MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 9


Voghera.

   Nel settembre 1907 andammo a Voghera. Il Reggimento era stato trasferito là. Persi le suore e le compagne di nuovo, e passai alle scuole comunali non essendovi in questa cittadina nessun Istituto femminile privato. Allora, almeno.
   Nella nuova scuola mi trovai però molto bene. Ero la prima assoluta perché unica figlia di persone agiate e soprattutto non del luogo. Perciò il solo fatto del mio spontaneo uso della lingua italiana mi metteva molto in alto sulle altre del paese. Poi leggevo molto perché mamma non mi lesinava libri e riviste. Accrescevo così sempre più il mio dono spontaneo di piccola scrittrice. Avevo una ottima maestra, una vera «mamma», il cui ricordo è luminoso in me.
   Le compagne erano buone. C'era una, la prediletta, tutta scian­cata, una dolce creatura dal viso di madonna su un corpo da Rigoletto, con la quale andavo molto d'accordo. Era molto buona. Le ho voluto sempre bene e, anche messa in collegio, durante le vacanze l'andai sempre a trovare.
   La cittadina era brutta e meschina, allora. Aveva strade strette, pavimentate con certi sassi aguzzi che martirizzavano le piante. Ma in compenso aveva bellissimi viali di circonvallazione: una cintura verde, ombrosa, piena di trilli e di voli. E poi la campagna era subito lì, a due passi, perché la cittadina era allora molto piccina. Bei paesi rurali pingui di messi e di vigneti la circondavano tutta, e un torrente: la Staffora, dava sensazione di grande fiume con le sue piene spumanti, o coi blocchi di ghiaccio che scoppiavano al disgelo e le sue boschine di acacie in fiore piene di nidi e canti.
   Che bello andare con papà lungo le prode, rasente alle siepi di biancospino che facevano da confine fra le proprietà e che erano tutte bianche in primavera per i milioni di petali che le coprivano e tutte arrubinate in autunno per i ciuffetti dei minuscoli pomini rossi che le decoravano, così dolci agli uccelli e ai bimbi!
   Che bello andare, quando la neve ancor resisteva nelle cune ombrose, in cerca di viole — ce n'eran tante — nascoste sotto lo strato di foglie cadute in autunno, le dolci mammole così umili e caste!…
   Che bello andare lungo i campi che verzicavano per il nascente grano o avevano un moto d'onda quando le spighe già alte dicevano di sì e di no ai venti, e i papaveri mettevano gocce di sangue fra il verde e i fiordalisi coriandoli di cielo!…
   Che bello andare lungo il torrente chiacchierino sotto i corimbi candidi e profumati delle robinie in fiore, fra i canneti che frusciano sempre, le alberelle che tremolano inesauribilmente, lungo i filari dove a festoni la vite si lancia con le sue ghirlande verdi e i suoi grappoli che divengono di topazio o di rubino al sole!…
   Quanto bello! Quanto bello! Quanto bello, per chi ti sente, o Dio, tu hai messo ovunque intorno a noi!
   Senza l'infelicità familiare sarei stata ancor più felice perché al lusso, alle visite, alla vita di città non ci tenevo e preferivo vivere fra la natura di Dio.
   Ero a Voghera da pochi mesi quando, non so di preciso come, mia mamma venne a conoscere che dalla vicina Casteggio tutti i giovedì un esiguo gruppetto di suore francesi, «Le Adoratrici del Ss. Sacramento», provenienti da Orléans e rifugiate lì dopo l'espulsione delle case religiose per la legge Combes, venivano a Voghera a dare lezioni di francese. Mia mamma decise di farmi andare a quelle lezioni. Non ne avevo alcun bisogno perché facevo la quarta maturità e perché ero già avanti. Ma insomma… Io penso sia stato Gesù che volle così.
