MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 8


Il dolore di Papà.

   Quando ero bimba, ma non più puerile, vidi piangere mio padre. Quelle lacrime mi sono tutte sul cuore.
   Egli, intelligentissimo, aveva fatto invenzioni e modifiche ad armi usate nel nostro Esercito. Questo per amor di Patria, poiché amava intensamente la Patria sua e m'ha trasfuso questo suo amore, e poi perché si studiava di sempre più aumentare la agiatezza familiare per amore mio e di mia madre. In casa sono ancora i brevetti, gli encomi, gli studi fatti da lui… studi notturni, pazienti, perfetti. Infine la riuscita, la soddisfazione, la gioia. E poi… e poi il tradimento.
   Come è costume nell'Esercito, ogni scoperta bellica deve essere sottoposta a studio di alti ufficiali di artiglieria. Fra questi mio padre trovò il suo Giuda. Una piccola modifica e la corruzione mediante denaro del proprietario della fabbrica d'armi, presso cui papà aveva fatto costruire gli esemplari da sottoporre al Ministero, furono il trabocchetto. Mio padre, inferiore di grado e non volendo dimettersi dall'Esercito e vendere la sua scoperta al Belgio, alla Francia, all'Austria che gliela avevano chiesta offrendo fior di quattrini, si trovò in condizioni di inferiorità.
   Erano, occorre ricordarlo, tempi in cui protezioni oscure tutelavano gli affiliati a organizzazioni speciali. E mio padre non era e non volle mai aver nulla a che fare con dette congreghe. Perciò… perse. Il Ministero, i generali, la stampa parlarono di lui con parole d'elogio. Ma il brevetto andò all'altro, al traditore, e l'utile ugualmente.
   Ma, come sempre, questo denaro del tradimento dette frutto di maledizione. Il Glisenti, colui che per denaro testimoniò il falso, fu colpito da paralisi e vegetò per anni e anni come un bruto. Il traditore, ufficiale d'artiglieria, dopo aver goduto i milioni frutto del suo tradire per breve tempo, morì, sparandosi con la pistola usurpata un colpo in bocca; sua moglie e sua figlia conobbero la miseria assoluta al punto di dover servire…
   Ma che mi importa dell'altrui male? Quello che mi fa ancora soffrire è il dolore di papà mio… E questo sarebbe stato già di per sé grande, immeritato da quell'uomo retto, lavoratore, buono. Ma fosse stato dolore unico egli l'avrebbe sopportato meglio e non si sarebbe in esso logorato. Invece…
   Mi duole dovere sempre suonare due campane, l'una dal suono forte e buono e l'altra dalla nota stridula e penosa. Ma la vita è così e io devo dire la mia vita come fu in me e in chi era intorno a me.
   Mia mamma, dopo la morte di sua madre, era divenuta addirittura intrattabile. Un poco il mal di fegato e, dopo anche la miglioria di questo, e molto la famosa malattia femminile — di quelle fra le donne però che, per bontà altrui, se la possono coltivare — del nervoso,l'avevano resa un tormento, una calamità familiare. Se avesse avuto una diecina di figli, pochi mezzi finanziari, nessuna persona di servizio e necessità perciò di rimboccarsi le maniche da mane a sera e sgobbare per tenere in ordine la baracca, gli isterismi non li avrebbe avuti, glielo assicuro. Ci sono delle infelici realmente ammalate di nervi e sono da compiangere. Ma mia mamma non era di queste. E lo dimostra il suo essere arrivata felicemente alla più tarda età mentre tutti i parenti di allora sono morti da un pezzo. Aveva solo il suo io malato di egoismo, di superbia, di prepotenza.
   Mia nonna, durante i primi dieci anni di vita coniugale, aveva posto un freno agli estri di sua figlia e un balsamo sul cuore ferito del genero che l'amava come una madre amatissima. Erano due buoni e si amavano. Morta lei, era venuto l'inferno.
