MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 13


Il 1919.

   Pochi giorni dopo la fine della guerra l'Ospedale S. Marco si chiuse ed io passai ad un altro ospedale insieme ai miei feriti che non volevo abbandonare.
   Era questo nel palazzo del Ginnasio Liceo G. Giusti in Via Carducci (o viceversa). So che passavo davanti alla Basilica della Ss. Annunziata, passavo sotto l'arco che unisce l'Ospedale degli Innocenti alle altre case e camminavo un bel pezzo per quella via, passando davanti al Museo etrusco-egizio ecc. ecc.
   L'Ospedale per una metà era bello, nel nuovo palazzo, ma per metà era brutto e triste: un antico convento di clausura. Finestrelle alte e strette quasi carcerarie, chiostri e cortili tetri, moniti scolpiti sulle arcate delle porte, clessidre, civette, teschi da morto… e scale, scalette, gradini, continui dislivelli che mettevano a dura prova il mio cuore sfiatato.
   Ai primi di gennaio, dopo una seconda «spagnola», non ne potevo più. Mi feci visitare prima da un medico e poi dal Primario del mio Ospedale. Col primo inventai una bella bugia. Dissi che ero orfana e che volevo sapere il mio stato con sincerità per potere dare una risposta a un giovane che mi voleva sposare. Mi occorreva sapere l'esatta verità. E me la disse. Col secondo non potevo dire questa bugia perché sapeva che avevo papà e mamma. Ma quell'ottimo uomo, padre lui pure, e non felice in famiglia, aveva intuito molte cose e fu meco molto paterno. Dopo avermi attentamente visitata, mi disse quel che pensava e che corrispondeva a quanto mi aveva detto l'altro. Si era verificato il «miracolo» di due medici che all'insaputa l'uno dell'altro dicevano la stessa cosa!!!
   Il professore volle parlare poi con mia mamma. Tenga nota che alle visite ero andata da sola, perché non potevo più andare avanti così e mamma non vedeva il mio stato e non lo ammetteva se io glielo dicevo. Cosa le disse il professore non lo so. Quello che so è che tornò a casa mogia mogia, e per qualche tempo fu abbastanza tenera.
   Ma la cura non mi migliorava. Il cuore diveniva sempre più stanco. Anche l'insonnia mi tormentava. Forse proveniva dal grande e continuo palpitare violento del cuore, che nella notte, stando coricata, aumentava. Ma non avevo terrore della morte. Anzi…
   Solo avrei voluto rivedere le mie Suore, le mie compagne. Sentivo che se avessi potuto andare in Collegio per qualche tempo, come potevano fare le mie compagne, le ultime agitazioni si sarebbero spente in una pace soprannaturale. Lo avevo sempre capito questo, anche nei momenti più turbati, e avevo sempre desiderato di rifugiarmi in quel nido di pace per ritrovare la pace. Ma non m'ero neppure mai provata di dirlo a mamma, la quale contrastava già il mio epistolario con le Suore. Ora che mi sentivo morire lo desideravo più ancora. Fra l'altro mi dicevo che una volta là, se mi avessero tenuta come insegnante, avrei anche potuto finire col monacarmi.
   Ormai guardavo di nuovo molto a Dio e avrei desiderato mettermi per sempre al riparo di tutto in un convento e sotto una veste monacale.
   Non vedevo ancora chiara la volontà di Dio. Percepivo già che Egli mi attirava, mi attirava, mi aspirava a Sé. Ma sbagliavo credendo che mi volesse in un convento. Questo era una aggiunta di desiderio mio. Il convento, come la morte, mi avrebbe liberata da tutte le lotte familiari. Esausta di tutto il sofferto, non desideravo che questo. Uscire dal mondo, in un modo o nell'altro, per non soffrire più. Ma invece dovevo restare nel mondo e soffrire smisuratamente di più.
   Dovetti abbandonare il mio servizio ospitaliero perché proprio non ce la facevo più. Mi staccai dai miei ragazzi, tutti condannati a infermità mortali, con tanta pena.
   Nel maggio venne a Firenze mia cugina Clotilde1, col figlio di 8 anni. Venivano da Reggio Calabria. Aveva da poco perduto tragicamente un figlio giovinetto e l'altro, che ormai era unico, era colpito da una mastoidite, almeno pareva così. Li avevano indirizzati a Firenze per sentire il parere dei professori pediatri dell'Ospedale pediatrico Mayer.
   Io conoscevo molto bene il Primario e mi detti da fare. Per fortuna la pretesa mastoidite non era altro che una glandola sottolinguale infiammata. Un tagliettino di tre centimetri, venti giorni di degenza, nessuna cicatrice e tutto fu finito. Ma io quei venti giorni li passai al Mayer insieme al piccolo operato e alla sua mamma, che mi voleva molto bene e mi capiva meglio ancora perché, essendo parente, sapeva il carattere di mia mamma e perciò… se anche io non parlavo capiva lo stesso tante cose. Volle parlare anche col professore che mi aveva in cura e, avendole questo detto che la cosa migliore per aiutare le cure era «levarmi dall'ambiente familiare, causa prima dei miei malanni e sorgente continua di turbamenti atti ad aggravare il mio stato», provvide in merito. Mia cugina Clotilde ne parlò coraggiosamente a mamma.
   Non ha peli sulla lingua mia cugina Clotilde e non ha paura di nessuno. È una piemontese tutta di un pezzo. Certuni la dicono non buona. Sarà. Ha molto sofferto e ciò le ha alterato il sistema nervoso, ma con me fu sempre buona e materna. E sì che vissi con lei per due anni!
   Dunque mia cugina disse a mamma di affidarmi a lei. Saremmo andate prima a Torino, sua città natìa, e dopo mi avrebbe condotta a Monza dalle mie Suore. Mamma cedette. Certo a malincuore e mandando a quel paese la cugina. Ma cedette. Scrisse alla Superiora e avuta risposta che ero attesa partimmo per Torino.
