MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IX CAPITOLO 582



DLXXXII. Vigilia del sabato avanti l’entrata in Gerusalemme. Offerta estrema per la salvezza di Giuda Iscariota.

   19 marzo 1947.

   582.1«Potete andare, se credete, dove desiderate. Io oggi resto qui con Giuda e Giacomo. Devono venire le discepole», dice Gesù ai suoi apostoli, radunati intorno a Lui sotto il portico della casa. E aggiunge: «Fate però di essere qui tutti avanti il tramonto. E siate prudenti. Cercate di passare inosservati per evitare rappresaglie su voi».
   «Oh! io resto proprio. Che devo fare a Gerusalemme?», dice Pietro.
   «Io invece andrò. Mio padre certo mi attende. Vuole offrire il vino. Vecchia promessa[81], ma mantenuta come sempre, perché un onesto è mio padre. Sentirete che vino al banchetto pasquale! I vigneti di mio padre a Rama! Celebri nella zona», dice Tom­maso[82].
   «Anche questi di Lazzaro sono ottimi vini. Mi è rimasto impresso il banchetto delle Encenie…», dice, involontariamente goloso, Matteo.
   «E allora domani più che mai ti si rinfrescherà il ricordo, perché credo che domani Lazzaro ordini una gran cena. Ho visto certi preparativi…», dice Giacomo di Zebedeo.
   «Sì? Verranno anche altri?», chiede Andrea.
   «No. Ne ho chiesto a Massimino. Mi ha risposto che no».
   «Ah! Altrimenti mi mettevo la veste nuova che mia moglie mi ha mandato», dice Filippo.
   «Io lo farò. Volevo metterla per la Pasqua. Ma la metterò domani. Certo saremo più tranquilli qui, domani, che non fra qualche giorno…», dice Bartolomeo e si interrompe pensando.

   582.2«Io mi orno a nuovo per l’entrata in città. E Tu, Maestro?», chiede Giovanni.
   «Io pure. Metterò la veste tinta di porpora[83]».
   «Sembrerai un re!», dice ammirato il Prediletto che lo vede già, col pensiero, nella veste splendida…
   «Ma se non fossi stato io a pensarci! Quella porpora io l’ho procurata, da anni…», si vanta l’Iscariota.
   «Davvero? Oh! non si era pensato… Sempre così umile il Maestro…».
   «Troppo. Ora è il momento che sia re. Bastano le attese! Se non sarà re di troni, almeno che per la sua dignità abbia vesti conformi al suo grado. Io penso a tutto».
   «Hai ragione, Giuda. Tu sai del mondo. Noi… poveri pescatori siamo…», dicono umilmente quei del lago… E, come sempre avviene nella luce del mondo — nella falsa, crepuscolare luce del mondo — la lega bassa del metallo di Giuda sembra metallo più nobile del grezzo ma puro, sincero, onesto oro dei cuori galilei…
   Gesù, che parlava con lo Zelote e coi figli di Alfeo, si volta e guarda l’Iscariota e guarda quegli onesti, così umili e mortificati di essere così… deficienti rispetto a Giuda… e crolla il capo senza parlare.

   582.3Ma vedendo che l’Iscariota si stringe i lacci dei sandali e si aggiusta il mantello come se fosse per mettersi in cammino, gli dice: «Dove vai?».
   «In città».
   «Io ho detto che ti trattengo con Giacomo…».
   «Ah! io credevo che dicessi di Giuda tuo fratello… Allora… io… sono come un prigioniero… Ah! Ah!», ride male.
   «Betania non ha catene né sbarre, io credo. Solo ha il desiderio del tuo Maestro. E io sarei lieto di esser prigioniero di quello», osserva lo Zelote.
   «Oh! certo! Scherzavo… È che… vorrei avere notizie di mia madre. Certo a Gerusalemme sono giunti pellegrini da Keriot e…».
   «No. Fra due giorni saremo tutti a Gerusalemme. Ora tu resti qui», dice autoritario Gesù.
   Giuda non insiste. Si leva il mantello dicendo: «E allora? Chi va in città? Sarebbe bene anche sapere gli umori… Ciò che fanno i discepoli… Volevo anche andare a sentire presso amici… Lo avevo promesso a Pietro…».
   «Non importa. Tu resti. Non è necessario nulla di quanto dici. Non è strettamente necessario…».
   «Ma se ci va Toma…».