   Mia mamma non ha mai voluto e non vuole, da nessuno, osservazioni. Lei è la perfezione e l'infallibilità. La sua parola è legge, il suo desiderio è comandamento. Mio papà, per amor di pace, non ha mai reagito a simili autoincensazioni… Per amore di pace, per amore della moglie alla quale ha voluto un bene fedele, perfetto, che meritava ben altro compenso! E anche non reagiva per… incapacità. Non era prepotente mio padre, non era brutale. Per domare mia mamma ci voleva uno più prepotente di lei, uno che all'occorrenza sapesse scrollarla un pochino… Sarebbe bastata una volta sola. Invece è sempre così! Nell'unione coniugale uno dei due è il tiranno e l'altro è la vittima. In casa mia la vittima era papà.
   Avrebbe dovuto essere adorato quest'uomo senza vizi, lavoratore, paziente, sano, bello, buono, che aveva dato ricchezza, vita comoda, superfluo a quel pezzettino di donna che era mia madre, levandola all'insegnamento dove avrebbe dovuto prosciugarsi per tutta la vita; e invece fu tormentato, fu abbeverato di sgarbi, di male parole, di ripulse…
   Cominciarono le scene per la parentela…
   Mio papà aveva due sorelle e un fratello. Il fratello e una sorella erano a Bergamo e perciò davano meno al naso di mamma, che però non mancava di parlare di loro con uno sprezzo che a papà era dolore. Quando zio Agostino veniva, uscivamo io, papà e lui per poter parlare in pace. Mamma restava a casa di puntiglio a rodersi di rabbia… Poi era la scena. Io, anche se avevo visto papà dare bigliettoni di banca, grossi, a zio, non parlavo. Avevo capito molto per tempo che vi sono cose da dire e cose da tacere… La prudenza mi deve essere stata infusa col Battesimo.
   L'altra sorella di papà, dopo esser stata in Argentina per degli anni, si era stabilita con il marito e una figlia maritata a Milano. Io non faccio il processo a nessuno né l'apologia di nessuno. Perciò dico che zia Angela avrà avuto i suoi difetti. Ma chi senza difetti fuorché Dio? Ah, no! sbaglio. Fuorché mia mamma? Questa zia, vedendo l'autoritarietà materna, osò intervenire in mio favore. Fu l'inizio delle ostilità. Una guerra continua che faceva soffrire babbo il quale, per la sua giustizia, non vedeva la sorella colpevole di tutte le colpe che mamma le appioppava, ed era sempre seccato da tutti i dispetti che a getto continuo partivano dalla moglie verso la sorella.
   Poi, non bastando questo, le cose degenerarono ancora. Che inferno! Mi chiedo ancora dove mamma trovasse forza, argomento, appiglio, veleno, in così ampia misura, per tormentare papà… Penso a Salomone dove dice1 che sono tre le cose che cacciano l'uomo fuori di casa: il camino che fa fumo, il tetto che fa acqua e la donna litigiosa. Per il fumo e l'acqua ci pensò il progresso a eliminarlo, e papà non ebbe a soffrire di queste due noie casalinghe, meglio: edilizie. Ma riguardo alla moglie litigiosa…Povero papà! Fu più bravo del saggio re Salomone, perché la sopportò senza fuggire, senza perdere la pazienza, ma anzi continuando ad amarla. Mentre ne soffrì moltissimo.
   Infatti niente ci ferisce più di quel che non ci ferisca il vederci misconosciuti dai nostri più prossimi, ai quali diamo tesori di affetto. Papà dava tesori di affetto a sua moglie… ma questi tesori furono usati come un'arma per ferirlo di più. Sicura del potere, dello strapotere che essa esercitava su lui, sicura che la bontà e la pazienza del marito erano perfette, sicura della perfezione d'amore con cui egli l'amava, invece di fare di queste sicurezze una unica arma di bene per sé, per lui e per me, se ne faceva uno strumento di devastazione morale.