   Furono dei bellissimi giorni. Clotilde mi portò, oltre che per la città, a Racconigi, Stupinigi, Moncalieri, Superga, ecc. ecc. Lo stare con lei e col suo bimbo, fra tante cure, mi fece migliorare subito. Miglioramento più morale che fisico ma che contribuiva a darmi un aspetto meno sciupato.
   Dopo qualche tempo partimmo per Monza. A Torino mi era giunta una lettera affettuosissima della mia Superiora, scritta a fatica, perché era molto ammalata di cuore, ma riboccante d'affetto. Mi diceva che lei e le Suore mi attendevano con ansia…
   Ero felice! Felice dopo tanti anni! Avrei rivisto il mio Collegio, le mie Suore, avrei rivissuto per un mese o due, forse per sempre, quella vita calma, ordinata, pia; avrei rivisto le mie compagne, in parte già sposate e con figli, in parte nubili come me! Le avevo tutte avvertite…
   Ma potevo mai essere felice? Non per nulla mi chiamo: «Maria». Nome di predestinazione ma nome di dolore. Io pure dovevo, secondo l'etimologia del mio nome, essere: «Mirra del mare e mare amaro». Dovunque dovevo trovare il dolore, anche dove, per essere la cosa o il posto più che lecito e santo, era presumibile avessi a trovare un poco di gioia…
   Arrivata a Monza la sera del 10 giugno, andai subito al Collegio. Che palpito di gioia e di emozione quando suonai a quel­l'am­pio portone! Che onda di ricordi quando valicai la soglia e mi trovai nel cortile d'onore e penetrai nel salone da ricevimento! Che commozione quando sentii avvicinarsi il passo, ritmato dal tintinnìo leggero della lunga corona del rosario, di una suora! Anche ora, quando c'è la finestra aperta e passano delle suore o viene Lei, io percepisco subito il rumore della corona pendente dalla cintura e penso alle mie Suore…
   Per prima venne la vice-superiora. Mi salutò, un po' freddina in verità. Ma non era mai espansiva e non ci feci caso. Poi venne la mia povera Superiora, ansante e gonfia dal male di cuore. Fu affettuosissima come sempre.
   La vice-superiora mi avvertì che nel Collegio non c'erano letti e che avrei dovuto andare a dormire presso delle altre suore adibite al servizio della Cattedrale. Monza ha un Arciprete mitrato e un Capitolo come fosse luogo di Curia.
   Veramente, come fece notare mia cugina, sarebbe stato meglio fossi rimasta in Collegio, dove ero conosciuta. Si era scritto apposta molti giorni avanti per sentire se era possibile ospitarmi, naturalmente pagando la mia retta. Ma io, pur di stare presso le Suore, accettai tutte le condizioni. Salutai Clotilde e Memmino e restai in Collegio.
   Non vidi nessun'altra suora. Dopo una mezz'ora circa una mandataria mi condusse al conventino dove avrei dormito. Le suore di esso mi accolsero con molta bontà scusandosi di dovermi dare una camera non moderna. E che me ne importava? Venni condotta infatti in una vasta stanza il cui mobilio doveva ricordarsi di Radetzky e delle 5 Giornate del 1848… C'era un letto talmente alto che per coricarmi dovetti prendere una sedia e farmene una specie di scala per arrampicarmi lassù, pregando il mio angelo di non farmi cadere nel sonno…
   Ma insomma ero a Monza, presso le Suore. Tutto il resto era un nulla rispetto a questa gioia.
   Non cenai perché fin da allora mangiavo pochissimo. Sorbii solo una tazza di caffè, ordinatami dal medico per sostenere il cuore. E mi coricai e dormii anche, finché le campane del Duomo, vicinissime, non mi destarono all'Ave Maria.
   Scesi dal mio… catafalco, mi vestii svelta svelta e andai ad ascoltare la Messa. Non feci la Comunione perché non trovai un confessore. Ma mi ripromisi di farla la mattina dopo in Collegio. Nella giornata avrei organizzato meglio la mia vita… Sorbii un altro caffè per colazione e filai al mio Collegio. Di Monza ero molto pratica, non avevo perciò bisogno di essere accompagnata.
   Suonai, entrai, venni condotta in sala. Aspetta, aspetta, aspetta… Non veniva mai nessuno. Le nove, le nove e mezzo… Finalmente ecco la vice-superiora. Seria, direi quasi arcigna, mi chiese se avevo dormito bene e se avevo fatto colazione. Poi principiò subito un lungo discorso a base di: «Sai bene, il regolamento, i precedenti non vanno creati, ecc. ecc.», la cui conclusione era: «Qui non ti vogliamo».
   Feci notare che si era scritto avanti, che il regolamento accoglieva appunto ex-educande desiderose di passare come pensionanti qualche tempo nel Collegio pagando la retta, che perciò io non creavo un precedente ma seguivo le abitudini vecchie di oltre mezzo secolo, che non ero malata contagiosa (avevo con me le diagnosi e le prescrizioni mediche), che non avevo fatto dire di me e perciò non ero causa di scandalo, che, infine, ormai ero lì, sola, essendo mia cugina partita per Bologna, e che bisognava tenermi finché fosse tornata lei. Almeno fino allora.
   Niente. La suora era inesorabile. Mi rispose che non ero una bimba, avevo 22 anni e potevo viaggiare sola. La supplicai di lasciarmi lì almeno, finché avessi potuto salutare le mie compagne che dovevano venire in settimana. Niente. Supplicai di nuovo che mi si lasciasse telefonare almeno a quelle che erano di Monza e che mi avrebbero ospitato con gioia per qualche giorno. Mi avevano invitata tante volte! Niente. Dovevo partire.