   582.4«Maestro, io pure vorrei andare. Perché l’ho promesso io pure. Ho amici in casa di Anna e…», dice Giovanni.
   «E andresti là, figlio mio? E se ti prendono?», chiede Salome che si è avvicinata.
   «Se mi prendono? Che ho fatto di male? Nulla. Non devo dunque temere il Signore. Perciò, anche se mi prendono, non tremerò».
   «Oh! il leoncello spavaldo! Non tremerai? Ma non sai come ci odiano? È la morte, sai, se ci prendono», spaventa l’Iscariota.
   «E tu, allora, perché ci vuoi andare? Hai forse l’impunità tu? Che hai fatto per averla? Dimmelo, e io lo farò».
   Giuda ha un moto di spavento e di ira, ma è così limpido il volto di Giovanni che il traditore si rassicura. Capisce che non è un’insidia né un sospetto in quelle parole, e dice: «Nulla ho fatto. Ma ho alcuni amici buoni presso il Proconsole e per­ciò…».

   582.5«Bene! Chi vuol venire venga, giacché non piove più. Qui si perde del tempo e forse a sesta tornerà la pioggia. Chi vuol venire si spicci», esorta Tommaso.
   «Vado, Maestro?», chiede Giovanni.
   «Va’».
   «Ecco! Sempre così! Lui sì, gli altri sì. Io no. Sempre no!».
   «Cercherò io di sapere di tua madre», dice Giovanni per calmarlo.
   «E anche io. Vengo con te e Toma», dice lo Zelote e aggiunge: «La mia età frenerà i giovani, Maestro. E conosco bene quei di Keriot. Se ne vedo alcuno, vado a lui. Ti porterò notizie di tua madre, Giuda. Sii buono! Sii quieto! È Pasqua, Giuda. Tutti sentiamo la pace di questa festa, la gioia di questa solennità. Perché vuoi essere tu solo sempre così inquieto, così cupo, malcontento, senza pace? Pasqua è passaggio di Dio… Pasqua è festa di liberazione, per noi ebrei, da un duro giogo. Ce ne ha tratti Dio altissimo. Ora, non potendo ripetere l’avvenimento antico, resta il simbolo di esso, individuale… Pasqua: liberazione dei cuori, purificazione, battesimo, se vuoi, col sangue dell’agnello, perché le forze nemiche non facciano più male a chi è segnato di esso. Così bello iniziare l’anno novello con questa festa di purificazione, di liberazione, di adorazione a Dio Salvator nostro… Oh! scusa, Maestro! Ho parlato quando avrei dovuto tacere, perché ci sei Tu per correggere i nostri cuori…».
   «Quello che pensavo anche io, Simone. Proprio la stessa cosa: che ora ho due maestri in luogo di uno, e mi parevano troppi», dice iroso l’Iscariota.