   Durante la settimana, papà essendo via di casa dalle 6 antimeridiane alle 12, dalle 14 alle 19, e avendo dopo cena spesso amici in conversazione, non c'era male. Non era certo un vivere ideale, ma insomma era sopportabile. Ma alla domenica!!!… Vuole sapere cosa fosse la nostra domenica, alla quale papà ci teneva tanto come al suo giorno di festa da passarsi fra noi due che adorava? Eccola servito.
   Dopo la morte di nonna io dormivo in stanza coi miei, così fino al mio decimo anno. La mattina di domenica papà rimaneva a letto un poco più del solito ed io scivolavo dal mio lettino e mi arrampicavo sul suo lettone a prendere la mia parte di carezze.
  Mamma, che si era già alzata ed era di là a tormentare la donna di servizio, ci scopriva così, felici, l'una nelle braccia dell'altro, e sentiva il bisogno di avvelenarci la felicità. Ogni più piccola cosa era di pretesto per iniziare l'attacco. Frasi innocue come queste: «Questa notte hai dormito bene. Oggi, già che è una bella giornata, potresti uscire anche tu. Hai un bel colore oggi. La cameriera sta meglio con il suo raffreddore? Andiamo oggi a trovare Angelina (sorella di papà)?», bastavano a suscitare la scena. E su, e su, e su con un crescendo maligno, crudele, ingiusto, selvaggio. Rimproveri, accuse, minacce: di tutto. E niente poneva freno e termine a quella odiosa scena domenicale.
   Io, mi par di vedermi, ritta in piedi nel mio lungo camicione da notte, ritta sul letto matrimoniale a implorare piangendo pietà; mamma che, dopo aver vilipeso con le più false accuse quel sant'uomo di mio padre, minacciava di separarsi coniugalmente; mio padre esasperato che diceva: «Ma io mi sparo, così non ci resisto!». E poi lei che se ne andava altrove, per la casa, e io fra le braccia di papà che piangeva e diceva: «Oh! Maria! La mamma non mi vuole più bene, non ci vuole più bene…».
   Ho perdonato tanto, tanto, tanto a chi mi ha trafitto la vita. Ma ho perdonato il mio dolore causatomi per pura malvagità. Ma queste lacrime di mio padre… no, non le perdono. Mentirei se dicessi che posso perdonare a chi le fece scorrere. Perdono i miei spaventi di bimba… Sa che paura, che paura che papà si suicidasse? Quando tardava a rientrare in casa per qualche motivo io pensavo subito che si fosse ucciso… Il mio cuore ha cominciato allora ad ammalarsi… Perdono le mie feste sciupate dopo aver fatto tutto il mio dovere di scolara per sei giorni ripromettendomi la gioia domenicale. Perdono il crollo delle mie speranze, delle mie illusioni così tenaci a morire. Perdono di aver ucciso la mia serenità fin dalla fanciullezza, il mio sorriso, perdono d'avermi fatto intridere di pianto, di sconforto, di pessimismo il mio giorno fin dalle sue prime ore, tanto perdono, tutto perdono di quanto mi venne ingiustamente dato di male e egoisticamente levato di bene, del mio bene; ma quelle lacrime no. Le lacrime di mio padre, no. Mi appartengono come la più preziosa delle reliquie paterne e stanno chiuse nel mio cuore che fu rigato da esse come da stille di piombo rovente fin dall'infanzia, ma non mi appartengono al punto che io le possa perdonare. Esse anzi dal chiuso dove vivono, esse anzi dalla cicatrice che il loro cadere ha lasciato in me, gridano, gridano con voce di pianto, con voce d'amore, con voce di preghiera: «Ricòrdati e sii giusta». Ricordo e sono giusta.