   Davanti a tanta inspiegabile inesorabilità, a tanta durezza che mi respingeva, chinai il capo. Piansi. Un altro sogno, accarezzato per tanti anni, che si dileguava quando credevo fosse divenuto realtà…
   La vice-superiora mi chiese se volevo andare in chiesa… Che domanda! Direi: che domanda sciocca, se non rispettassi ancora chi me la fece.
   Mi condusse nella nostra bella cappella. Il Sacro Cuore dal­l'al­tare maggiore mi tese le braccia. Non c'erano che Lui e la suora organista, al suo organo in cantoria, che ripassava una Messa cantata…
   Mi rifugiai presso l'altare e piansi, piansi, piansi… finché tornò la vice-superiora a dirmi che mia cugina era tornata. Clotilde, donna esperta nel conoscere i visi umani — ha un grande albergo e negli alberghi si diventa veri maestri nell'arte di conoscere i caratteri — non si era fidata delle parole melate della vice la sera avanti, ed era rimasta a Monza per un'altra giornata.
   Appena mi vide disse energicamente, come è suo uso: «Mia cara devi rassegnarti. Le Suore non ti vogliono. Mi spiace per te, ma che ci vuoi fare?».
   «Ma le pare, signora? Noi la vorremmo, ma lei capisce bene…».
   «Capisco che non la vogliono. Però sarebbe stato più corretto scriverlo subito o quanto meno dirlo apertamente ieri sera. Se io fossi partita, lusingandomi che tutto era a posto, loro mettevano in treno Maria sola, in tempi di scioperi, e sofferente di cuore». E a me: «Sù, andiamo. Non si resta dove non si è amati».
   La vice capì di aver agito male e insisté che rimanessi, somma grazia, fino a sera per farmi vedere le Suore. Noti che non le avevo ancora viste. Intanto, disse, avrebbe provveduto ad avvertire le mie compagne di Monza. Disse così ma non lo fece per paura che esse mi trattenessero.
   Clotilde cedette. Rimasi dunque fino alle 17. Ma io credo che un delinquente pericoloso o un appestato non sarebbe tenuto diversamente da come fui tenuta io. In fondo al giardino tutto il giorno, meno che nell'ora del pasto che mi fu servito in una saletta remota…
   Mangiare, non mangiai. Non potevo. Il dispiacere mi faceva nodo. Presi un panino per ricordo, e l'ho tenuto fino a pochi anni fa. Poi si era tarlato e l'ho buttato via. Padre Cristoforo, nei «Promessi Sposi», tiene nella sua sporta fratesca il pane del perdono. Io ho portato meco, oltre venti anni, il pane della ripulsa.
   Le mie Suore non mangiarono quel giorno per farmi compagnia. Non approvavano loro il modo di fare della vice-superiora, della ultrapotente vice, che faceva e sfaceva a suo piacere da quando la Superiora era quasi inebetita dalla sua malattia. Ma non potevano far nulla.
   La Superiora venne, soffiando come un mantice, a scusarsi. Pianse… Povera donna! Ormai era finita!… Con lei non ebbi mai rancore, ma mentirei se dicessi che per la vice-superiora non sentii «sapor di forte agrume». Ora è morta e la morte pone fine a tutto. Spero che Dio le abbia perdonato anche questa durezza a mio riguardo, ma certo non si può dire che usò meco della carità. Ne converrà anche Lei.
   Come mi sarebbe stata agevolata la via del mio andare a Dio se avessi potuto fermarmi là! Ma non importa. Posso dire con gioia che quello che sono divenuta lo devo a me sola, senza coefficiente di ambiente e di vita in comune con le spose di Cristo. Gesù ha lavorato Lui, Lui solo l'anima mia, ed io ho risposto e sollecitato il suo lavorare in me.
   Benedico Mario e i miei feriti per avermi dato la spinta iniziale, ma poi tutte le lodi le devo dare a Dio solo e un poco di plauso all'anima mia che, una volta iniziato il suo andare, andò sempre accelerando la corsa.
   Tornai a casa così triste e sfiduciata che finii di ammalarmi. Potevo proprio dire3: «Il passero si trova una casa e la tortorella un nido, ma io non trovo nessuna dimora per soffrire in pace il mio tormento». E allora, sfiduciata di tutto e di tutti, dopo aver detto: «…nel mio smarrimento: ogni uomo è menzognero», ho rivolto il mio volo ferito verso Dio. Devo riconoscere che più che un volo era uno starnazzare, un andare a sbalzelloni, ma insomma era già un andare verso Gesù.
   Se due anni avanti m'ero alzata dal fango tenace, se un anno avanti m'ero lasciata trascinare davanti all'altare perché da me mi vergognavo andarvi con frequenza… — non vi è peggior momento di quello in cui la coscienza si ridesta! Sia il demonio, sia quello che sia, siamo portati ad esagerare la colpa, a giudicarla imperdonabile, ad allontanarci da Dio per vergogna, in luogo di gettarci ai suoi piedi e dire umilmente: «Signore, salvami perché ho peccato! Signore, mondami ché son lebbroso! Signore, ricordati di me nel tuo Regno!» — se prima avevo fatto solo così, così poco e così male, ora, sotto il nuovo colpo doloroso, trovavo la forza di muovermi da me, come un cavallo stanco sotto la sferza che lo frusta.
   «L'empio abbandoni la sua via e l'iniquo i suoi pensieri, e ritorni al Signore che ne avrà misericordia, al nostro Dio che largheggia nel perdono»; «Io andrò in cerca delle pecorelle smarrite, ricondurrò le cacciate, legherò le fratturate, ristorerò le deboli, terrò d'occhio quelle grasse e robuste e le pascerò con giustizia». Ma non sembrano scritte per me e per tutte le povere anime, ammalate come lo era la mia, queste parole3?
   Io, zoppiconi zoppiconi, mi trascinai verso il Signore ed Egli, largheggiando con la sua misericordia, legò le mie membra fratturate, ristorò la mia debolezza, mi prese in grembo per farmi dormire al morbido, al caldo, perché ero tutta una ferita, perché non c'era che Lui ad amarmi, perché dovevo guarire per servirlo, per seguirlo, per imitarlo, per amarlo nella grande luce piena, completa, libera, forte di un amore assoluto e senza più dissipazioni, freddezze, ritorni all'umano.