   582.6Pietro… oh! Pietro questa volta non si può frenare e scatta: «E che se non smetti presto ne hai un terzo, e sarò io. E ti giuro che avrò argomenti più persuasivi delle parole».
   «Alzeresti la mano su un compagno? Dopo tanto sforzo, per tenere nel fondo il vecchio galileo, la tua vera natura riaffiora, dunque?».
   «Non riaffiora. È sempre stata, chiara, alla superficie. Non uso finzioni io. Ma è che, per gli asini selvatici, quale tu sei, non c’è che un argomento per domarli: le nerbate. Vergognati di abusare della sua bontà e della nostra pazienza! Vieni, Simone! Vieni, Giovanni! Vieni, Toma. Addio, Maestro. Vado via anche io, perché se resto… no, viva Dio, che non mi freno più», e Pietro afferra il suo mantello, che era lì su un sedile, e se lo mette in fretta e furia, così inquieto che non vede di metterlo con l’alto in basso, e deve Giovanni avvertirlo dell’errore e aiutarlo a vestirsi a dovere, e va via, a precipizio, battendo forte il piede sul suolo per scaricare un poco della sua ira così. Pare un torello imbizzarrito.
   Gli altri… oh! gli altri sono come libri aperti sui quali si può leggere ciò che è scritto. Bartolomeo alza il volto affilato di vecchio verso il cielo burrascoso ancora e sembra studiare i venti per non avere a studiare i volti: troppo addolorato quello di Cristo, troppo perfido quello dell’Iscariota. Matteo e Filippo guardano il Taddeo, il quale ha fosforescenze d’ira negli occhi così simili a quelli di Gesù, e uno stesso pensiero li prende: se lo mettono in mezzo e lo spingono via, verso il viale interno che conduce alla casa di Simone, dicendo: «Tua madre ci voleva, per quel lavoro. Vieni anche tu, Giacomo di Zebedeo», e trascinano via anche il figlio di Salome. Andrea guarda Giacomo d’Alfeo e Giacomo guarda lui — due visi che riflettono la stessa contenuta sofferenza — e che, non sapendo che dire, si prendono per mano come due bambini allontanandosi tristemente.
   Delle discepole non c’è che Salome, che non osa muoversi né parlare, ma che anche non sa decidersi ad allontanarsi, quasi voglia con la sua presenza frenare altre parole dell’apostolo indegno. Fortunatamente non è presente nessuno della famiglia di Lazzaro. E assente è anche Maria Ss.

   582.7Giuda si vede solo con Gesù e con Salome. Non vuole essere con loro e volta loro le spalle, allontanandosi verso il chiosco di gelsomini.
   Gesù lo guarda andare. Lo sorveglia. Vede che, dopo aver finto di sedersi in quello, Giuda scivola via quatto dalla parte posteriore e si inselva fra le siepi di rose, lauri e bossi, che separano il vero giardino dalle aiuole degli aromi, là dove sono gli alveari. Di là si può uscire da una delle porte secondarie, aperte nei muri del vasto giardino, un vero parco che da due lati termina in siepi altissime, doppie come un viale — aperte su cancelli qua e là per dare adito ai prati, campi, frutteti e uliveti, nonché alla casa di Simone, che continuano il giardino nei poderi, tenendoli uniti e separati insieme — e da altri due ha muraglioni potenti, aperti su due vie, una secondaria e una maestra, nella quale via maestra sbocca la secondaria, che tagliando Betania prosegue verso Betlemme. Gli occhi di Gesù, che si erige quanto può e si sposta quanto necessita per vedere ciò che fa l’Iscariota, fiammeggiano.

   582.8Maria Salome li vede e intuisce, benché per la sua statura poco alta non possa vedere, intuisce ciò che accade verso il limite del parco, e mormora: «Misericordia di noi, Signore!».
   Gesù sente quel sospiro e si volta per un attimo a guardarla questa buona, semplice discepola, che può avere avuto un pensiero di superbia materna chiedendo il posto d’onore per i suoi figli, ma che almeno lo poteva fare perché essi sono buoni apostoli, e che si è presa umilmente la correzione del Maestro e non se ne è offesa, non si è allontanata da Lui, ma anzi si è fatta più umile, più servizievole presso il Maestro che segue come un’ombra, sol che lo possa fare, che studia nelle più piccole espressioni per potere, se può, prevenire i suoi desideri e dargli gioia. E anche ora cerca, la buona e umile Salome, di consolare il Maestro, di placare il sospetto che lo fa soffrire, dicendo: «Vedi? Non va lontano. Ha gettato là il suo mantello e non lo ha ripreso. Andrà per i prati a sfogare il suo umore… Mai andrebbe Giuda in città senza essere in ordine perfetto…».
   «Vi andrebbe anche nudo se volesse andarvi. E infatti… Guarda! Vieni qui!».
   «Oh!! Cerca di aprire il cancello! Ma è chiuso! Chiama un servo degli alveari!».
   Gesù grida forte: «Giuda! Attendimi! Ti devo parlare», e fa per avviarsi.
   «Per carità, Signore!! Io vado a chiamare Lazzaro,… tua Madre… Non andar solo!».
   Gesù, pur camminando velocemente, si volge un poco e dice: «Ti ordino di non farlo. Taci, anzi. Con tutti. Se chiedono di Me, sono uscito con Giuda per un breve cammino. Se vengono le discepole, che attendano. Verrò presto».
   Salome non reagisce, come non reagisce l’Iscariota. L’una presso la casa, l’altro presso la cinta, restano là dove il volere di Gesù li ha fermati e lo guardano: l’una andare, l’altro venire.