   Ho continuato ad amare mia madre perché avevo il cuore di mio padre… Avessi avuto un altro cuore, non so se l'avrei potuta amare dopo aver visto come lei ha tormentato quell'uomo. L'ho continuata ad amare per naturale tendenza dunque e per dovere… Oh! triste cosa essere amati per dovere! Ma mio padre, il padre mio l'ho amato per me e per lei con amore, con quanto amore… Vedrà come ci amammo fino alla fine…
   Abbozzo su questo argomento perché è troppo doloroso per me. Sento — poiché ho la sensazione che i nostri morti siano in contatto con noi, roteanti intorno a noi, veglianti su noi — sento le braccia di mio papà ancora intorno al mio corpo scosso dai singulti e la sua voce dirmi: «Oh! Maria! La mamma non ci vuole bene!…». È una lama che mi si torce nel cuore…
   …Così erano le mie, le nostre feste; eppure, da quei tenaci ottimisti che eravamo, durante tutta la settimana accumulavamo tesori di buona grazia, di gentilezze, nella speranza che la prossima domenica fosse migliore dell'ultima così infelice… Illusioni…
   Quando poi venivano le grandi feste, e io e papà ci tenevamo: Natale, Pasqua, S. Giuseppe, S. Anna (onomastico di mamma), il compleanno mio, di papà, l'anniversario delle nozze, allora, di prammatica, la «luna» aveva inizio prima e tramontava a festa superata, rovinando tutto.
   Quando io leggo il Vangelo, fra i molti miracoli di Gesù, mi fermo ammirando alla guarigione dei lunatici. Altro che lebbrosi mondati, ciechi risanati, morti risuscitati! Questo è un miracolo!!! Perché, se tutte le sventure sono sventure, questa d'esser cattivi e di torturare chi vive seco noi è la più grande sventura. È lebbra che corrode l'anima, è cecità che accieca, è sordità che rende sordi alle voci del cuore, è morte al bene, è delitto verso sé stessi e verso il prossimo, è offesa a Dio.
   Colui che è cattivo è peggio di una calamità naturale, dalla quale non ci si può sottrarre perché voluta da leggi eterne, ma che appunto perché voluta da leggi eterne è molto distanziata, nelle sue crisi, nel tempo. Ci si rassegna perciò alle sventure che vengono a noi dalla natura e dal corso inesorabile degli eventi dei popoli. Forse questo dipende dal fatto che, essendo cose decretate in eterno dall'Eterno e facenti parte della nostra esistenza di viventi sul globo, sono rese sopportabili da una grazia speciale di Dio. Ho visto risorgere la vita sui paesi devastati dai terremoti, dalle eruzioni vulcaniche, ho visto sulle rovine e sulle lave sbocciare nuovamente i fiori, gli uccelli intessere il loro nido, le donne cantare ninnando una cuna, l'uomo tornare cantando dal lavoro, la speranza e l'amore risorgere come fenice dalle ceneri del disastro.
   Ma la disperazione che un essere umano porta ad altri esseri simili a lui, che per legami di sangue o d'affetto non si possono, non si vogliono ribellare, è tremenda. Frutto di un cuore preda del demone dell'egoismo, della prepotenza, dell'orgoglio, dà una amarezza che accompagna come tossico per tutta la vita. Una amarezza e una vista speciale, che ci potenzia la facoltà di vedere dietro le bugiarde quinte delle convenienze sociali. Sterilisce tutto in cuore la pena che ci viene da un essere che vive per tormentare, preda come è del proprio io malato per non dire colpevole. Sul suo percorso muoiono le speranze, crollano i sogni, si polverizzano tutti i lavori di bene. Rullo compressore dell'umanità che lo circonda, un cuore non buono stende e stritola tutto nella polvere e nel fango: intelligenza, salute, affetti, e lede persino la fede nei cuori, che vengono a dubitare di Dio stesso che non interviene a por fine a tanto male.
   Guai a scoprire, e in giovane età, la potenza della malvagità umana. L'amara disperazione che provoca in noi la conoscenza di quanto può un nostro simile di male verso i suoi simili è tale che senza un aiuto superno non lo potremmo sopportare e fatalmente saremmo portati al disgusto totale di tutto e di tutti. Fortunatamente Iddio interviene e allora l'anima, pur restando ferita, non muore. Ma muore la salute, qualche volta l'intelletto, sempre la gioia.