   A Voghera papà aveva meno comodità di portarmi a Messa. Crescevo perciò come una paganella e avevo già dieci anni. Cominciava perciò un'età in cui più necessario che mai è l'ausilio della religione. Mia mamma non se ne curava. Le pareva che ne sapessi abbastanza in merito…
   Andai dunque tutti i giovedì dalle Suore Adoratrici per la lezione di francese. Ma se come studio rimasi dove ero perché, ripeto, ero già molto avanti e le mie altre compagne erano molto indietro, in compenso la mia anima venne rimessa in… comunicazione con Dio. Il filo giaceva, se non spezzato, coperto certo di incrostazioni, da quando avevo perduto il «mio Gesù morto» delle Orsoline.
   Le care Suore Adoratrici hanno rimesso in efficienza quel filo… cambiando, dirò così, stazione d'arrivo. Non Gesù Crocifisso, ma Gesù-Eucarestia. Il che in fondo è ancora Gesù-Sangue. Con molte insistenze ottennero da mia mamma di prepararmi loro alla Prima Comunione.
   Nel settembre 1908, abbreviando di un mese la vacanza estiva a Viareggio, entrai nel loro piccolo Istituto di Casteggio per prepararmi a ricevere Gesù.
   Le suore erano cinque: la Superiora Suor Giovanna della Croce, una nobile francese molto buona; la vicesuperiora Suor Giovanna (semplicemente); la mia speciale, quella che mi istruiva per la Comunione come mi istruiva per il francese, si chiamava Suor Maria. Alta, bellissima, un viso d'angelo che pareva mandare balenii di cielo. Ed era anche un angelo. Quando or è circa un mese l'Unione Cattolica Malati mi ha mandato la pagella-preghiera di Suor Maria-Gabriella1, la trappista santa, sono rimasta dolcemente commossa, perché quel volto assomiglia a quello della angelica Adoratrice che mi preparò a ricevere Gesù.
   Vissi un mese fra queste suore. Mi volevano molto bene. Pareva loro d'essere tornate nella loro dolce Francia, nel loro monastero dovuto abbandonare con tanto dolore, fra le loro care alunne… Quante cure, quanto affetto! Se non raggiunsi l'estasi dipese proprio solo da me che ero intirizzita da anni di letargo spirituale, e non da loro che più di quel che fecero non avrebbero potuto fare.
   Avrebbero anche desiderato che la cosa fosse fatta con pompa… Ma mamma decretò diversamente. Usai perciò lo stesso abito e lo stesso velo, candidi ambedue, della Cresima.
   Nessun ricordo ebbi in quel giorno da mia mamma. Non un libro, non una corona, non una medaglia. Nulla. E neppure permise a papà di venire. Giudicò che papà era «inutile». Solo Gesù sa come questo mi dette dolore!…
   I giorni che precedettero all'avvenimento feci il «ritiro». Giravo, io e Suor Maria, per il piccolo e festoso convento pieno dei fiori d'autunno, guardata con amore e con santa invidia dalle cinque suore e dalle cinque converse… Io credo che mi guardassero con venerazione persino gli abitatori del pollaio… Avevo in testa una coroncina di rose bianche a simboleggiare che ero «la petite fiancée de Jésus»…
   La sera avanti alla cerimonia trovai il mio lettino pieno di bigliettini d'amore: «Io dormo ma il mio cuore veglia», «Piccola mia, sono Gesù e t'aspetto», «Come è lunga la notte in attesa di te, anima che amo!». Suor Maria mi parlò come può parlare un serafino…
   Poi al mattino in chiesa, una gentile chiesina bianca e oro come uno scrigno, la cerimonia. Era la prima domenica d'ottobre, festa della Madonna del Rosario. Ufficiava il Rev.do Parroco di Casteggio.
   Le Suore cantavano2 con voci di angeli accompagnandosi sul­l'armonium:
 