   582.9«Apri la porta, Giona. Esco un poco col mio discepolo. E se resti in questo luogo, non occorre che tu la rinchiuda dietro di noi. Sarò presto di ritorno», dice con bontà al servo agricoltore, che era rimasto interdetto con la grossa chiave in mano.
   La portella, di ferro pesante, cigola nell’aprirsi, così come stride la chiave per far giuocare il congegno.
   «Porta che si apre di rado», dice il servo sorridendo. «Eh! ti sei arruginita! Quando si sta in ozio ci si guasta… La ruggine, la polvere,… i monelli… È come per noi… Se non si lavora sempre intorno alla nostra anima!».
   «Bravo Giona! Tu hai avuto un pensiero sapiente. Molti rab­bi te lo invidierebbero».
   «Oh! sono le mie api che me li suggeriscono… e le tue parole. Veramente sono le tue parole. Ma poi anche le api me le fanno capire. Perché niente è senza voce, se si sa intendere. E io dico: se esse, api, ubbidiscono all’ordine di chi le ha create e sono bestioline che non so dove possano avere cervello e cuore, io, che ho cuore, cervello e spirito, e che sento il Maestro, non devo saper fare ciò che fanno esse, e lavorare sempre, sempre per fare ciò che il Maestro dice di fare, e fare così bello il mio spirito, lucido, senza ruggine, polvere, fango e senza paglie, messi nei congegni dai nemici infernali, e sassi e altre insi­die?».
   «Dici proprio bene. Imita le tue api, e la tua anima diverrà un ricco alveare pieno di preziose virtù, e Dio verrà a godersi in esso. Addio, Giona. La pace sia con te».
   Posa la mano sulla testa brizzolata del servo, che gli sta curvo davanti, ed esce sulla via andando verso dei prati di trifoglio rosso, belli come tappeti folti e alti, verde e cremisi. Su essi le api mettono scintille e ronzii, volando da fiore a fiore.

   582.10Quando sono lontani dalla cinta tanto che nessuno, che fosse nel giardino di Lazzaro, possa sentire parola, Gesù dice: «Hai sentito quel servo? È un contadino. Molto è se sa leggere qualche parola… Eppure… Le sue parole avrebbero potuto stare sulle mie labbra senza che il mio dire di Maestro paresse stolto. Egli sente che bisogna vegliare perché i nemici dello spirito non guastino lo spirito… Io… Per questi ti trattengo presso di Me, e tu mi odi per questo! Io ti voglio difendere da essi e da te stesso, e tu mi odi. Io ti porgo il mezzo di salvarti, lo puoi ancora fare, e tu mi odi. Te lo dico ancora una volta: va’ via, Giuda. Va’ lontano. Non entrare in Gerusalemme. Sei malato. Non è bugia dire che tu sei tanto malato che non puoi partecipare alla Pasqua. Farai quella supplementare. È concesso dalla Legge fare la Pasqua supplementare quando malattia o altra grave ragione impediscono di fare la Pasqua solenne. Pregherò Lazzaro — è un amico prudente e nulla chiederà — di condurti oggi stesso oltre il Giordano».
   «No. Ti ho detto molte volte di cacciarmi. Non hai voluto. Adesso sono io che non voglio».
   «Non vuoi? Non vuoi salvarti? Non hai pietà di te stesso? Non di tua madre?».
   «Dovresti dirmi: “Non hai pietà di Me”. Saresti più sincero».
   «Giuda, infelice amico mio, per Me Io non ti prego. Per te, per te ti prego.