    Ormai mamma e chiunque altro potevano mettermi anche sotto i piedi. Avrei sofferto ancora. Ciò è naturale. Ma ogni sofferenza, invece di allontanarmi da Dio quasi facendolo colpevole di quel dolore, mi avrebbe sempre più stretta a Dio, perché ormai sapevo che Lui solo mi amava, che Lui solo voleva il mio bene, che da Lui non mi veniva che del bene e che il male era solo dato dalle creature.
   Ogni dolore è stato colpo di martello che ha sempre più conficcato i chiodi che mi uniscono alla croce di Cristo. E se è croce non accetterei per questo nessun letto regale in luogo di essa. Perché essa è letto nuziale dell'anima col Cristo così come la sofferenza, come dice Ruysbroeck, è la veste nuziale di Cristo.
   Come Lei avrà notato, molti dei ponti che mi univano alle creature erano stati spezzati e molti dei miei rami che si tendevano in abbracci verso altri alberi erano stati tagliati. Dio lavorava a isolarmi per avermi tutta per Lui. Rimaneva solo il ponte, l'amicizia per Mario. Molto cara al cuor mio.
   Il giovane insisteva sempre sui suoi propositi e io sui miei. Ma più io insistevo nel dirgli che io non ero più capace di amare nel senso che ha questa parola per i più, e più lui si ostinava rispondendomi che non gli importava che io lo amassi come marito ma che gli bastava che io mi lasciassi amare da lui. Poi piano piano sarebbe venuto il mio amore.
   Ricordavo Roberto? Benissimo! Anche lui lo ricordava. Al primo bimbo avremmo messo il suo nome. Ero triste? Niente di male. Avrebbe pensato lui a farmi così felice che io sarei divenuta lieta per forza. Ero sofferente? Cosa senza importanza. Il suo amore mi avrebbe guarita a furia di tenerezza, perché infine io ero malata perché troppo derelitta. E qui aveva ragione.
   In ottobre dovetti subire un vero assedio. Io rimanevo sulla negativa, per quanto tanto affetto mi cominciasse a scuotere e penetrare. Il colonnello si unì al figlio per farmi capitolare. Un giorno mi disse che Mario aveva bisogno di partire tranquillizzato per sostenere in pace gli ultimi esami ormai prossimi e che era ora di finirla con i «veti» assurdi di mia mamma. Non era giusto che io mi sacrificassi a delle ubbie. Mi rimproverò anche, benché con molta dolcezza, dicendo che io esageravo circa l'intransigenza materna. Ne avevo ombra come un cavallo.
   Io continuai a dire: «Aspettate! Più qua». Avevo paura. Ricordavo la scena del 5 gennaio 1914 e non volevo si ripetesse. Ma Mario non mi dette retta. Con la fretta degli innamorati una mattina, e precisamente il 3 novembre 1919, approfittando di esser solo con mamma, parlò. Una domanda vera e propria.
   Apriti, o cielo! Il povero Mario non fu sbranato perché… era molto più grosso di mamma, ma poco ci mancò. Fu, come prevedevo, invitato a non rimettere più piede in casa nostra.
   Nel pomeriggio il colonnello mi raggiunse per strada mentre facevo passeggiare il mio cane. Ero molto triste perché avevo dovuto subire rimproveri su rimproveri e perché pensavo che anche questa amicizia era spezzata.

 Le tue consolazioni, Signore,
 hanno colmato di gioia l'anima mia,
 in proporzione del numero dei dolori
 che hanno trafitto il mio cuore.
 Salmo 93- v. 19

   Era molto disgustato il colonnello e disse il suo pensiero chiaramente. Mi spiacque vederlo così inquieto. Ma così si persuase se io esageravo o meno. Mi disse che ad ogni modo egli mi considerava fidanzata di suo figlio. A meno che io rifiutassi assolutamente. Allora avrebbe dovuto dire che io pure ero una falsa come mia mamma, perché avevo sempre fatto credere a Mario che col tempo avrei finito con l'essere sua, mentre invece volevo farmi beffe di lui come se ne faceva mia mamma, rovinandolo così sul più bello degli studi.
    Questo non era vero. Io avevo sempre spiegato il mio pensiero a Mario e a suo padre. Ma il dispiacere delle volte fa dire delle cose non vere. E il colonnello era molto addolorato.
   Mi pregò di non insistere nel mio no, mi disse che un giorno lo avrei ringraziato di tanta insistenza sua perché con Mario sarei stata felice. Mi disse che la mia amicizia così fedele era il miglior preparamento ad un fedele amore che, se non avrebbe avuto le vertigini dell'amore-passione, avrebbe però di certo avuto il grande dono di una costante durata, sempre uguale per intensità e tenerezza.
   «Gli amori amichevoli sono quelli destinati a durare di più, cara. La consuetudine non li sciupa, la vecchiaia non li spegne. Sono amori che resistono a tutte le prove, a tutti gli eventi. Né l'età, né lo sfiorire delle grazie fisiche e il nascere in sua vece dei difetti morali, propri dell'età matura e oltre, lo tangono. L'amicizia, quando è vera, non è suscettibile di nessuna menomazione, e quella di Mario era veraperché non solo durava da anni ed anni ma si era sempre più affermata e aveva dato le prove più belle di essere una fonte di bene».
   Se suo figlio era divenuto così bravo era perché a mèta di ogni suo lavoro, studio, sforzo per migliorarsi, aveva messo me. E che altra prova volevo maggiore di questa? Dove avrei mai più trovato uno che sapesse amarmi così per la mia anima che si era legata alla sua dalla prima giovinezza in un legame così puro e costante come quello di una amicizia fedele?