   In mio padre morirono tutte e tre le cose e questo non lo posso perdonare. Fui orfana dell'anima di mio padre, della sua intelligenza, a dodici anni; di lui mi sopravvisse un corpo tornato bambino, e questo lo devo dimenticare? No. Non posso. Se avesse avuto solo il dispiacere del vedersi tradito da un estraneo, mio padre non sarebbe morto nella sua psiche così presto. Sono state le ore familiari, corrodenti come un acido, limanti come uno smeriglio, che me lo hanno distrutto. No. Non lo posso dimenticare. Non sarebbe giusto neppure.
   Mia mamma è quasi otto anni che è vedova e ancora non sa darsi pace. Ma perché? Perché questo tormento che la pungola e la martoria? Non è ansia d'amore, Padre. È rimorso.
   Quando la morte ci leva uno amato è ben diversa la reazione che provoca nei cuori. Dolore maestoso, placido pur nella sua veemenza, se il nostro dolore non è venato da rimorso alcuno. Dolore inquieto, dolore smanioso che fa rimprovero ad altri, a Dio per il primo, di quanto è accaduto (perché in realtà il rimprovero è in noi, contro di noi) quando abbiamo molto che rimorde verso l'estinto. Oh! dolce cosa poter guardare al cielo e dire a colui che è lassù, in Dio: «Io non ti ho mai fatto piangere!».
  

   Ho detto: «Non posso perdonare». Lei sa cosa intendo io per perdono. Ci siamo già intesi su ciò. Perdono vuol dire per me: dimenticare il male ricevuto.
   Ora io sono arrivata, per amore di Dio, a dimenticare il male che ho ricevuto io, perché quel male mi ha gettata, come palla violentemente scagliata al suolo, a rimbalzare in braccio a Gesù, e perciò quel male è divenuto per me bene. Ma non posso, non è mio diritto2, dimenticare il male che ricevette mio padre. E quello, non dimenticandolo, non lo perdono. Tutto quello che posso fare è di non rimproverarlo a colei che lo fece e di far conto che non l'abbia compiuto, continuando a rispettarla come fosse stata una compagna perfetta per lo sposo che Dio le aveva concesso, e basta. Più di così, non posso. E non voglio per venerazione di mio padre.
   Dal 1904 al 1935 sono 31 anni. Un tempo pur lungo! E per tutto questo tempo mio papà ha sofferto per questo. Calpestato il suo cuore, trafitto il suo sentire, sprezzato il suo affetto, distrutta la sua salute, lesionata la sua intelligenza, mortificata fino all'ultima ora la sua dignità di uomo…
   Ah! che somma di dolore filiale ho a pesarmi sul cuore! Solo posandola sulle spalle di Gesù, mio divino Cireneo, riesco a trascinare questa montagna d'assenzio che ha sempre schiacciato la mia sensibilità di figlia e spremuto dalle mie fibre lacrime di sangue.
   In questa malattia così tormentosa, così lunga, così avvilente, Lei vede come sono serena… Ma quello che Lei non conosce, perché allora Ella non sapeva neppure che io esistessi, è il mio dolore straziante che per poco mi fa impazzire quando mio padre morì… Ma quello che Lei non vede, perché nessuno fuorché Dio e il mio angelo lo vede, è il mio anelito continuo a papà, la mia nostalgia di papà, il mio chiamare papà, il mio pensare a papà…
   Quando penso come, cosa soffrì, è come se l'aculeo non straziasse le mie carni ma penetrasse nel mio cuore. E quando vengo a mia volta calpestata, Lei sa come, due sono i nomi che invoco: «Gesù - Papà». I miei due amori, i miei due conforti, le mie due calamite per cui facile mi è il Bene e dolce la Morte che mi aprirà la via per unirmi a Loro…
 


   dice, per esempio e con una certa approssimazione, in: Proverbi 19,13; 27,15.

   2 non è mio diritto, poiché, se perdonare il male ricevuto è per il cristiano un dovere, che Maria Valtorta spinge fino alla dimenticanza, perdonare il male fatto ad altri sarebbe come arrogarsi un diritto: le "lacrime di mio padre… non mi appartengono al punto che io le possa [= le debba] perdonare".

MV a 9 anni