   582.11Guarda! Siamo soli. Io e te soli. Tu sai chi Io sono, Io so chi tu sei. È l’ultimo momento di grazia che ancora ci è concesso per impedire la tua rovina… Oh! non ghignare così satanicamente, amico mio. Non deridermi come fossi pazzo perché Io dico: “la tua rovina” e non la mia. La mia non è rovina. La tua sì… Siamo soli, Io e te, e sopra noi è Dio… Dio che non ti odia ancora, Dio che assiste a questa lotta suprema fra il Bene e il Male che si contendono la tua anima. Sopra noi è l’Empireo che ci osserva. Quell’Empireo che presto si empirà di santi. Già essi trasalgono là, nel loro luogo d’attesa, perché sentono venire la gioia… Giuda, fra essi è tuo padre…».
   «Era un peccatore. Non vi è».
   «Era un peccatore, ma non un dannato. Perciò la gioia si approssima anche per lui. Perché vuoi dargli un dolore nella sua gioia?».
   «È fuori dal dolore. È morto».
   «No. Non è fuori dal dolore di vedere te colpevole, te… oh! non mi strappare quella parola!…».
   «Ma sì! Ma sì! Dilla! Io me la dico da mesi! Io dannato. Lo so. Nulla più si può mutare».
   «Tutto! Giuda, Io piango. Le estreme lacrime dell’Uomo le vuoi dunque fare gemere tu?… Giuda, Io te ne prego. Pensa, amico: al mio pregare annuisce il Cielo, e tu, e tu… Mi lascerai pregare invano? Pensa chi ti è davanti, pregante: il Messia d’Israele, il Figlio del Padre… Giuda, ascoltami!… Fermati, sinché lo puoi!…».
   «No!».

   582.12Gesù si copre il volto con le mani e si lascia cadere ai limiti del prato. Piange senza clamore. Ma piange molto. Le sue spalle sussultano nei singhiozzi profondi…
   Giuda lo guarda, là, ai suoi piedi, spezzato, piangente, e per il desiderio di salvarlo… e ha un momento di pietà. Dice, deponendo il tono duro, da vero demonio, che aveva prima: «Non posso andare… Ho dato la mia parola…».
   Gesù alza il viso straziato, interrompendolo: «A chi? A chi? A dei poveri uomini! E di essi, di apparire senza onore ad essi, ti preoccupi? E a Me non avevi dato te stesso da tre anni? E pensi ai commenti di un pugno di malfattori e non al giudizio di Dio? Oh! Ma che devo fare, o Padre, per risuscitare in lui la volontà di non peccare?». Riabbassa il capo sconfortato, straziato… Sembra già il penante Gesù dell’agonia del Getsemani.
   Giuda ne ha pietà e dice: «Resto. Non soffrire così! Resto… Aiutami a rimanere! Difendimi!».
   «Sempre! Sempre, sol che tu voglia. Vieni. Non c’è colpa che Io non compatisca e non perdoni. Di’: “Voglio”. E Io ti avrò redento…». Lo ha preso fra le braccia, sorgendo in piedi.
   Ma se il pianto di Gesù-Dio cade fra i capelli di Giuda, la bocca di Giuda resta chiusa. Non dice la parola richiesta. Non dice neppure «perdono» quando Gesù gli sussurra fra i capelli: «Senti se ti amo! Avrei dovuto rimproverarti! Ti bacio. Avrei diritto di dirti: “Chiedi perdono al tuo Dio”, e ti chiedo soltanto che tu abbia la volontà di perdono. Sei così malato! Non si può chiedere molto ad uno malato molto. A tutti i peccatori che sono venuti a Me ho chiesto l’assoluto pentimento per poterli perdonare. A te, amico mio, chiedo solo la volontà di pentirti e poi… farò Io».
   Giuda tace…
   Gesù lo lascia andare, dice: «Resta almeno qui sino al dì dopo il sabato».
   «Resterò… Torniamo in casa. Noteranno la nostra assenza. Forse ti attendono le donne. Esse sono migliori di me e non devi trascurarle per me».
   «Non ricordi la parabola[84] della pecorella smarrita? Tu sei quella… Esse, le discepole, sono le pecore buone chiuse nel­l’ovile. Non pericolano, anche se Io cerco l’anima tua per tutto il giorno per riportarla all’ovile…».
   «Ma sì! Ma sì! Ecco! Torno all’ovile! E mi chiuderò nella biblioteca di Lazzaro, a leggere. Non voglio essere disturbato. Non voglio vedere, sapere nulla. Così… non sospetterai sempre di me. E se qualche cosa di ciò che avviene andrà riferito al Sinedrio, dovrai ricercare le serpi fra i tuoi prediletti. Addio! Entro dal cancello principale. Non temere. Non fuggo. Puoi venire a verificare quando vuoi», e voltate le spalle se ne va a grandi passi.