   Ed io pure, povera ochetta che credevo di non amarlo, Mario, lo amavo dell'amore più vero, tanto che il pensiero di perderlo mi angustiava così fortemente. Ero solo una inceppata, accecata dalla paura di mamma, da cento scrupoli che andavano dall'idea di offendere la memoria del morto Roberto a quella di esser malata troppo per fare un uomo felice. Per Roberto mi mettessi in pace. Ci mancherebbe altro che tutte quelle che perdono il loro innamorato si condannassero a perpetuo sacrificio! Circa la salute egli, prima di dare tutti i consensi a suo figlio, aveva interrogato il professore che mi curava ed aveva avuto l'assicurazione più ampia che il mio male era più che altro dato da esaurimento nervoso, conseguenza di tutto quello che avevo sofferto e soffrivo. Una volta felice in casa mia, presso un marito che mi volesse realmente bene, sarei guarita completamente.
   Fu eloquente il colonnello, lui che parlava sempre così poco! In ultimo mi disse di consigliarmi anche con altre persone di mia fiducia prima di dare un rifiuto assoluto.
   Lo feci. In fondo sentivo io pure che l'amicizia di un tempo s'era mutata in una affezione più profonda. Il sole riesce anche a scaldare i ghiacciai quando è continuo… e Mario, da anni ormai, scaldava il mio cuore intirizzito con tutte le più delicate industrie di un vero amore.
   Ma prima di cedere mi rivolsi a tre persone: un sacerdote gesuita che conosceva molto bene me e Mario; una nostra comune amica, donna di una religiosità profonda, vera, perfetta, al corrente di tutte le idee di mia mamma e delle conseguenze di queste idee a mio danno; e un senatore, giurista emerito, primo Presidente alla Suprema Corte di Cassazione, marito, padre, nonno, cittadino esemplare: una coscienza retta, una mente equilibrata, un cuore aperto all'amore come di simili non ne incontrai altri. Mi voleva molto bene e spesso preferiva uscire con me anziché con le nipoti, troppo moderne, diceva lui, ossia troppo leggerine. Questo senatore conosceva anche Mario per averlo trovato presso di noi.
   Ebbene: il sacerdote, la signora anziana e pia, il senatore giurista e buono mi esortarono tutti e tre ad accettare questo amore senza impaurirmi delle «scomuniche» materne. E mi portarono tutti e tre degli argomenti sulla cui giustezza non c'era da eccepire.
   Stetti ancora incerta qualche giorno, pregando molto e meditando molto sul da farsi, e poi mi decisi. Accettai.
   Il colonnello mi chiamò «figlia» e mi promise che avrebbe pensato lui a mettere a posto mamma con le sue idee egoiste. «Ho vinto tante battaglie nella mia lunga carriera di soldato che ha partecipato a tre guerre. Vedrai che vinco anche questa. Voi vogliatevi sempre più bene. Scrivetevi da fidanzati ormai. La posta verrà qui da me o presso la signora Paola, se preferisci, dato che siete vicine di casa. A primavera Mario è ufficiale e allora daremo la battaglia campale e vinceremo».
   Mario era felice. Io avevo un poco di tremarella, ma direi una bugia se dicessi che non ero contenta. Pensavo che presto avrei avuto una casa mia dove avrei potuto vivere e rifiorire in pace, senza essere sempre oppressa dal dispotismo materno. E poi avrei avuto dei bambini!… Oh! i bambini! La leva che mi ha mossa, la più forte di tutte, sono stati i bimbi. L'idea di avere delle creature mie alle quali dare tutto quell'affetto che io non avevo avuto per farli felici, felici, felici!…
   Settimanalmente ci scrivevamo. Le lettere di Mario erano riboccanti di amore. Le mie erano più freddine. L'abitudine di trattarlo da amico sopravviveva in me. Ma sentivo che il mio cuore assiderato si andava scaldando di giorno in giorno.
   Mamma, convinta di aver messo a cuccia quel ragazzo, non aveva perdurato nel suo divieto acciò egli scrivesse e io rispondessi. Ma questa corrispondenza compassata, ufficiale, l'unica che apparisse, altro non era che un accompagnamento di note basse all'inno di amore squillante che Mario cantava nelle sue lettere, dirò così, officiose, private, che ormai alimentavano il mio animo con un balsamo di vita.
   Pregavo molto che tutto andasse bene fino in fondo, che il buon Dio toccasse il cuore a mia madre… Sì, pregavo molto. Pregavo come pregano quasi tutti i mortali chiedendo a Dio di fare la nostra volontà, dandoci ciò che chiedevamo. Non chiedevamo, in verità, cose disoneste. Ma talora il buon Dio giudica bene non darci neppure le cose oneste. Felici coloro che in questo caso sanno dire: «Sia fatta la tua volontà!». Felicissimi poi coloro che, prima ancora di chiedere a Dio una cosa, dicono sempre: «Signore, fa' Tu. Io non chiedo nulla. Solo la tua volontà regni e operi!». Non ero ancora arrivata a tanto. Bisognava che mi fossi ancora intrisa nel pianto, in molto pianto, prima di giungere ad annullare in Dio la mia personalità umana, al punto di non chiedere altro che il suo amore e che Egli usasse di me come meglio gli pareva. Quando fossi arrivata a tanto avrei trovato la tranquillità perfetta perché, come dice S. Caterina da Siena: «Chi si conforma alla volontà di Dio trova la pace».
   Passò l'inverno così. Io miglioravo un poco perché ora mettevo il mio impegno nel migliorare per fare felice Mario che mi voleva così bene.
   Al 24 gennaio 1920 Mario venne in licenza. Fece solo poche visite, contegnose oltre misura, per non scatenare altre ire materne. Ma trovò il modo, su terreno neutro — veda in casa di quella nostra comune amica — di parlarmi non da amico ma da promesso sposo. Un solo colloquio e un solo bacio. Onesto e caro colloquio e casto, castissimo bacio. Furono il nostro viatico per le ormai prossime battaglie.
