fermarsi. Gesù non li ascolta, anzi affretta il passo. E quelli dietro…
   Rieccolo nelle vicinanze di Efraim. I coltivatori che si accingono a tornare alle case, posto che il tramonto principia, lo salutano guardando l’uomo che è con Gesù.

   564.11Da una viottola sbuca Giuda di Keriot. Ha un sussulto di sorpresa vedendo il Maestro. Ma Gesù non mostra alcuna sorpresa. Soltanto si rivolge all’uomo e dice: «Questo è un mio discepolo. Raccontagli di Ermasteo[31]».
   «Eh! è presto detto. Era instancabile nel predicare il Cristo, anche dopo che volle separarsi dal compagno per rimanere da noi. Diceva che ne abbiamo bisogno più di tutti di conoscerti, o Rabbi, e che egli voleva dare la tua conoscenza alla sua patria, e che sarebbe tornato da Te quando in tutti i più piccoli paesi avesse bandito il tuo Nome. Viveva come un penitente. Se qualche pietoso gli dava un pane, lo benediceva in tuo nome. Se gli davano pietre, si ritirava benedicendoli ugualmente, e si nutriva di frutta selvatiche o di molluschi marini che strappava dagli scogli o scavava dalle arene. Molti lo dicevano “pazzo”. Ma nessuno in fondo lo odiava. Al massimo lo cacciavano come fosse un maleaugurio. Un giorno lo trovarono morto per la via, proprio vicino ai miei luoghi, sulla strada che entra in Giudea, quasi ai confini. Non si è mai saputo di che è morto. Ma si sussurra che fu ucciso da uno che non voleva predicato il Messia. Aveva una grande ferita al capo. Si disse che fu travolto da un cavallo. Ma non ci credo. Sorrideva disteso nella polvere. Sì. Pareva proprio sorridere alle ultime stelle della più serena notte di elul e al primo sole del mattino. Lo trovarono degli ortolani che andavano, alle prime luci, alla città con le verdure, e me lo dissero passando a ritirare i miei cetrioli. Corsi a vedere. Era molto in pace».
   «Hai sentito?», chiede Gesù a Giuda.
   «Ho sentito. Ma Tu non gli avevi detto che ti avrebbe servito e avrebbe avuto lunga vita?».
   «Non precisamente così ho detto. Il tempo che è passato offusca il tuo pensiero. Ma non mi ha forse servito, evangelizzando in luoghi di missione, e non ha la vita lunga? Quale più lunga vita di quella conquistata da chi muore nel servizio di Dio? Lunga e gloriosa».
   Giuda ha quella risatina strana, che mi urta tanto, e non ribatte niente.

   564.12Intanto quelli del paesello si sono uniti a molti di Efraim e parlano con loro accennando verso Gesù.
   Gesù ordina a Giuda: «Accompagna l’uomo a casa e finisci di ristorarlo. Partirà dopo il sabato che già si inizia».
   Giuda ubbidisce e Gesù resta solo e cammina lentamente, chinandosi ad osservare degli steli di grano che cominciano ad avere un accenno di spiga.
   Degli uomini di Efraim lo interrogano: «Bello questo grano, non è vero?».
   «Bello. Ma non diverso da quello delle altre regioni».
   «Certamente, Maestro. È tutto grano! Deve per forza essere uguale».
   «Voi dite? Allora il grano è migliore degli uomini. Perché, sol che sia seminato con arte, fa lo stesso frutto qui come in Giudea o in Galilea o, diciamo, nelle pianure lungo il mare Grande. Gli uomini, invece, non fanno lo stesso frutto. E anche la terra è migliore degli uomini. Perché, quando gli viene affidato un seme, gli è buona, senza far differenze se è seme di Samaria o di Giudea».
   «Così è. Ma perché dici la terra e il grano migliori degli uomini?».
   «Perché?…

   564.13Poco fa un uomo chiese un pane, per pietà, alle porte di un paese. E fu cacciato credendolo, la gente di quel luogo, giudeo. Cacciato colle pietre e al grido di “lebbroso”, che egli credette applicato alla sua magrezza, ma che era detto per la sua provenienza. E quell’uomo fu per morir di fame lungo una via. Perciò la gente di quel paese, quella gente là che vi ha mandato ad interrogarmi e che vorrebbe accostarsi alla casa dove sto per vedere il miracolato, è più cattiva del grano e delle zolle. Perché non ha saputo, sebbene ben lavorata da Me che vede da tempo, dare lo stesso frutto che ha dato quell’uomo che non è né giudeo né samaritano, che non mi aveva visto né udito mai, ma che ha accolto le parole di un mio discepolo e ha creduto in Me senza conoscermi. E perché è più cattiva delle zolle, avendo respinto l’uomo perché era di altro seme. Ora vorrebbe venire per soddisfare la sua fame di curiosità, essa che non seppe soddisfare la fame di un languente. Dite a quella gente che il Maestro non la soddisferà questa curiosità inutile. E imparate tutti la grande legge dell’amore, senza il quale non potrete mai essere miei seguaci. Non è l’amore per Me, non è questo solo ciò che salverà le vostre anime. Ma l’amore alla mia dottrina. E la mia dottrina insegna l’amore fraterno senza distinzioni di razza e di censo. Vadano dunque, quei duri di cuore che hanno addolorato il mio Cuore, e si pentano se vogliono che Io li ami. Perché, ricordatelo tutti, se Io sono buono, sono anche giusto; se Io non faccio distinzioni e vi amo come gli altri di Galilea e Giudea, ciò non deve darvi orgoglio stolto di essere i preferiti e licenza di fare il male non temendo di avere il mio rimprovero. Io lodo o rimprovero, come giustizia vuole, i miei parenti e apostoli così come ogni altra creatura, e nel mio rimprovero è amore. Perché lo faccio perché voglio la giustizia nei cuori, per potere un giorno dare premio a chi l’ha praticata. Andate e riferite. E la lezione dia frutto in tutti».
   Gesù si ravvolge nel mantello e cammina svelto verso Efraim, lasciando in asso i suoi interlocutori che vanno, piuttosto mogi, a ripetere le parole del Maestro a quelli del paesello che non ebbe pietà.

[31] Ermasteo, la cui scomparsa era stata interpretata da Giuda Iscariota (in 556.3) come defezione.