   «O saint autel qu'environnent les anges…
   o jour heureux, jour céleste
   et propice, à vous bénir je consacre
   ma voix…»;
   
   e nel momento in cui Cristo scendeva in me per la prima volta, fra un grande tremore di anima e un brillio di lacrime che non son pianto ma son trasalimento di gioia, soavissimo il cantico3:
 
   «Devant Jésus, ployant leurs blanches ailes
   les chérubins s'inclinent à genoux
   et Lui, le Roi des splendeurs éternelles
   se fait petit pour venir jusqu'à nous.
  

   Heureux enfants, allez manger le pain des anges.
   Tous les trésors d'en haut sont ouverts en ce jour.
   Unissons-nous aux célestes phalanges.
   Chantons la foi, l'espérance et l'amour.
   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
   Au Golgotha, brisé par la fatigue,
   votre Sauveur marcha sans s'arrêter, 
   de tout son Sang, pour vous, il fut prodigue.
   Si vous l'aimez, vous devez l'imiter…»
  

   Mamma si comunicò con me perché così le avevano chiesto le Suore.
   Dopo ci fu la festicciuola, dirò così, umana. I piccoli doni delle Suore, del Sacerdote, tanto cari a me, il pranzo e infine alla sera, prima che io partissi con mamma per tornare a casa, la consacrazione a Maria4, ai piedi della quale depositai la mia corona di rose:
  

   «O Marie, o ma vie!
   A ton cœur maternel
   j'abandonne ma couronne.
   Garde-la pour le ciel!»
  

   La mia corona di rose!…
   Maria, la piccola innamorata di Gesù crocifisso, non doveva mai più portare corona di rose. La sua corona sarà sempre di spine, sulla terra, e sulle spine il suo sangue, gemendo da mille ferite, formerà le rose corrusche del dolore che solo nell'eternità si muteranno in rose eterne.
   Egli, il mio Salvatore, per me aveva dato tutto il suo Sangue, come cantava l'inno eucaristico delle Adoratrici. Io, per amor suo, dovevo dare tutto il mio sangue. L'ho dato. Lo do.
   Ma non creda che fu da quel momento una fusione perfetta e senza più turbamento. Oh! no! La formazione di Maria-ostia di Gesù fu lunga e laboriosa. Non le ho detto nel principio di questa storia che Dio non si impose a me, ma attese che io andassi a Lui? Opera di seduzione la sua ma non di imposizione. Mi innamorò di Sé e attese.
   Penso che ogni anima sia come la Vergine avanti l'annunciazione. Ogni anima essendo chiamata a formare Cristo come una sposa novella a formare la sua creatura. Il concepimento di Cristo in noi avviene quando noi diciamo il nostro: «Ecce ancilla Domini». Prima vi è solo l'invito del Signore, portato dal suo angelo, dalla sua ispirazione. Ma il fatto non si compie che quando un'anima, in un trasalimento d'amore, risponde il suo «Sì, voglio». Allora lo Spirito scende ad adombrare l'anima generosa e innamorata, scende col suo fuoco, con la sua luce, coi suoi doni, e il concepimento ha inizio. Cristo si incarna in noi, non già, lo so bene, come in Maria, ma si incarna e nasce spiritualmente, cresce, si informa e ci informa di Sé e tanto più cresce quanto più l'anima si annichila e si distrugge per far posto a Lui solo, finché, quando è giunta l'ora della massima perfezione concessa a quell'anima, essa dà alla luce sé stessa divenuta un'unica cosa col Cristo talmente cresciuto in lei da aver annullato tutto della creatura amante, restando solo Lui, Amatore.
   Non so se ho reso bene il concetto di quel che volevo dire.
   Io, nel giorno della Prima Comunione, ho ripreso il contatto con Gesù ed Egli riprese la sua opera di seduzione dell'anima mia, la quale per allora quasi non se ne avvedeva, così come la terra non s'avvede del lavorìo nascosto del chicco di grano spro­fondato nel solco, il quale pure germina e mette radici finché, un'alba, la terra stupita vede il miracolo d'un filo smeraldino erompere dalla zolla oscura.
  