   Mario tornò ai suoi studi, potrei dire ai suoi esami finali, ormai. Io… andai inconsapevole incontro a una disgrazia che fu origine di altre disgrazie.
   Cominciavo a stare proprio benino. Avevo ancora molto cardiopalmo, ma ero ingrassata e mi era tornata dell'energia. Il professore era contento.
   Il 17 marzo uscii con mamma per andare a ringraziare una nostra amica molto vecchia, una nonnina che mi voleva bene e che mi aveva fatto un regalo per il mio ventitreesimo compleanno, avvenuto il 14 marzo. Al ritorno, nei pressi di casa mia, mentre camminavo dando braccio a mamma che per la sua vista molto alterata inciampa in tutte le più piccole sporgenze e cade, fui colpita alle reni da un piccolo delinquente, figlio di un comunista e della nostra modista. Con una sbarra di ferro, levata ad un letto, mi venne di dietro e a tutta forza, gridando: «Abbasso i signori e i militari», mi dette una mazzata.
   Il rumore fu tale che mamma credette avesse tirato una pietra e che questa avesse rimbalzato, suonando, sul marciapiede. Invece era il rumore del ferro sulle mie vertebre. Noti che per il male di cuore non portavo nessun busto e perciò mi mancò anche quel riparo. Sentii un così forte dolore che mi inginocchiai per terra. Le gambe non mi reggevano. A fatica potei poi rialzarmi e trascinarmi fino a casa.
   Spogliata che fui, si vide che avevo una forte contusione alla regione renale. Dalla colonna vertebrale venendo verso il fegato avevo un segno rosso, quasi escoriato. Mi fecero degli impacchi che calmarono il dolore. Forse, anzi di certo, feci male a non volere subito un medico. Ma non credevo di esser stata così pericolosamente colpita. Non sono mai stata una «fifona» per il male. Come mio papà sono invece stata sempre fin troppo stoica nel male fisico.
   Passò il venerdì e il sabato. Io, oltre alla sofferenza della colpitura, che mi doleva se la toccavo o se mi appoggiavo sul dorso stando a letto, avevo anche delle sofferenze strane. Capogiri, scintillii davanti agli occhi, nausee intense e una grande, grande stanchezza. Però mi alzavo lo stesso dalle 9 alla sera.
   La domenica mattina andai in chiesa e feci la Comunione. Molto a fatica perché lo stare in ginocchio mi era dolorosissimo. Mamma provò a prendermi dei cibi che più mi piacevano perché non riuscivo a nutrirmi. Tutto mi ripugnava. A mezzogiorno mangiai un quarto di piccione arrosto e nient'altro.
   Al pomeriggio si sarebbe dovute andare fuori con quella signora amica che mi aveva consigliato per Mario, un'altra signora, io e mamma, per recarci ad una Esposizione. Io tentai di restare a casa e mamma, in verità, non mi forzò ad uscire. Anzi voleva restare a casa con me. Ma le altre due insistettero: erano pochi passi e mi avrebbero fatto bene… Uscimmo dunque. Io mi trascinavo a fatica e a tutti i sedili che incontravo mi fermavo.
   A cena non presi nulla. Mi coricai subito più stanca che mai. E dormii.
   Alle tre di notte fui svegliata da un dolore così atroce che non l'ho più riprovato uguale. E sì che di dolori tremendi ne ho tanti e da tanto! Ebbi la sensazione che un rene, o qualche altra cosa, si strappasse dai suoi legamenti e ruzzolasse verso l'inguine. Ma un dolore, un dolore! Divenni un gomitolo. Tutta bagnata di sudore freddo, rattratta, con conati di vomito. Non potevo parlare, muovermi, gridare. Morivo.
   Il mio canino, che dormiva nella sua cuccia in un angolo della camera, se ne accorse e si dette a ululare. Mi salvò perché mamma accorse, accorse papà, chiamarono la signora amica, un dottore. Era il proprietario di casa e stava al terreno. Con opportuni soccorsi uscii dall'agonia. Ma venne un febbrone.
   Io credo che si fosse prodotto un ascesso al rene e questo, nel rompersi, avesse inquinato il sangue, perché avevo attacchi di setticemia. In ospedale avevo avuto modo di conoscere le fasi della febbre settica che passa da un minimo di temperatura, fra brividi incoercibili, ad un massimo più volte al dì. Dico: credo, perché nessuno dei medici e dei consulenti ci capì nulla. Chi diceva una cosa e chi l'altra. Visite interne e esterne non approdarono al risultato sperato di una diagnosi.
   Tre mesi di letto, di febbri che raggiungevano i 40 gradi, sofferenze fortissime, tre volte quasi uccisa per cure sbagliate che mi colpivano il cuore ancora debole facendomi sfiorare la paralisi cardiaca. Ma nessuno capì niente. Nessuno ebbe il sospetto che fosse lo speco vertebrale il grande malato. Se ne accorsero quattordici anni dopo…
   E Mario? Mario, avvertito da suo padre, era tutto in agitazione. Io, con immensa fatica, nelle mie eterne notti, gli scrivevo per dirgli che non stavo poi molto male… Vedere il mio scritto era la cosa che più lo persuadeva che io non fossi grave. Gli scrivevo perciò e davo la lettera al colonnello perché la imbucasse o alla nostra amica. Di notte ero sola perché non volli mai essere vegliata, e perciò potevo scrivere i miei rassicuranti bigliettini.
   Ma invece stavo così male che, io più di tutti, e poi tutti gli altri, medici compresi, credevamo proprio che avessi a morire.
   Me ne dispiaceva? No, affatto. Sarà stata la grande debolezza, sarà stata l'idea che la morte risolveva tutto, anche l'ormai prossima lotta per ottenere la libertà di amare, sarà stata una grazia speciale di Dio, sarà stata la volontà di Dio, sarà stato quello che sarà stato, il certo è che io ero rassegnata. Più ancora che rassegnata, contenta di sentirmi finire.