   582.13Gesù, altezza bianca nella veste di lino al limitare del prato verde-rosso, alza le braccia al cielo sereno e alza il volto afflittissimo, e alza l’anima al Padre suo gemendo: «Oh! Padre mio! E mi potrai forse accusare di aver lasciato cosa atta a salvarlo? Tu sai che per la sua anima, non per la mia vita, Io lotto per impedire il suo delitto… Padre! Padre mio! Io te ne supplico! Affretta l’ora delle tenebre, l’ora del Sacrificio, perché troppo mi è atroce vivere presso l’amico che non vuole esser redento… Il più grande dolore!», e Gesù si siede nel trifoglio folto, alto, bellissimo, china il capo sui ginocchi sollevati e stretti dalle braccia e piange…
   Oh! non posso vedere quel pianto! È già troppo simile — in desolazione, in solitudine, in… persuasione che nulla il Cielo farà per consolarlo, e che Egli deve patire quel dolore — a quello del Getsemani. E mi fa troppo male…
   Gesù piange a lungo, nel luogo solitario, silenzioso. Testimoni del suo pianto, le api d’oro, il trifoglio che odora e si muove lentamente sotto soffi di vento temporalesco, e le nubi che all’inizio del mattino erano come leggera rete sul cielo azzurro e che ora si sono affittite, scurite, accavallate, promettendo nuova pioggia.