   Ero tornata da pochi giorni a casa quando giunse dalla Francia, povero, malato e ateo, mio zio, fratello di mia mamma.
   Gli volli subito bene perché mi faceva pietà. Ma egli credo che bene a me non me ne volesse o per lo meno me ne volesse in maniera stranissima. Da quel cervello che è tuttora e che sempre fu: bislacco.
   Bisogna che faccia un poco di storia di questo disgraziato che fu rovina sua propria e cagione di tanto dolore.
   Testa dura per eccellenza, fin dai più teneri anni fu sempre il ribelle della famiglia e non si domò né sotto la severità paterna né sotto le cure materne.
   Mio nonno, che apparteneva alla Magistratura e che per la sua integerrima, severa, ma anche paterna condotta, era quasi sempre proposto a tutore di minori orfani ottenendo riuscite splendide dai suoi pupilli che sapeva guidare con fermezza ma anche con tanta bontà, mio nonno alle cui parole è legato il ravvedimento di molti colpevoli, perché non era solo colui che parla in nome della Legge punitrice ma anche in nome della Bontà che piange vedendosi vilipesa dagli uomini, non riuscì mai a raddrizzare l'animo del figlio, ultimo nato. Il quale fu sempre un ribelle.
   Intelligentissimo ma svogliato. Capace di riuscire in qualunque cosa si applicasse ma incostante. Amante del lusso e del divertimento, e per riuscire a stare all'altezza dei ricchi amici, che sempre cercava, faceva debiti che poi toccava a mia nonna, a mia mamma, all'altro mio zio a pagare, con sacrifici, per non addolorare il nonno e far dire del nome di famiglia.
   Quante notti di copie di processi (allora tutti gli incartamenti processuali venivano copiati a mano) non è costato ai due fratelli questo scavezzacollo! Quante lezioni, date da mia mamma, lezioni private il cui ricavato poteva usarlo per sé stessa e che invece doveva usarlo per tacitare gli obblighi del fratello minore! L'altro mio zio, giunto al suo diciottesimo anno, andò volontario nell'esercito e fece carriera. Uscì così dalle peste. Ma mia mamma restò in famiglia e fino al suo 32° anno5 dovette lavorare per quel poco di buono.
   Sposata mia madre, egli si mise subito in relazione con una giovane… Nulla di male se la differenza sociale fosse stata l'unica cosa che metteva un interrogativo penoso a questa relazione. Il male è che quella giovane era un compendio di vizio… La volle sposare ugualmente… L'unione fu quale doveva essere: un inferno. Lei si ridette ai suoi facili amori con la stessa libertà di una bestiolina. Chissà mai se mia cugina è realmente figlia di mio zio?…
   Scene in famiglia perché lui non permetteva quella vita di adulterio, debiti fuori perché i festini coi diversi amanti, mentre il marito era al suo ufficio di gestore delle Ferrovie dello Stato, richiedevano bottiglie di vini e liquori e dolci e carni prelibate… Giunse persino a tentare di sopprimere lentamente, per mezzo del veleno, il marito… Scoperta e minacciata di denunzia, pur di liberarsi del legame coniugale divenuto per lei un ostacolo alla sua vita di lussuria, penetrò nello studio del marito e rubò diverse migliaia di lire. Lui avrebbe dovuto denunciarla, era l'unica cosa da fare… Invece, dato che — nonostante le corna più numerose di quelle di una mandra di cervi — dato che l'amava, preferì scappare lui all'estero facendo accumulare su di lui dei sospetti vergognosi e lasciando al papà suo la briga di far risultare l'innocenza del figlio, cosa che per puro miracolo si ottenne, e a mio padre quella di rendere le migliaia di lire rubate da quella donnaccia…
   Mio padre pagò telegraficamente tutto per amore della moglie e per rispetto dei suoceri e poi continuò a sovvenire quel pazzo del cognato, che girò mezza Europa passando da un impiego all'altro, guadagnando denaro a palate e consumandolo a sacchi… Quando era nel benessere stava zitto, quando era alla fame chiedeva denaro… E mio padre si occupò della figlia (?!?) di mio zio. La mise in collegio levandola all'ambiente di vizio della casa materna, dove era una zia apertamente data al libero amore e sua mamma che continuava ad aver figli da Tizio e Caio, tutti messi sotto l'etichetta del casato di mio zio!!!
   La vita che questo conduceva all'estero non era certo tale da migliorare le condizioni sue, già scosse dal veleno che anni avanti la cara moglie gli aveva somministrato. Si ammalò dunque, consumando fino all'ultimo soldo e all'ultimo indumento, e una volta ridotto all'assoluta infermità e miseria… venne dal cognato. Il quale cognato lo accolse a braccia aperte, perché mio padre era un buono.
   Poco male sarebbe stato l'averlo con noi se fosse stato più sano e di corpo e specie di animo. Ma mio zio è ripugnante per il suo ateismo blasfemo. Le assicuro che devo fare uno sforzo a parlare di lui, a scrivergli di tanto in tanto, a pregare per lui, tanto la sua anima è una sentina d'inferno. Non apre bocca che per insultare Dio, la religione, i sacerdoti e i credenti che egli definisce «bigotti, falsi, viziosi, scemi», e simili altri aggettivi qualificativi. E quest'uomo venne presso a me pochi giorni dopo la mia Prima Comunione!