   Mi pareva di galleggiare su un placido fiume che mi portasse dolcemente con sé. Alla foce vi era l'eternità. Non posso dire che pensassi come penso ora, con una intensità che è quasi visione: «Là c'è Dio che mi attende». No. Ma pensavo che quell'eterno giorno che si avvicinava mi avrebbe dato la pace, perché ero già arrivata al punto di sperare fortemente nella misericordia di Dio. Quando un'anima spera fortemente nel Signore è già un bel pezzo avanti nella via della salute.
   L'idea della misericordia di Dio porta con sé fiducia, riconoscenza, tranquillità, amore e umiltà. Si riconosce di avere mancato e ciò ci tiene nella santa umiltà, virtù necessaria perché Dio operi in un'anima. Si è tranquilli perché, se è vero che ricordiamo le nostre mancanze, ci conforta però l'idea che Iddio è Colui che vuole misericordia e non sacrificio e che nel suo amore misericordioso ci perdona e assolve se noi gridiamo a Lui la nostra speranza di assoluzione. Si è riconoscenti perché, come non potremmo esserlo con un così benigno Padre che è disposto a perdonarci fin da prima che noi si pensi a chiedergli perdono? Proprio come un buon papà che si accora delle colpe di un figlio, ma nel suo amore le scusa e anticipa col pensiero la gioia di quel­l'ora in cui il figlio gli dirà: «Padre, io non son degno d'esser chia­mato tuo figlio!», perché allora il padre buono potrà dargli il bacio di pace che arde di esser dato. Si è fiduciosi perché quando sappiamo di doverci presentare a un Buono si ha sempre fiducia, e qui sappiamo che ci presentiamo al Buono per eccellenza.
   Tutte queste cose generano amore perché l'amore attira e genera l'amore, e quale amore potremmo trovare più grande di quello di Dio? L'amore infine predispone in noi l'anima a sempre maggiore umiltà, tranquillità, riconoscenza e fiducia. Sono virtù che si completano l'una coll'altra e mettono moto di ascesa nell'anima nostra come i diversi ingranaggi di un orologio dànno moto alle sfere.
   Anche ora, dopo 23 anni, ricordo quel tempo come un grande periodo di grande rassegnazione. Ora è molto più grande il mio coscienteamore per la Croce e per il Dio della Croce. Ma appunto perché il mio amore ormai ha raggiunto la vetta oltre la quale non si può salire, a meno di non restare fulminati dall'incendio della carità, la vetta sulla quale si gusta il Dolore come la più grande gioia, sulla quale si vede la Verità in tutta la sua pienezza, sulla quale «ostia con l'Ostia e ostia per l'Ostia» ci poniamo volontariamente sulla croce — gridando con Jacopone da Todi: «O croce io m'appicco e a te m'aficco, / ch'io gusti morendo la vita! / Per te voglio pasmare, Amor che io teco sia, / Amor, per cortesia, fanme morir d'amore!» — appunto per tutto questo non ho più bisogno di rassegnazione. Essa è stata assorbita dall'amore.
   Onde io non mi rassegno a soffrire e a morire, ma devo chiedere a Dio la grazia di rassegnarmi a vivere e a non soffrire perché per me la morte è vita, il dolore è gioia e d'altro non temo che d'esser schiodata dalla mia croce. L'ho chiesta, l'ho avuta. Su essa voglio restare, su essa morire, con essa, come mia arma nobiliare, voglio entrare in Cielo.
   Maria Valtorta è morta da anni. Ora c'è Maria della Croce. È il mio feudo, la mia corona nobiliare, la mia ricchezza, e tutte le regge della terra, tutti i feudi, le ricchezze, le corone mi sono nulla, un nulla tanto nulla che non lo guardo neppure, rispetto a questo legno santo, a questa ricchezza di ferite, a questa porpora di sangue, a questo feudo composto di un patibolo, a questa corona fatta di spine, a questa agonia fatta di canto e di riparazione, a questo Tutto, tanto Tutto che su di esso, con cura gelosa, tengo sempre fisso lo sguardo e che, con ancor più geloso affanno, tengo stretto contro me stessa perché non mi venga tolto il mio tesoro.
   Gesù mi dice, mentre insieme soffriamo sul legno: «Non ti spaventare di ciò che ancora hai da patire. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona di vita. Conserva ciò che hai affinché nessuno prenda la tua corona». E io, guardandolo negli occhi amorosi, baciandolo sulle labbra divine, bevendo le sue lacrime, nutrendomi del suo sangue, ritmando i miei palpiti coi suoi, cuore contro Cuore rispondo: «Sì, Signore, mio Dio, mio Redentore, mio Re e Maestro, sì, mio Amore! Con la tua grazia sarò fedele fino alla morte. Grazie della gioia di soffrire».
  

   Stavo così male che il colonnello pensò essere giusto dare al figlio l'estrema gioia di vedermi ancora una volta.
   Quel bravo uomo deve aver pensato: «Se Maria muore, mio figlio avrà avuto l'ultima soddisfazione di poterla salutare. Se campa, questo è il momento di strappare a sua madre il consenso. È così accasciata che non reagirà!». Poveretto! Si illudeva, e molto!
   Il buon uomo parlò a mamma nel salotto da ricevere, poi venne da me glorioso e trionfante, sicuro di aver risolto tutto. Mi accarezzò con vero affetto paterno e mi sussurrò: «Sii felice, guarisci. Tutto è a posto!».
   Eh! infatti!… Partito lui, venne mamma. Non mi assalì di rimproveri e fu già molto col suo carattere. Ma spezzò tutto.
   A me disse che lei non era contraria in tutto, ma che dopo una malattia come questa voleva vedere se io guarivo bene prima di dare il consenso. Ero persuasa che agiva bene? Risposi di sì. Esaurita come ero, mi bastava che lei non mi torturasse con una delle sue solite scene. E infine la sua proposta era giusta. Dunque risposi di sì.
