MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 6


Le cose amiche.

   Si legge nella Genesi che Dio fece gli animali perché servissero l'uomo. E anche perché lo confortassero, dico io.
   Sì. Tanto più l'uomo possiede per volere di Dio un'anima che esce dalla mediocrità della massa — la quale pare composta per la maggior parte di esseri amorfi, addormentati, qualcosa che assomiglia all'animale sazio o all'insetto nel bozzolo, esseri che si appagano del loro tran-tran e chiedono e si studiano solo di viverlo senza scosse ma anche senza sforzo — e tanto più è destinato a soffrire dell'incomprensione del suo prossimo. E allora si rifugia nelle bestie per quanto riguarda quaggiù, in Dio per quanto riguarda lassù, e fra questi due apici tesse la sua tela che passa e ripassa continuamente fra tutto il resto… un resto più ispido, più martirizzante del cardo con cui i tessitori si aiutano nella loro opera paziente!
   Il prossimo… Che cardo irto di aculei che è sempre, e tanto più lo è quanto più l'essere nostro è di natura affettuoso, umile, sensibile. Ci irride, ci calpesta, con una spallata ci butta ai margini della vita che, umanamente parlando, è via maestra pei prepotenti, gli aridi di cuore, gli spensierati, i subdoli.
   Dal lato soprannaturale, no. Siamo noi — gli apparentemente vinti della vita, perché non sappiamo essere degli egocentrici come la vita richiede si sia per trionfare — i veri vincitori. Poiché conquistiamo, a prezzo di noi stessi, non la piccola vita limitata nel tempo, ma la Vita che è perpetua aurora, che è perpetuo meriggio, anzi meriggio pieno, beatifico, scorrente pei secoli dei secoli nell'orbita e nella luce del Sole eterno.
   Ma quanto dolore per arrivarvi! Ma quanto gelo! Ma quanta solitudine! Ma quanta amarezza! Ma quante lacrime! Ma quanto morire, ora a ora, in mille modi: uccisi da noi stessi per nostro bene, uccisi dagli altri per loro impulso malvagio! Morire di una morte morale rispetto alla quale la morte di Dio, la morte fisica, punizione di Adamo, è molto, molto meno!
   E allora ci si guarda intorno col cuore stretto e il volto bagnato di pianto… e per gli sguardi assenti o ostili dei nostri simili si incontra lo sguardo fedele delle creature minori. E allora per il bacio che ci è negato o dato a tradimento dal prossimo si incontra il sincero saluto dell'animale, e allora le nostre mani che inutilmente si sono stese per abbracciare e accarezzare e sono state respinte, si chinano a carezzare le bestie che non respingono mai chi le ama e lo ripagano con schiettezza d'affetto.
   Chi è felice non sa… Ma chi non fu felice sa cosa rappresenti di conforto un animale a chi è solo della peggiore solitudine: quella del cuore.
   Io ho molto amato le bestie come opera di Dio e come conforto nella mia vita che non fu felice mai, sempre umanamente parlando. Prigioniera di troppe cose, poiché si può essere prigionieri pur essendo fuori di un carcere materiale, ho avuto in comune con tutti i prigionieri l'amore per le bestie che sono state le compagne e le confortatrici in tante, in tutte le mie ore di prigionia. E non creda che esageri. Ho molto, molto sofferto e spero di potergliene dare una sebben concisa descrizione attraverso queste pagine che Lei ha chiesto le scrivessi.
   Ho molto sofferto. Parrebbe a tutta prima impossibile: figlia unica, abbastanza ricca, sana fino a vent'anni, coi genitori viventi e… apparentemente viventi in buona armonia, cosa, in apparenza, mi mancò? Nulla. Cosa mi mancò in realtà? Tutto. Quel tutto che ci voleva per me: ossia un grande, un grande, un grande amore di mamma.
   Che mi importavano balocchi, dolci, divertimenti, quando essi mi venivano dati con fanfara di anticipo e con galoppo finale di una severità glaciale, o peggio con accompagnamento di scene disgustose nell'interno della famiglia? Come ho invidiato i bimbi poveri che vedevo mangiare il loro tozzo di pane in braccio alla mamma, che vedevo giocare col pupazzo di cenci che l'amore di mamma aveva confezionato per loro, che vedevo crescere come pulcini allegri su un'aia piena di sole in una casa dove l'amore di tutti e due i coniugi brillava come sole riversandosi in fiotti di amore sui figli!
   «Niuna invidiò la sua reggia pur che avesse presso il foco spento un tremolìo di cuna», dice il Pascoli, se non sbaglio nel ripetere il verso dopo tant'anni che l'ho studiato. Io di me posso dire: «Niuno invidierebbe la mia vita, apparentemente dotata di bene, se avendo l'amore nella sua povera casa avesse potuto vedere la realtà della mia casa».
   Perciò non deve far stupore se mi attaccai alle bestie con tanta passione. Uccellini, cani, tartarughe, polli, piccioni, conigli… i miei compagni di giuochi e di solitudine, compagni che mi dettero più gioia delle bambole perché erano «vivi», e più dolore perché… morivano. Ogni morte era una tragedia…
   Mia mamma, il «dominatore» della casa, il «dittatore», decretava ogni volta: «Guai se viene qualche altro cane, qualche altro uccello». Ma allora mi attaccavo alle gallinelle, ai colombi, ai coniglietti… Doppi pianti perciò perché… erano i predestinati allo spiedo o al tegame!…