   Poi, era malato. I medici, tanto per essere alla loro altezza di penetrazione (!), definirono che era tubercoloso all'ultimo stadio (Bum!!!). Dove l'aveva la tubercolosi? Nel polmone, nel rene, nell'intestino? No certo. Sono passati 35 anni ed è ancora vivo nonostante abbia ormai 75 anni. Nel cuore malvagio, nel cervello blasfemo ha il microbo. Ma non il microbo della tubercolosi, bensì quello della malvagità, dell'ateismo più volterriano che ci sia!!! È un infermo. Quello sì. La sua vitaccia e cure errate gli hanno atrofizzato il movimento nelle gambe. Cammina perciò len­tissimamente con le gambe irrigidite, anchilosate dall'anca al piede. Non può dunque fare nulla di impiego pubblico, mentre amministrazioni private e specie presso Pii Istituti le tiene veramente bene, perché la testa è forte e la mano non trema. Possiede anzi il dono di una calligrafia perfetta come un saggio litografico. Ma insomma i dottori sempre illuminati (!), non mai abbastanza lodati per la loro illuminazione (!), decretarono che zio era malato e pericoloso per me, così tenera d'anni. O in casa lui, o in casa io. Insieme in casa, no. Pericolo di morte.
   Quell'anno ero passata alle complementari perché mamma sognava per me come apice di bellezza culturale di farmi divenire maestra… Maestra io che ho sempre odiato questa professione!! Io sarei stata una maestra zimbello dei miei scolari perché, per tema che avessero a soffrire quello che mia madre-maestra mi aveva fatto soffrire, avrei tutto concesso, tutto perdonato; perché, per tema di divenire acida, autoritaria, ripulsiva ai piccoli come era mia mamma, esemplare perfetto di insegnante (in tutte le virtù negative che fanno di un insegnante un «babau»), perché, per tema di questo, avrei ecceduto verso una eccessiva indulgenza, in una debolezza colpevole.
   Alle complementari avevo trovato una Direttrice uso mia madre. Impossibile. Era il compendio di tutte quelle qualità che mi avevano fatto soffrire sotto la sferza familiare. Ingiustizia, partigianeria, autoritarietà, severità spietata… era il terrore delle scolaresche!… e tutta la classe insegnatizia le andava dietro perché la Direttrice era potente per protezioni superiori.
   Io poi, che non portavo regali — mia mamma non cedeva a questa imposizione camorristica — ero fatta segno a tutti i soprusi. La stessa mamma, che non è certo mai stata indulgente, dovette intervenire in mia difesa davanti alle grandinate di rimproveri e di zeri che si abbattevano tutti i giorni e in tutte le materie su me che a scuola andavo preparata da mia mamma!!! Quanto piangere! Io che amavo lo studio come la vita e mi rifugiavo in esso, fonte per me di gioie che non trovavo altrove, nella mia triste casa, ero arrivata a non avere dello studio che il ribrezzo e la tema che abbiamo per cose che ci portano sempre dolore… Sfiduciata, avvilita, studiavo automaticamente senza più gioia, senza più scopo… Tanto ero sempre rimproverata lo stesso.
   Non bastando, si capisce, la Direttrice e le altre sue satelliti, a casa c'era lo zio: aspro, schernitore, ingiusto, che mi sbeffeggiava ad ogni minima parola, che mi metteva contro mia mamma e persino le mie Suore francesi!… Solo papà restava sempre buono!… Ma non c'era quasi mai… Lo vedevo solo a cena perché dopo io dovevo andare a letto per stare poco a contatto con lo zio.
   Ero divenuta di una ipersensibilità che mi strappava lacrime continue: ero tutta una piaga morale. La mia timidezza naturale, che già si era sempre accresciuta sotto la mano ferrea di mamma, aveva ora raggiunto un diapason che era realmente una malattia. Mi paralizzava. Se penso a me stessa, allora, mi pare di vedere uno di quei poveri cagnuoli senza padrone, randagi, tremanti di freddo, di paura, pieni di ferite, mendicanti un osso spolpato, una ora sola di riposo, una sola carezza, e che tutti prendono a pedate, che tutti cacciano, che tutti tormentano. Poveri paria che scontano quali colpe mai?…
   Io ero proprio così. Mi volgevo a destra: un rimprovero; a sinistra: uno scherno. Piangevo: ero punita. Studiavo: ero rimproverata. Giocavo. Ero rimproverata. Tacevo. Ero rimproverata. Parlavo. Ero rimproverata. In casa, fuori di casa. Sempre così. La mamma era inquieta con la Direttrice che, col suo colpirmi di brutti voti, indirettamente colpiva l'insegnante Iside Valtorta. Ma lo era per l'insulto fatto a Iside Valtorta. Per il male che faceva a me, no. Anzi ci si metteva anche lei ad aumentare quel male. Una vita d'inferno.
   Mio papà teneva sodo a non volermi allontanare di casa. Mia mamma, presa fra il rimorso di sacrificare sua figlia e la smania di proteggere il fratello, non sapeva che pesci prendere. Un pretesto ci voleva per persuadere che io divenivo una discola e bisognavamettermi in collegio per punizione e per mio bene. Unica scusa da attaccarcisi per giustificare presso sé stessa, presso papà, presso tutti, l'ingiustizia di sacrificarmi ad un fratello che oltre tutto non era un modello di parente. Il quale fratello, furbo matricolato come è, seppe sfruttare e lavorare molto bene la situazione.
 