   Allora mi disse che a Mario avrebbe scritto lei e così pure avrebbe combinato tutto lei col colonnello, ecc. ecc. Andava bene? Sì, andava bene. Ero commossa da tanta inaspettata dolcezza e, con quelle poche forze che avevo, ne ringraziavo, nell'intimo, il Signore. Le lacrime mi rigavano il volto. Lacrime di debolezza, di gioia, di riconoscenza.
   Mamma mi disse: «Ora però devi dirmi con schiettezza a che punto siete, come avete fatto a scrivervi, quando vi siete combinati, chi vi ha esortati a continuare. Io non rimprovero nessuno ma voglio sincerità».
   Era troppo giusto, non le pare? Anche io, col salmista4, dico: «Ho avuto fede e per questo ho parlato, ma sono stata oltremodo umiliata» perché, più ancora che per la mia vice-superiora che aveva avuto dure parole, dovetti poi dire che con me tutti erano menzogneri.
   Mi aprii con mamma, e con che frutto? Lei, al colonnello venuto il giorno dopo, non so di preciso che cosa disse. Ma da quello che in seguito ho potuto racimolare usò il mio nome per dire che io intendevo essere lasciata in pace e l'autorizzavo a fare le mie veci per rendere la parola a Mario, giudicando che era bene fare così, ora più che mai, dato il mio stato che avrebbe potuto lasciare conseguenze. E Mario fu liquidato.
   Il colonnello voleva parlare con me, ma mamma lo impedì nel più fiero dei modi. Lei vede che tuttora io ho sempre… l'onore della sorveglianza materna quando qualcuno è con me. Mi pare di essere un carcerato nel parlatorio sotto la vigilanza dei secondini… Ma ora sono al terreno e qualche volta mi riesce parlare a quattr'occhi con la gente. Allora ero ad un secondo piano, in un appartamento dalla porta sempre chiusa a chiave e catenaccio. Mamma non mi lasciava mai sola e non usciva mai di casa. Perciò non potei più vedere il colonnello. Liquidato lui pure.
   Terza nella liquidazione: la signora amica con la quale io e Mario ci eravamo confidati. Una scena feroce e tutto fu finito col mettere per sempre alla porta quella signora.
   Quarta fu l'amica di quella signora per tema che servisse da tramite. E così via. Fuor che il medico, non vidi più nessuno, perché mamma significò a tutti che non riceveva più nessuno. Ciò fece nascere molte dicerie nel vicinato, non ultima quella che io stavo per avere un bambino…
   Quando dopo tre mesi mi alzai — perché volli alzarmi, ma avevo ancora forti febbri e dolori — dopo soli otto giorni mamma mi portò a Montecatini. La casa di Viareggio l'avevamo venduta nel 1918, e poi Viareggio era troppo frequentata da amici comuni di Mario e nostri… A Montecatini dunque, con la scusa di farmi cambiare aria e di fare lei la cura delle acque. Ma la realtà era che nell'appartamento non mi poteva certo tenere murata per sempre, e col luglio Mario, ormai ufficiale, veniva a Firenze in licenza…
   A Montecatini voleva anche farmi fare non so che stregoneria per levarmi Mario dal cuore. Mamma a certe cose ci crede… Ma io mi ribellai. Ho una paura nera di simili arti…
   Restammo a Montecatini 50 giorni. Il tempo necessario per essere sicuri che Mario era ormai imbarcato e suo padre ai fanghi di Salsomaggiore o di altra stazione termale. Dovetti rimanere sempre chiusa in casa per i rimanenti giorni fino al 20 settembre, giorno in cui partimmo per Reggio Calabria. Più lontani di così!…
   Mamma non aveva mai accettato l'invito dei parenti per andare là. Ma ora le tornava comodo e ci fece partire. Firenze non era propizia al suo giuoco. Papà poteva incontrare Mario o il colonnello, e mio papà ubbidiva alla moglie finché era lei presente, poi, anche senza volere, dimenticava le raccomandazioni di lei e diceva quello che lei gli aveva imposto di non dire. Io non potevo rimanere sempre reclusa. Dunque… via tutti. Cosa questa che sempre più accreditò il chiacchiericcio che io dovessi avere un figlio.
   Umanamente parlando le dico che sarebbe stato meglio. Avrei avuto la mia creatura e poi mamma, davanti a tale realtà, avrebbe per sempre deposto il suo despotismo. Non le sarebbe parso vero allora di sposarmi a Mario!…
   Partimmo dunque senza lasciare indirizzi a nessuno. Solo il padrone di casa — il medico — lo ebbe per via delle tasse. Ma mamma opinò che di questo vecchio ci si poteva fidare.
   Così io, dal 17 marzo in poi, avevo messo il naso fuor di casa solo per partire all'alba per Montecatini, per partire alle 23 per Reggio Calabria. Quando tornammo da Montecatini erano le 22. Perciò posso dire che dal 17 marzo io non vidi più le vie e le persone di Firenze.
 


   Clotilde era Clotilde Morello, moglie di Giovanni Battista Belfanti, uno dei cugini di primo grado di Iside Fioravanzi, madre di Maria Valtorta. I suoi due figli si chiamavano Luigi (detto Gigi) e Guglielmo (detto Memmo).

  2 Potevo proprio dire, citando liberamente: Salmo 84,4; 116,11.

  3 queste parole sono tratte da: Isaia 55,7; Ezechiele 34,16.

  4 col salmista, in: Salmo 116 (volgata 115), 10-11. I testi biblici sono citati da Maria Valtorta secondo la volgata in uso ai suoi tempi: in certi casi (come qui e nella nota2) essa differisce molto dalle nuove traduzioni.

MV a 19 anni

 

 MV a 22 anni e 1/2