   E poi, sfidando le ire coniugali, c'era papà che mi riportava il canino: regalato proprio a me dall'Ufficiale Tal dei Tali, oppure l'uccellino che il Colonnello mi pregava di allevare. Povero papà che, amando tanto la sincerità — e mi ci ha così bene avvezzata — ma amando anche tanto la sua povera figlietta e la pace coniugale, trovava questa… via per conciliare la mia sete di amare, la sua gioia di farmi contenta, e il voleredella moglie!
   Mia mamma faceva una scenata, il broncio durava per un tempo indeterminato, papà lo subiva con calma, io piangevo… ma piangevo sul capino di un cucciolo o sulle alucce di un passerotto, e le lacrime erano meno amare perché la bestiolina asciugava le mie lacrime con la sua linguetta tenerella o beveva le gocce del pianto col suo becco ancora molle di nidiace.
   Bisogna aver provato queste cose per poterle capire senza dirle: «Stupidaggini!».
   Dopo le bestie, i fiori. Come mi sono sempre piaciuti! In vaso sulla mia finestrella o colti lungo le verdi strade di campagna, erano la mia gioia.
   Anche qui mio padre era stato il mio maestro. Da lui che non sapeva passare indifferente davanti ad una corolla e ammirava tanto l'umile pratolina come l'orchidea rara, ho appreso l'amore per i fiori, questi infiniti capolavori di Dio che seminano di colori e di fragranze il nostro fango terrestre così come le stelle seminano di gemme il firmamento: fiori dei giardini celesti gli astri, astri dei giardini terrestri i fiori.
   Quando andavamo per la campagna, quanti fiori non coglieva papà mio! Me ne incoronava, me ne empiva le braccia, me ne illustrava le bellezze sempre nuove, sia che fossero un boccio ancor chiuso, inviolato al tocco delle api e delle rugiade, sia che già s'aprissero pomposi a ricevere i baci delle farfalle, le carezze del sole, il lavacro delle piogge o il bagno di luce fosforica delle stelle. E in tutto questo bello che la mano di Dio ha sparso intorno all'uomo, sotto i piedi dell'uomo, della creatura sovrana che il Padre ha amato fino al punto di donargli suo Figlio, e che così pochi vedono sulla terra (per me vedere è amare), babbo mi faceva vedere l'opera del Creatore. Quante volte, ad appoggio delle sue parole e intuendo la mia natura spontaneamente d'artista, egli non citava brani di prosa, e specie di poesia, che più illustravano il bello del creato e che facevano notare in esso l'impronta dell'Essere divino che fece tutte le cose!
   Animali e piante, tramonti, aurore, notti lunari così verginali e caste, notti di stelle così piene di palpiti, e voi sonanti marine che parlottate con lo sciabordìo dell'ondette leggere, che sospirate stanche nelle notti piene, che schiaffeggiate con urla e risate infernali le scogliere, e voi azzurri laghi d'Italia e colli, e pianure, e montagne, voi, voi tutte cose belle perché fatte dal mio Dio, voi che ho amato e che mi avete amata e che venite, nella mia decenne clausura, a trovarmi, poiché v'ho tanto amato, guardato, studiato, che vi vedo ancora coll'occhio della mente, siate benedette per la gioia che mi avete data, siate benedette per la fede che mi avete data, siate benedette per lasperanza di un Bello eterno, più grande, di cui voi siete un riflesso limitato, che mi avete infusa, per l'amore che da voi mi venne, che a voi mi unì, per l'amore con cui mio padre vi amava, con cui mio padre fece che vi amassi, per l'amore con cui Dio vi fece e vi conserva; oh! siate, siate benedette!
   E benedetto sia Colui che a conforto dell'uomo vi fece e che a conforto di me, sua povera figlia, donò al mio io capacità di vedervi così come siete: perfezione e testimonianza di Dio, parola di Dio in tutte le ore, sprone all'ubbidienza, alla bellezza, all'uti­lità…
  Sono stanca e malata più del solito e il pensiero sfugge. Ma non tendo a fare opera letteraria. Ubbidisco solo a un suo desiderio, Padre. Perciò poco mi occupo dello stile. Dico, così come lo permette la mia attuale debolezza, il mio sentimento rispetto alle cose che hanno trovato rispondenza in me.
  E bellezza, opera del genio: chiese d'Italia dove la vita del Cristo e di Maria, dove la vita dei Santi di Dio palpita eterna in raffigurazioni di bellezza ultraterrena. E castelli e regge d'Italia, monumenti d'arte secolare il cui attuale pericolo1 o la già avvenuta distruzione è spasimo per il mio cuore. E musei fastosi di tele, di statue, di oggetti rari venuti fin dal lontano Oriente, cose amate fin che vi ho possedute in un con la salute, ora ancora amate nel ricordo e col ricordo, perché mi portate l'eco di giorni in cui ancora conoscevo della vita non il completo fiele che dovette divenire dolce solo dopo aver stritolato in essa vita il mio io…
   Ecco gli amici nelle cose minori, gli amici che non mi tradirono e con opera non avvertibile fecero in me un lavoro di elevazione a Dio, certo predisposto da Dio che usava di tutte le cose umane per lavorarmi l'anima per l'eternità.
 


   pericolo… distruzione, a causa della seconda guerra mondiale, allora (era l'anno 1943) in corso.

MV a 5 anni