   Maria-Gabriella Sagheddu (1914-1939), suora trappista di Grottaferrata, proclamata beata dal papa Giovanni Paolo II nel 1983.

   2 cantavano: "O santo altare che gli angeli circondano… O giorno felice, giorno celeste e propizio, a benedirvi consacro la mia voce…".

   3 il cantico: "Davanti a Gesù, piegando le loro bianche ali, i cherubini si prosternano e Lui, il Re degli splendori eterni, si fa piccolo per venire fino a noi. / O fanciulli beati, andate a mangiare il pane degli angeli. Tutti i tesori dall'alto sono aperti in questo giorno. Uniamoci alle celesti coorti, cantiamo la fede, la speranza, l'amore. / Al Golgota, spezzato dalla fatica, il vostro Salvatore andò senza fermarsi. Di tutto il suo Sangue, per voi, fu prodigo. Se l'amate, dovete imitarlo…".

   4 consacrazione a Maria: "O Maria, o mia vita! Al tuo cuore materno affido la mia corona. Custodiscila per il Cielo!".

   5 al suo 32° anno, quando sposò, il 20 novembre 1893, Giuseppe Valtorta (nota a p. 97). Iside Fioravanzi, madre di Maria Valtorta, era nata a Cremona l'11 settembre 1861 da Eliodoro Fioravanzi e da Giuseppina Belfanti.

MV a 10 anni