   582.14Gesù cessa di piangere. Alza il capo in ascolto… Un rumore di ruote e di sonagli viene dalla via maestra, e poi cessa il rumore delle ruote ma non quello dei sonagli.
   Gesù dice: «Andiamo! Le discepole… Esse sono fedeli… Padre mio, sia fatto come Tu vuoi! Ti offro il sacrificio di questo mio desiderio di Salvatore e di Amico. È scritto! Egli lo ha voluto. È vero. Lascia però, o Padre mio, che Io continui la mia opera per lui sino a che tutto sarà finito. E sin da ora ti dico: Padre, quando pregherò per i peccatori, vittima impotente ormai ad ogni diretta azione, Padre, prendi Tu il mio soffrire e forza con quello sull’anima di Giuda. So che ti chiedo ciò che la Giustizia non può concedere. Ma da Te la Misericordia e l’Amore sono venuti, e Tu li ami Questi che da Te vengono e che sono una sola cosa con Te, Dio uno e trino, santo e benedetto. Io darò Me stesso ai miei diletti in cibo e bevanda. Padre, il mio Sangue e la mia Carne dovranno dunque essere condanna per un di loro? Padre, aiutami! Un germe di pentimento in quel cuore!… Padre, perché ti allontani? Già ti allontani dal tuo Verbo che prega? Padre, è l’ora. Lo so. Sia fatta la tua volontà benedetta! Ma lascia al Figlio tuo, al tuo Cristo, nel quale per tuo imperscrutabile decreto diminuisce in quest’ora la veggenza sicura del futuro — né ti dico che questa è crudeltà, ma pietà tua per Me — lascia in Me la speranza di salvarlo ancora. Oh! Padre mio. Lo so. L’ho saputo da quando Io sono. L’ho saputo da quando non solo Verbo, ma Uomo, qui in Terra sono venuto. L’ho saputo da quando ho incontrato l’uomo nel Tempio… Sempre l’ho saputo… Ma ora… Oh! che mi pare — grande pietà tua, santissimo Padre! — mi pare che non sia che un orrido sogno, suscitato dal suo comportamento, ma che non sia l’ineluttabile… e che Io possa sperare ancora, ancora, sempre, perché infinito è il mio soffrire e infinito sarà il Sacrificio e possa, anche per lui, qualche cosa… Ah! Io deliro! È l’Uomo che vuole sperare questo! Il Dio che è nell’Uomo, il Dio fatto Uomo non può lusingarsi! Si fugano le leggere nebbie che mi nascondevano per un momento l’abisso, l’abisso già aperto a prendere colui che preferì le Tenebre alla Luce… Pietà il tuo nascondermelo! Pietà il tuo mostrarmelo, ora che Tu mi hai riconfortato. Sì, Padre. Anche questo! Tutto! E sarò Misericordia sino alla fine, perché tale è la mia Essenza».
   Prega ancora, mutamente, a braccia aperte a croce, e il viso straziato si placa sempre più in un aspetto di pace augusta. Si fa quasi luminoso di una luce di gioia interiore, benché non ci sia sorriso sulle labbra serrate. È la gioia del suo spirito, in comunione col Padre, che trapela fuor dai veli della carne e cancella i segni che il dolore ha scavato e dipinto sul volto smagrito e spiritualizzato, che sempre più è venuto al Maestro più Egli si è inoltrato nel dolore e verso il Sacrificio. Non è già più un volto della Terra il volto di Cristo in questi suoi ultimi tempi mortali, e nessun artista sarà mai capace di darci, anche se il Redentore all’artista si mostrasse, quel volto di Uomo Dio scalpellato in bellezza soprannaturale dall’amore e dal dolore perfetti e completi.

   582.15Gesù è di nuovo alla porta di cinta, entra, la chiude col chiavistello e si inoltra verso la casa. Il servo di prima lo vede e corre a prendergli la grossa chiave che Gesù ha fra le mani.
   Procede. Incontra Lazzaro: «Maestro, sono venute le donne. Le ho fatte entrare nella sala bianca, perché in biblioteca c’è Giuda che legge e che è sofferente».
   «Lo so. Grazie per le donne. Sono molte?».
   «Giovanna, Niche, Elisa e Valeria con Plautina e un’altra loro amica o liberta, non so, di nome Marcella, e una vecchia che dice di conoscerti: Anna di Meron, e poi Annalia e con lei un’altra giovinetta di nome Sara. Sono con le discepole tua Madre e le sorelle».
   «E queste voci di bambini?».
   «Anna ha portato i figli del figlio, Giovanna i suoi, Valeria la sua. Li ho condotti nel cortile interno…».

[81] promessa, fatta in 363.4.
[82] dice Tommaso qui e dice Giovanni di 582.4, sono due aggiunte di MV su una copia dattiloscritta.
[83] la veste tinta di porpora, voluta per Gesù da Giuda Iscariota in 252.5, commissionata da Gesù alla Madre in 303.4 e richiestale in 477.9, come ricorderà Maria Ss. in 612.3. Sarà menzionata ancora in 644.4.
[84] parabola, narrata in 233.1/4.